Divulgatore per un giorno - "Alla prima della Sagra mi arrabbiai e non poco"

Da quando è nata, Quinte Parallele cerca di incuriosire i lettori più familiari e di avvicinare sempre più persone interessate alla grande musica classica (e non solo) attraverso articoli e contenuti divulgativi di vario genere, lavorando con passione ed entusiasmo. Tra le mission fondamentali della rivista, però, c’è anche quella di dare libero spazio di espressione a giovani scrittori che vogliano raccontare, a modo loro, la musica in tutte le sue molteplici sfaccettature e declinazioni.
In quest’ottica nasce la rubrica “Divulgatore per un giorno”, curata dal nostro Marco Surace, che negli scorsi mesi ha guidato un gruppo di studenti di musica del Conservatorio Franco Vittadini di Pavia nella ricerca della loro personale voce e della loro identità di divulgatori musicali.

L’articolo che apre la rubrica è una sagace “intervista impossibile” di Fausto Villa a Igor Stravinskij.


 

“ALLA PRIMA DE LA SAGRA MI ARRABBIAI, E NON POCO”
Di quando Stravinskij mi parlò di prime agitate e amicizie non proprio facili

 

Nell’inverno del ’68, mentre in Europa si erano da poco spenti gli ultimi echi di quel famoso maggio, la redazione de Il Tempo mi spedì in Russia, con l’intento dichiarato di portare a casa un’intervista al grande musicista russo Igor Stravinskij, fresco di composizione dei Due Canti Sacri di Hugo Wolf.
Al direttore, tuttavia, non interessava assolutamente nulla di quell’opera: lui voleva fortissimamente che mi facessi raccontare i dettagli più “sugosi” di uno degli eventi più sconvolgenti della storia della musica: la prima de La Sagra della Primavera, che generò tumulti nemmeno fosse una sommossa popolare.
Fu così che, mentre passeggiavo sulla Prospettiva Nevskij, per caso vi incontrai Igor Stravinskij, il quale accettò di buon grado l’intervista, ma solo dopo aver ricevuto la rassicurazione che ogni consumazione da lui presa nel bar nel quale entrammo per riscaldarci gli sarebbe stata offerta.
Accettai di buon grado, conscio che il giornale non mi avrebbe mai rimborsato.
Di ritorno in Italia, scoprii che il giornale aveva cambiato proprietà, i vertici della redazione erano stati sostituiti e – soprattutto – della mia intervista non interessava più nulla a nessuno.
A distanza di quasi quattro anni, e a pochi mesi dalla sua scomparsa, ripropongo quel dialogo a tratti surreale che ebbi con Igor Stravinskij, tra un bicchiere di vodka e un punch al mandarino.

Sig. Stravinskij, ma lei cosa si ricorda di quel 29 maggio 1913?

Cosa ricordo… Beh, ricordo che mi trovavo al Theatre des Champs-Elysées, innanzitutto!

E fin qua siamo tutti d’accordo, come sul fatto che lei sia notoriamente un  burlone. Ma non eluderà la mia domanda, e – soprattutto – la curiosità mia e dei lettori: mi riferisco alle reazioni scandalizzate che generò la prima della sua Sagra della Primavera.

Beh adesso, “scandalizzate” mi sembra un po’ esagerato. Claude, ad esempio (Debussy, n.d.r.) non fu così negativo, tant’è che mi scrisse queste parole:

“Ho sempre impresso nella memoria il ricordo di quando, a casa di Laloy, suonammo la vostra Sagra della Primavera… Mi ossessiona come un magnifico incubo e cerco, invano, di rievocare quell’impressione terrificante”.

Insomma, carino no? Tenga conto che la Sagra deve più a lui che a qualsiasi altro compositore, nel bene (il Preludio) come nel male (la seconda parte ancora oggi mi sembra un po’ mollina, penso alla parte che va dalla prima entrata del duo di trombe con sordina fino alla Celebrazione dell’eletta). Cosa stavo dicendo? Ah sì, recensioni positive! Ravel, me lo ricordo uscire dal teatro urlando “Genio!”.

Ravel e Stravinskij

Ravel e Stravinskij

Ci fu pure quel poeta italiano, quel tale, come si chiama? D’Annunzio, ecco! Lui me lo ricordo, mentre dal suo palchetto vomitava insulti
irripetibili – ma solo perché non conosco bene l’italiano, altrimenti sarebbe molto divertente riproporli qua oggi (ridacchia, n.d.R.) – nei confronti di quelli che mi urlavano contro.

Allora vede che c’era qualcuno che non era esattamente, come dire, ben disposto nei suoi confronti!

Ma per carità, non le negherò il gossip che va cercando! Ma vede, ci tengo a ribadire che io non avevo avuto sentore alcuno di ciò che sarebbe successo. I musicisti che avevano ascoltato le prove d’orchestra erano sembrati sinceramente interessati alla musica. Però sì, a quella prima si sentì la gente mormorare fin dall’inizio.

Oh bene, e allora ci racconti, cosa aspetta?

Ricordo che quando si aprì il sipario su quel gruppo di Lolite dalle lunghe trecce e gambe incrociate che saltavano su e giù, iniziò il finimondo. Alle mie spalle si levarono grida di “Ta gueule!” (“Silenzio!”, n.d.R); Florent Schmitt (compositore francese amico di Stravinsky, n.d.R.) provò a difendere l’onore del balletto replicando con “Taisez-vous, grues du seizième!”. Le grues del sedicesimo arrondissement erano le prostitute più eleganti di Parigi, sa…
Fu a quel punto che io lasciai il teatro furioso: non si sentiva più niente, e pensi che sedevo vicinissimo all’orchestra! Non mi sono più arrabbiato così tanto. Amavo quella musica, e non capivo perché la gente non facesse altrettanto: peggio, protestavano prima ancora di averla ascoltata!

Ma dell’esecuzione in particolare, cosa ricorda?

Beh, ricordo il direttore, Monteux, impassibile sul palcoscenico come un capitano sulla nave che affonda. Sembrava un coccodrillo, tanto era impettito. Non so come abbia fatto a far terminare l’orchestra.
Quel cagnaccio di Djagilev se ne uscì poi con “Esattamente quello che volevo”.  Sicuro stava pregustando il putiferio fin da quando gli avevo suonato la partitura l’agosto del ’12 a Venezia.
La prima dell’anno successivo: quella sì che me la ricordo con piacere invece! Fu proprio un successo, sa? Perché non parliamo di quella?

Saint-Saëns non la pensava esattamente così…

Oh, la smetta: Saint-Saëns, a sentire “voi”, se ne sarebbe andato via all’assolo di fagotto durante la prima, ma io non ricordo nulla del genere. Mi sarà sfuggito, piccolo com’è… E poi guardi, alla prima seguirono cinque repliche, solo che io non potei assistere a nessuna di queste perché mi presi il tifo e me ne dovetti stare a letto per  quasi due mesi, per cui la memoria non può essere quel granché.
Ricordo che vennero a trovarmi Puccini e Ravel, ma Djagilev no: aveva paura che lo contagiassi, il fifone. Per lo meno mi pagò le spese ospedaliere…

Ora le leggerò cosa disse Schoenberg del suo Oedipus Rex: “Non so che cosa dovrebbe piacermi nell’Oedipus. Ogni cosa è soltanto in negativo: non il solito teatro; non la solita messa in scena; non il solito svolgimento della vicenda; non la solita vocalità; non la solita recitazione; non la solita melodia; non la solita armonia; non il solito contrappunto; non la solita strumentazione: tutto è soltanto «non» senza essere qualcosa di definito. Insomma, io ce l’ho messa tutta, ma credo proprio che non valga nulla”.

Guardi, glielo dico subito: non provi a fare l’Adorno della situazione e mettermi contro Schoenberg. Innanzitutto i morti non possono parlare, e poi dovrebbe anche citare ciò che disse di Petruška allora. E Petruška gli piacque, eccome.

I morti non parleranno, è vero, ma mi risulta che lei conobbe Schoenberg mentre era ancora in vita: come avvenne il vostro incontro?

Ebbi il primo contatto con lui tramite il Pierrot Lunaire, e ricordo che mi fece una grande impressione. Lo incontrai solo in seguito a Berlino, non ricordo più come. Era piccolino, e lo dico io che sono alto un metro e cinquantanove! Calvo, con una ghirlanda di capelli neri intorno al bordo del cranio bianco, sembrava una maschera del teatro giapponese. Aveva orecchie grandi e una voce morbida, profonda, occhi sporgenti e fieri, focosi.
All’epoca non sapevo che prima del Pierrot c’erano lavori come Erwartung o i Cinque pezzi per orchestra che oggi noi tutti riconosciamo come il centro dello sviluppo del nostro linguaggio musicale. (Noi tutti, oddio… un gruppetto esiguo in realtà, dato che la maggior parte dei compositori continuano a brancolare nel buio).
Anni dopo, nel 1919, ricevetti una sua lettera in cui mi chiedeva pezzi della mia musica da camera da includere nei suoi concerti viennesi.

E poi?

E poi, ci creda o no, di lui non sentii più nulla fino alla Suite op.29 nel ’37, e al Prelude to Genesis a Hollywood nel ’45. A Hollywood avremmo ben potuto
scambiare qualche parola, dato che ci trovavamo contemporaneamente nella sala di registrazione, ma eravamo seduti ai lati opposti, e tutto svanì così.

Quando lo vide per l’ultima volta?

Era il ’49, ed apparve sul palco per leggere un discorso di ringraziamento delicatamente ironico per la cittadinanza onoraria di Vienna conferitagli dal console austriaco. Ricordo che si rivolse ripetutamente al console col titolo di “Eccellenza”, e che lesse da grandi fogli che tirava fuori di tasca uno per uno: era debolissimo di vista, e ogni pagina conteneva solo poche parole.
Ad ogni modo, nemmeno un anno dopo la sua morte, Hans Rosbaud mise nello stesso programma a Parigi l’Erwartung e il mio Oedipus rex. Chissà come avrebbe reagito…

 

 

In ultimo le chiederei di soddisfare una mia grande curiosità: cosa mi può raccontare di Rachmaninov? So che ne è stato amico negli ultimi anni di vita in California.

Lei dice “amico” ma mi creda: per mantenere i rapporti sociali con lui bisognava impegnarsi parecchio. Ha presente la sua musica? Il mondo emotivo che ne esce?  Ecco: lui di persona era l’opposto. Due metri di un uomo tutt’altro che espansivo. I rapporti, più che altro, li dovevo tenere con la moglie, perché lui non apriva mai bocca.
Nell’estate del ’41 una mattina mi alzai, aprii la porta d’ingresso e vi trovai davanti un vaso di miele. Me l’aveva portato lui di notte, per scongiurare il rischio di incontrarmi, dopo che un nostro comune amico russo gli aveva riferito che ne andavo ghiotto.

Sappiamo che considerava il suo Uccello di fuoco la più grande creazione di tutta la musica russa.

Così mi hanno detto, ma a me sembrava che per qualche strana ragione lui avesse paura di me. Gli avevano riferito che la sua musica non mi piaceva, ma la verità è che all’epoca componevamo semplicemente in modo molto diverso. Quando penso a lui, il suo silenzio mi appare nobilmente in contrasto con l’autoincensamento che è la sola materia di conversazione della maggior parte dei pianisti. Inoltre, era il solo pianista che non facesse smorfie quando suonava: questo dice molto…
Le racconto questa e poi la lascio, ché ho una certa età e gli occhi cominciano a essere stanchi presto, e qua parlo solo io.

Beh Mr. Stravinskij, per forza: è un’interv…

Non mi interrompa e senta qua. Durante una cena, la moglie mi chiede “Cosa fa per prima cosa quando si alza al mattino, Igor’ Fëdorovič?”.
Al che rispondo: “Per un quarto d’ora faccio degli esercizi imparati da un ginnasta ungherese maniaco della Cura Kneipp, un tale di nome Siposs. O meglio, li facevo finché ho scoperto che costui era morto giovane e all’improvviso. Poi sto ritto sulla testa contro il muro, quindi faccio la doccia”.
La moglie a quel punto si gira e dice: “Ecco, Sergej. Stravinskij fa la doccia. Che cosa straordinaria. Dirai ancora che hai paura della doccia? E hai sentito,
Stravinskij dice che fa ginnastica! Che ne pensi? Vergognati, tu che a stento fai una passeggiata”.
Sa cosa le rispose lui?

Cosa?

Niente, che domande mi fa?! Ma mi è stato ad ascoltare fino ad ora?

 

Fausto Villa

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