La direzione come servizio: in conversazione con Giuseppe Mengoli

Giuseppe Mengoli è vincitore della Mahler Competition 2023, primo italiano nella storia del concorso. Semplice, concreto, musicalmente intelligente. Giuseppe si è distinto per la sua umanità, la sua verità artistica e la sua capacità di far distendere in pochi minuti di prova i volti di tutta la Bamberger Symphoniker, con la quale sono previsti diversi concerti e un’incisione nella prossima stagione.

Profondissimo studio, istinto viscerale e totale libertà dai brutti scherzi dell’ego, la conversazione con Giuseppe è un incontro con un artista servitore della sua arte, il musicista che molti giovani ambiscono a diventare.

 

Giuseppe Mengoli durante la premiazione della Mahler Competition 2023. Photo Credits: Marian Lenhard

 Questo è il tuo primo grande concorso di direzione internazionale. Ci sono degli obiettivi artistici e personali che ti sei posto, al di là della vittoria naturalmente, durante la preparazione? Senti di averli raggiunti?

La risposta più onesta viene direttamente da un desiderio profondo e costante del mio bambino interiore. L’obiettivo era arrivare al concorso come l’essere umano e il musicista dei miei sogni, sormontare ogni difficoltà e carenza tecnica, o del vivere quotidiano. Volevo usare quest’occasione per perfezionare l’essere umano e l’artista nella sua interezza. Naturalmente c’è stato anche un lavoro sporadico di razionalizzazione, tutto quello che ci diciamo noi musicisti quando ci prepariamo a un concorso. “La userò in ogni caso come occasione di crescita” e tutte quelle frasi che ci servono anche per sopravvivere all’enorme e costante pressione che esercitiamo nei nostri confronti.

E c’è dell’onestà anche in questo: volevo profondamente un salto di qualità. Allo stesso tempo, già dopo aver iniziato a lavorare sulla Settima di Mahler, ho realizzato che questo concorso mi aveva già fatto un grande regalo: mi aveva permesso di scoprire e amare questo capolavoro, cosa che al primo ascolto non era accaduta, soprattutto in alcuni movimenti. Già questo ha aperto le porte a un’attitudine di gratitudine nei confronti del concorso. Da questo punto di partenza ho messo moltissimi aspetti di me in discussione, con non poca resistenza e difficoltà, elementi che senza dubbio accompagnano la vita dell’artista che cerca di superarsi ogni giorno.

Cos’hai scoperto di te e delle tue capacità?

Prima di tutto ho scoperto che ci sono tantissime persone che vedono in me ciò che io sto ancora scoprendo, e questo è stato per me è stato di grande supporto. In qualche modo io non mi fido – e credo che sia parzialmente una sorta di mentalità contadina meridionale che ho ereditato – del complimento, penso sempre che le persone che credono ciecamente in me non abbiano una visione completa della mia persona. Tendo ad avere un approccio di profondo giudizio quotidiano nei confronti delle mie azioni. In qualche modo ascolto di più quelle che credo io siano le mie mancanze, rispetto alle opinioni e al supporto anche di persone molto autorevoli.

Ho ricevuto fiducia totale e cieca da parte di tante persone che mi hanno conosciuto in profondità come Viotti, Currentzis così come colleghi e diversi artisti che mi hanno supportato durante la preparazione; sembrava nessuno avesse dubbi al di fuori di me. Questo mi ha in un certo senso messo alle strette e mi ha parzialmente convinto a fidarmi un po’ di più di me stesso. Per quanto l’ideale che volevo raggiungere fosse al di là di quello che erano le mie capacità, nel tempo ho capito che la qualità non può essere figlia solo della preparazione, ma anche dell’esperienza, dell’approccio della tua preparazione nei confronti dell’ambiente nel quale ti esprimi e dall’attitudine che si ha nei confronti di ciò che si crea ogni giorno.

Photo Credits: Clara Evens

Non si può essere perfettamente preparati come si vorrebbe essere, quindi si può fare solo il proprio meglio, mantenendo le proprie vedute il più più possibile ampie e aperte. Per esempio, se all’inizio della preparazione ho lavorato sulla profonda analisi della partitura, sia nel dettaglio, sia nella comprensione non solo dello scheletro strutturale, ma anche del suo lato muscolare, che tende e distende il materiale musicale, ho dovuto poi fare i conti con la realtà. Le mie qualità di direttore avevano ancora bisogno di tempo per essere sviluppate, così come le mie capacità comunicative.

A giugno, nonostante avessi già organizzato orchestre da camera, prove con cantanti e solisti, conferenze con esperti di prassi esecutiva, finalmente libero da impegni lavorativi, mi sono sentito comunque non pronto, e ho dovuto reinventare il mio metodo di studio. Ho cercato di capire quali fossero i miei punti forti, di cosa avessi bisogno e soprattutto ho affinato i miei strumenti, lavorando profondamente e ossessivamente su me stesso, sulla chiarezza del mio pensiero e quindi del mio gesto. Questo sentirmi inadatto a a creare quello che volevo mi ha permesso di reinventarmi.

Durante il concorso hai percepito un cambiamento improvviso individuale dopo una prova in particolare o pensi che ogni round sia stato in qualche modo un’esperienza autonoma?

Sicuramente dopo il primo round c’è stato un cambio radicale a livello emotivo. Alla fine della prima prova mi sono davvero commosso, forse anche per un rilascio di tensione. Trovarmi dopo mesi di attesa in vista quest’evento che sembrava così lontano nel tempo, il successivo panico delle tre settimane prima del concorso, e arrivare finalmente al mio turno, vederlo funzionare, mi ha fatto sentire meritevole di essere lì, in un certo senso la realtà ha corretto l’aspettativa eccessiva che avevo nei miei confronti. Ho avuto anche momenti di difficoltà sul palco, una mia sensazione smentita da giuria, ascoltatori e orchestra.

Nel terzo round, per esempio, non riuscivo a sviluppare un piano della prova. Nella mia stanza, prima di ogni round, studiavo mettendo un timer e immaginavo di riuscire a provare tutto il programma entro i tempi, ma in questo round non ce la facevo. Ho dovuto fare un voto di fiducia nei miei confronti, e mi sono imposto con gentilezza di fidarmi del mio istinto.

Ho affrontato la prova con la volontà e l’apertura di scoprire di che cosa avesse bisogno l’orchestra e la musica, interagendo con quello, senza preconcetti. È stato forse il round che ha avuto più successo, forse proprio perché ho lasciato che le cose funzionassero senza troppa pianificazione. Ho davvero lasciato che il mio corpo e la mia mente mi comunicassero ciò di cui avevano bisogno, e mi sono lasciato guidare da questa bussola interiore, senza forzarmi a costruire un piano pensato nei minimi dettagli e seguirlo a ogni costo.

Coordinare anziché controllare.

Esatto, avrei potuto rispondere con tre parole. (ride)

Personalmente mi ha sconvolto – anche al di fuori del concorso, ma in una situazione di tale stress mi ha particolarmente impressionato – vedere così chiaramente un elemento fondamentale della tua attitudine sul palco e con l’orchestra. Hai una grandissima capacità di trasparenza nei confronti dei musicisti che è però scevra di passività nei confronti della risposta dell’orchestra. Il tuo approccio ha un’esposizione concettuale e comunicativa perfetta, con grande carattere e che però non sfocia mai nell’ego, o in un vago senso di prevaricazione, né in un attaccamento affettivo nei confronti del ruolo che ricopri.

Traspare la tua volontà profonda di aprire il tuo mondo musicale ai musicisti che hai davanti ed è secondo me la chiave per essere un grande musicista. A me sembra un po’ parte della tua identità individuale e musicale, un intento che tu ti sei sempre posto. Credo e spero che sia un equilibrio raggiungibile. È qualcosa sul quale hai lavorato e che hai sviluppato? Se sì, come?

Allora, prima di tutto potresti stampare questa tua descrizione così me l’appendo in camera? (ride di nuovo)

 Ma è vero!

Così ci faccio una preghierina ogni sera… A parte gli scherzi, la domanda che mi poni centra uno dei punti più privati della mia crescita musicale che non ho mai discusso con nessuno, quindi complimenti per il centro. Sono sempre stato caratterialmente molto deciso e testardo: puoi chiedere a Giovanni Gnocchi della nostra prima esperienza in quartetto insieme quando avevo circa la tua età. Facevamo il secondo quartetto di Korngold, un quartetto di Haydn e il secondo di Brahms, e io mi sono presentato con la mia partitura, l’analisi e l’idea che mi ero fatto.

Ogni cosa che diceva Giovanni che differiva dall’immagine che avevo della partitura, aveva una mia reazione tendenzialmente ostile. Ero così, e ricordo che mi diceva spesso: “Mengoli, tu devi un po’ calmarti”, una frase che mi hanno detto e mi dicono spesso giocosamente anche i miei più cari amici. Questo mio trasporto e ricerca viscerale della partitura è sempre stata una mia caratteristica.

La carriera di direttore è qualcosa che non ho scelto, ma nella quale sono stato in un certo senso indirizzato dal mio mentore in quegli anni, Alessandro Zignani. Forse la vedevano gli altri, ma non io. È stato lui a notarmi durante a una prova, in cui ero spalla dell’Orchestra Nazionale dei Conservatori. In quell’occasione fummo lasciati soli, senza direttore. Io presi l’iniziativa e chiesi ai musicisti di fare la prova senza di lui. Rimasi al mio posto e cominciai a interagire, a dare gli attacchi con gli occhi, dicendo e proponendo delle idee seguendo solamente il mio istinto. Dopo la prova venne da me e mi disse che ero già un direttore e che avrei dovuto iniziare a studiare seriamente per diventarlo.

Questo forse gioca a favore della tua tesi, perché non è una posizione che ho desiderato e voluto, né una scelta spinta dall’ego, bensì una conseguenza del mio approccio. Allo stesso tempo, ci sono stati momenti durante i miei studi a Cesena e il periodo di solitudine a Berlino, dove passavo le giornate a cercare partiture dagli antiquari, ascoltare vinili e immaginare per ore e ore, e mi sono chiesto continuamente: “Perché fare il direttore?”. Non volevo votare la mia vita a un mero bisogno o ambizione, elemento contro il quale in quegli anni ho lottato fermamente: non volevo e non voglio vivere sulla base di un bisogno da soddisfare compulsivamente.

Doveva, deve esserci un motivo più profondo; l’arte come celebrazione di sé è la sua morte. Il mio è stato dunque un voto gradualmente sempre più conscio nei confronti della verità, della partitura e dell’arte in sé. Volevo raggiungere la verità intrinseca della partitura, quasi atrofizzando per un periodo i miei bisogni di riconoscimento ed espressione puramente viscerale, perché non volevo che dettassero le mie decisioni, una tentazione facile.

Ho capito poi dopo che l’istinto che sforzavo di tenere celato sarebbe diventato il mio pozzo di verità. Solo allora, poco tempo fa, ho connesso questo istinto ormai pronto a riemergere a una preparazione profonda di trasparenza analitica. Ho fatto di questa coesione la più grande forza propulsiva per raggiungere i miei obiettivi. I mattoni di cemento armato della consapevolezza sono resi mobili e fluidi dalla percezione originaria della musica, quella immaginifica e plastica.

L’istinto a sé è un elemento che può portarti lontano ma è spesso dettato dal gusto, e il problema di entrambi è che, in un mondo sovrastimolato di informazioni uditive e musicali, dall’infinità di informazioni che abbiamo, ci abituiamo a desiderare qualcosa che ci è piaciuto, ma non sappiamo se è vero. Per me questo è un grande problema, e ho cercato di eliminare ogni desiderio musicale emerso da un ascolto, mantenendo come priorità una profonda coesione con la partitura. Mi sono fatto fin troppe domande fino quasi a paralizzarmi, ma ora quest’approccio crea in me una struttura architettonica, un edificio nel quale poi avere la libertà di muovermi.

A quel punto si è davvero liberi ed è quello il momento di fare scelte coraggiose, combattere per le proprie convinzioni, proprio perché non dettate da un’opinione, ma da lunga ricerca e devozione. Tutto questo, però, sempre con grande flessibilità. Questo l’ho imparato questo da Viotti. La flessibilità nasce dalle potenzialità del momento presente: l’energia dei musicisti, l’acustica, la concentrazione del pubblico. Ho deciso di trarre soddisfazione dal servire: non è mia intenzione essere portatore di verità, ma solo suo servitore. Questo approccio polarizza radicalmente ogni azione in fase di studio e sul palcoscenico, ma credo che tu abbia capito e che ora riuscirai a sintetizzare tutto in tre parole.

(ride) A proposito invece della tua esperienza di Konzertmeister con la Gustav Mahler Jugendorchester, che cos’hai trascinato via da questo ruolo verso la direzione?

Tante, tantissime cose. La cultura sul suono, la coesione sonora e l’annullamento di sé all’interno di un gruppo, ereditate dai tutor e dei direttori nel corso dei numerosi tour ai quali ho preso parte. Il ruolo di Konzertmeister che ho svolto per molti anni mi ha anche sicuramente preparato e aiutato a sviluppare le mie abilità di direttore.

Il mio insegnante di direzione a Weimar, Nicolás Pasquet, per esempio, sapeva fin da subito della mia formazione violinistica e di spalla. Ogni volta che avevo delle difficoltà tecniche e d’espressione, lui mi chiedeva di respirare, dare gli attacchi come se avessi il violino in mano. Subito mi diceva che era così che avrei dovuto dirigere. La mia formazione strumentale non ha mai visto il violino come uno strumento staccato da me stesso. Era sempre corpo che si muove ed esprime, e così ho cominciato ad avere lo stesso atteggiamento anche senza strumento.

L’esperienza di spalla mi ha permesso anche di vivere profondamente l’influenza psicologica del direttore nei confronti dell’orchestra. Nell’ultimo lunghissimo tour sono stato estremamente severo, c’erano moltissimi musicisti che non avevano mai suonato in quest’orchestra. All’inizio non c’era il suono e l’attitudine che la contraddistingue, abbiamo dovuto costruire tutto da zero. Ho dovuto però anche imparare a creare un ambiente di grande supporto, non solo di disciplina. Fare la spalla mi ha insegnato a essere molto aperto con i musicisti intorno a me, specie durante il concerto, con gli occhi e il plesso aperti, adoperando una comunicazione non verbale generosa, che è poi l’essenza della tecnica direttoriale. Mi ha insegnato tanto anche sull’importanza del direttore, su quanto possa essere un grande impedimento per l’orchestra e quanto sia invece estremamente semplice con un grande direttore trovare un equilibrio tra quello che lui offre e quello che noi orchestrali facciamo.

Mengoli all'opera

Giuseppe Mengoli con la GMJO diretti da Teodor Currentzis in occasione del Salzburger Festspiele. Photo Credits: Marco Borrelli

Dato che stiamo parlando di situazioni complesse, raccontami un po’ dell’ultima esperienza con i Wiener Symphoniker, che hanno anche fatto rimandare quest’intervista, tra le altre cose. Immagino il senso di responsabilità enorme che devi aver sentito non solo a trovarti di fronte a un’orchestra del genere, ma a maggior ragione l’aspettativa tua e dell’orchestra nei confronti di un giovane direttore reduce di una vittoria così importante e recente.

Quella giornata la immagino come quelle celebri valanghe dei cartoni animati, che cambia continuamente colore perché il ruzzolone prende sempre più personaggi nel corso della sua discesa. Mi è arrivato dal nulla questo messaggio sul treno per Monaco, in viaggio verso Salisburgo, chiedendo di sostituire un direttore indisposto. I miei manager davano per scontato che non avrei accettato, considerando il concorso appena terminato e il programma del concerto molto difficile.

La proposta arrivò intorno alle 17 con la prova il giorno dopo alle 10:30. C’è da dire che sono un esperto nell’arte dell’improvvisarsi in situazioni al limite: a 12 anni suonavo l’organo per la diocesi e ricordo che dovevo improvvisare le tonalità spesso modulando nel corso del canto per assecondare i fedeli, suonavo musica popolare con mio padre improvvisando costantemente tempi e melodie e poi, negli anni successivi, ho sostituito spesso all’ultimo momento violinisti e direttori in ogni occasione immaginabile. Mi trovai quindi a dire di sì quasi subito, anche se dentro sentivo che una parte di me avrebbe forse rifiutato.

Ein Heldenleben, in particolare, non l’avevo mai diretto, ma lo conosco molto bene perché l’ho suonato molte volte. Ormai sul treno per Salisburgo, arrivato davanti all’appartamento realizzai che avrei dovuto fare dietrofront e resistere all’impulso di salire e riposare. Sapevo che sarei dovuto arrivare la sera stessa a Bregenz e così ho fatto, tornando a Monaco da dov’ero appena arrivato. Studio matto e disperatissimo durante la notte e la mattina fino alla prova. Io con il mio stress, i musicisti con i loro, trovatisi a dover preparare una nuova prima metà del programma a due giorni dal concerto, e già impegnati nelle recite di Madama Butterfly ogni sera. Il terzo giorno mi hanno offerto mezz’ora in più, che alla fine non abbiamo quasi usato. Dopo giorni intensi, in concerto siamo esplosi con grande energia, coesione e coinvolgimento.

Il concorso ti ha permesso anche di incontrare Marina Fistoulari Mahler, nipote ed eredità diretta di Gustav. Come ricordi quest’incontro?

Marina è una persona davvero speciale, dolcissima e di grande sensibilità. Lei ha visto in profondità dentro di me e mi ha sorpreso nelle parole che ha avuto per me. Mi ha detto di aver riconosciuto la vera natura della musica di suo nonno nel mio lavoro sul suono e nella partitura. Per me è stato naturalmente un grande onore ricevere queste parole da lei.

Incontrare in carne e ossa un’eredità così importante è un’esperienza molto intensa, ma connettersi con una persona così fragile e allo stesso tempo così forte mi ha veramente emozionato, e fortemente ricordato in qualche modo l’essenza della musica di Gustav Mahler. È davvero difficile da descrivere: è un’anima luminosa, vibrante, leggera e intensa allo stesso tempo. Abbiamo avuto delle bellissime conversazioni ed è stato un onore conoscerla. È una sognatrice, una persona di grande visione e allo stesso tempo di grande centratura e presenza su questo mondo.

Mengoli

La famosa foto nella foto: Giuseppe insieme a Marina Mahler e Jakub Hrůša scattata proprio da Alexander Meraviglia-Crivelli, direttore artistico della GMJO

Alla fine di quest’intervista non vorrei farti la classica domanda sui progetti futuri: oggi ci sono  un’agenzia e un sito web, non serve che te lo chieda io.

È vero, parliamone un’altra volta. Più che parlare di progetti futuri, direi che vorrei provare con tutte le mie forze insieme a grandi musicisti, alcuni anche miei cari amici che sono sulla mia stessa linea, a creare delle connessioni e delle realtà nelle quali profonda arte si possa sviluppare, perché oggi il sistema così com’è  ce lo permette di rado. Ci siamo tutti adattati a fare arte in poco tempo e riusciamo anche a farlo, ma credo si possano massimizzare i propri sforzi in tanti modi. Con amici pianisti abbiamo in programma di vederci periodicamente e di lavorare insieme sulla partitura per settimane, anche nel corso di mesi o anni. Un lavoro che ci permetta, nel momento in cui ci si trova di fronte all’orchestra, di avere una visione comune organica, fluida, organizzata, che ci permetta di comunicare con l’orchestra con grande forza ed efficacia.

L’idea è creare rapporti artistici di grande collaborazione in un mondo frenetico e facilmente dispersivo. Ci sono artisti di grande forza e purezza che sarebbero disposti a presentarsi anche gratuitamente con giorni di anticipo solo per ascoltare le prove, senza neanche suonare, rendendosi partecipi e presenti, pronti a parlare e discutere delle idee da sviluppare. È per me di grande importanza anche comunicare personalmente con il pubblico, prima, durante, dopo i concerti. Rendere il pubblico partecipe dà un’enorme soddisfazione.

Queste e altre idee ci permetterebbero di creare un’onda controcorrente, sempre più desiderata dai musicisti con i quali parlo regolarmente del futuro. Idea che si contrapporrebbe a un consumismo musicale sempre più presente. L’obiettivo è cercare di creare profondità in quello che si fa, anche nelle strutture che richiedono, per ragioni finanziare, grande efficienza e rapidità. Anche questa è efficienza e, in fondo, il nostro dovere di artisti: prendere un treno, incontrarsi e lavorare intensamente su quel concerto, affrontare le idee, ripensandole, e presentare poi sul palco non solo la propria ricerca, ma anche quel rapporto, quella comunicazione tra due musicisti, che racconta una ricchezza tangibile e che parla con grande forza non solo all’orchestra, ma inevitabilmente anche al pubblico.

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