Contrabbasso atletico e un po’ pianista: intervista a Franco Petracchi

Entrando nella chiesa di San Michele Arcangelo di Sermoneta in una giornata di luglio particolarmente calda, l’estremo sbalzo di temperatura e i raffinati affreschi del Quattrocento sono messi in secondo piano dall’immagine di Franco Petracchi che, circondato dai suoi allievi, pulisce cautamente la pece dal suo contrabbasso alla fine di una lunga mattinata di insegnamento.
Dopo aver riposto il gigante di legno nella sua custodia il Maestro, importanza del quale nel campo del concertismo è equiparabile a quello della didattica, ci concede qualche domanda durante la nostra permanenza al Festival Pontino di Musica a Sermoneta.

Come tanti strumenti, il contrabbasso conduce una duplice vita fra orchestra e solismo; qual è la differenza di impostazione di lavoro quando si affronta un repertorio piuttosto che l’altro?

Non c’è nessuna differenza, entrambi vanno affrontati con la stessa cognizione di causa.
La funzione dello studio dei pezzi solistici risiede nella successiva applicazione dello stesso entusiasmo, della stessa tecnica manuale e dello stesso modo di fraseggiare quando si è in orchestra.
Un insegnamento che spesso do ai miei allievi è quello di essere sempre tecnicamente preparati e di non interpretare mai quando è già un direttore a occuparsi di tutti gli elementi relativi al fraseggio; tenere sempre questo a mente rende più facile la creazione di una sinergia fra le qualità orchestrali e quelle solistiche. (Catenaccio)
Il nostro repertorio è limitato… spesso ristretto al sottoinsieme della trascrizione di brani originariamente per violoncello, però vantiamo anche figure che si sono dedicate in modo particolare all’esplorazione delle possibilità dello strumento, fra i quali il nostro personale Paganini (Bottesini) e molti compositori del Novecento musicale.

L’importanza dei compositori appena citati è ulteriormente avvalorata dal fatto che lei ha lavorato sul campo con alcuni, fra i quali Nino Rota e Luciano Berio. In che modo ha contribuito questo lavoro al suo personale percorso con lo strumento?

È stato molto importante conoscere queste grandi figure, un arricchimento incredibile.
Collaborare direttamente con loro ha dato modo di trovare prospettive nuove a livello tecnico-espressivo e questo operare ha portato molta ricchezza al nostro repertorio, il quale era ancora molto ancorato ad una concezione più ottocentesca.

Nel corso della sua lunga esperienza ha notato un cambiamento nella percezione pubblica dell’immagine del contrabbassista?

Si, molto è cambiato.
Quando mi sono avvicinato alla musica non volevo nemmeno suonare il contrabbasso… addirittura avevo un concetto negativo dello strumento!
A 8 anni iniziai a prendere lezioni di batteria jazz e sin da subito vedevo la figura del contrabbassista come “la persona che faceva questo bum bum bum” soffocato dal suono della grancassa.
Stentavo proprio a dare ad esso un’accezione melodica significativa e ritengo che lo stesso pensiero fosse condiviso dal pubblico.
Poi, in modo del tutto naturale, ho cominciato gradualmente ad interessarmi allo strumento e, grazie a questo neo-nato amore, mi sono personalmente posto il problema di approfondire i vari effetti che si potevano ottenere, dall’uso degli armonici alla ricerca continua di nuove sonorità.
Nei primi anni di professione ho collaborato con il Festival Nuova Consonanza di Roma e lì, assieme ad alcuni colleghi compositori, ho portato avanti la mia missione di proiettare lo strumento verso orizzonti più freschi.
La visione del pubblico è col tempo andata di pari passo con questa immagine del contrabbassista più nuova e libera da polverosi preconcetti.

La sua passione per lo strumento è seconda solo a quella per la didattica. Quali sono secondo lei i pilastri dell’insegnamento del contrabbasso?

Il contrabbasso è uno strumento atletico e, data la sua stazza, bisogna assicurarsi di essere attrezzati per supportare il suo peso.
Mantenersi in forma e stare attenti alla postura sono due aspetti fondamentali, averci sempre un occhio di riguardo è vitale se si vogliono evitare veri e propri problemi di salute in futuro.
Anche la tecnica svolge un ruolo fondamentale; chi ha una conoscenza totale delle scale, degli arpeggi e un concetto esatto e intelligente delle diteggiature avrà sicuramente meno problemi ad approcciarsi allo strumento.
Un altro insegnamento che traggo dalla mia personale esperienza è l’avanzamento nella diteggiatura del contrabbasso quasi come se fosse un pianoforte… in maniera orizzontale, non verticale.
Ritengo che questa rimodulazione spaziale aiuti i miei studenti ad essere più precisi e meno tesi nel momento dell’esibizione o dello studio.

In questo momento ci troviamo in un contesto di insegnamento particolare come quello del castello di Sermoneta. Cosa trova di particolarmente stimolante nel lavoro svolto durante questi giorni?

È molto semplice, la convivenza.
In una stereotipica visione di un’accademia musicale l’insegnante fa la sua lezione di un’ora e il ragazzo, alla fine di essa, se ne torna da solo nel suo appartamento.
Qui no, c’è un rapporto quasi socratico con i ragazzi.
Non solo si parla di musica o di contrabbasso, ma di vita, di concorsi, di come ci si deve comportare nel campo professionale… si mangia insieme, si dorme nello stesso ambiente, si fa comunità. (Catenaccio)
Cè una relazione continuativa e umana che va dalla mattina, quando sorge il sole e si comincia a studiare, alla sera, quando ci si vede al bar a fare un brindisi, parlando dei propri problemi di vita.
L’insegnante in questo contesto non si limita solo a dare le classiche nozioni di strumento, ma anche preparare i ragazzi al mondo professionale, ai rapporti e al rispetto che dovranno avere nei confronti dei colleghi futuri.
È questa l’atmosfera che idealmente andrebbe sempre respirata, un’atmosfera che a Sermoneta si vive da 50 anni… questo difficilmente si trova nel mondo, ve lo dice uno che lo ha girato in lungo e in largo.

Alla fine di questa breve intervista, schiacciata fra l’ultima brillante lezione mattutina e la tanto attesa pausa pranzo, il Maestro si alza dalla sedia per raggiungere i suoi allievi ancora in attesa.
Il rispetto per il prossimo, la disciplina, l’instancabile ricerca di nuovi orizzonti, la plasticità e adattabilità del pensiero sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano il viaggio del musicista nel suo stato più puro… quello di Franco Petracchi è talmente carico di saggezza e significato che traspare dal suo sguardo diffrangendosi leggermente, attraverso le lenti dei suoi grandi occhiali, su chiunque abbia la fortuna di avere anche solo dieci minuti a disposizione per parlare con lui.

Intervista a cura di Nicola Giaquinto – realizzata con il supporto della Fondazione Campus Internazionale di Musica di Latina nel progetto QLAB

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