Griselda l’irricevibile

Il capolavoro di Vivaldi in scena alla Fenice non cessa di porre questioni etiche.

Quando ci si approccia alla Griselda di Vivaldi, si pregustano le arie celebri, i virtuosismi violinistici delle linee vocali, la sconvolgente raffinatezza di alcune trovate orchestrali, l’incontenibile energia dei passaggi più appassionati e tempestosi. E tutto questo, nella meravigliosa Griselda messa in scena al Teatro Malibran dalla Fenice di Venezia sabato 7 maggio, c’era. Ma quando ci si trova di fronte al libretto, la prima considerazione che mi sono trovato a fare è stata “Caspita, quanto è invecchiato male”. Per quale ragione?

Il libretto di Apostolo Zeno, rimaneggiato da un giovanissimo Carlo Goldoni per venire incontro alle necessità e alle richieste del Prete Rosso, si rifà essenzialmente alla novella di Boccaccio, utilizzata insieme ad un po’ di altre fonti e inspessita di personaggi per creare qualche contrasto più operistico, qualche bel triangolo d’amore, qualche colpo di scena dal sicuro effetto. Griselda è la mite moglie di Gualtiero, Re di Tessaglia. Il marito, criticato per aver sposato una popolana, decide dunque di sottoporre la donna a feroci vessazioni per una abbondante quindicina d’anni, così da dimostrare a tutti quanto sia pura, fedele e nobile (almeno nell’animo) la sua Griselda. La quale, da brava donna, è ubbidientissima, devotissima, umilissima e pronta a morire alla prima parola del suo uomo, cui appartiene completamente. E qui, il lettore ha capito benissimo cosa scricchioli. È difficile, nel 2022, empatizzare con un testo come quello della Griselda, nato in un’epoca culturalmente ormai distante, in cui il possesso totale della donna da parte dell’uomo non era visto come un sopruso, ma come il giusto ordine delle cose. Diverse le società, diversi i valori, ovviamente. Ma quando portiamo in scena un’opera del passato, come ci relazioniamo con ciò che troviamo più scomodo, ciò che ci mette a disagio?

 

Griselda contro Ottone. Foto di Michele Crosera.

 

Per una critica messa in scena

Dev’essere complesso per un regista pensare ad una messa in scena di una vicenda che si fonda interamente su un tema delicatissimo e ad oggi ancora certo non risolto come quello dell’uguaglianza di genere. Ignorare il problema e fingere che tutto vada benissimo diventa subito un astenersi dal prendere posizione che, di fatto, avalla e divulga acriticamente i valori promossi dall’opera in questione; rileggere con gli occhi di oggi concetti ormai irricevibili come la sottomissione femminile di fronte ad ogni angheria in nome di un amore che è prevalentemente un gioco di poteri, rischia di creare una frattura insanabile con la musica e di fatto far accartocciare su se stessa l’opera. Che fare dunque? Gianluca Falaschi (regia, scene e costumi) riesce nel complesso compito, districandosi con raro equilibrio. La vicenda è trasportata in tempi moderni, anche se con costumi parecchio retrò, ma la collocazione storica è qui veramente irrilevante. Falaschi mostra senza mezzi termini come tutta la vicenda sia radicata in una cultura maschilista e oppressiva nei confronti delle donne, relegate ad una condizione di subalternità umiliante, in cui l’uomo è un vero e proprio padrone per la propria compagna.

Al contempo, però, il regista non si sovrappone alla vicenda alterandone gli equilibri. La violenza appare già chiaramente indicata nel testo, con una evidenza tale da far chiedere quanto gli stessi Vivaldi e Goldoni volessero porla in rilievo già al loro tempo. L’unico punto forse eccessivo, anche perché costruito su un secondo livello di invenzione registica, è rappresentato da uno stupro che avviene fuori scena. La scelta è forte ed eccessivamente retorica (la violenza sulle donne sarebbe stata esaltata anche senza), ma il momento è comunque ben costruito registicamente e si inserisce fluidamente nella regia. Gli attori (muti) che recitano questa parte sono sul palco fin dall’inizio per partecipare ai festeggiamenti di Gualtiero con la nuova “moglie” (che poi si rivelerà essere la figlia che Griselda riteneva morta). Durante la festa l’atteggiamento degli uomini nei confronti delle donne diviene sempre più aggressivo, fino ad arrivare alla menzionata violenza. Questa violenza prosegue in parallelo con quella sempre più pronunciata non solo di Gualtiero e di Roberto, ma soprattuttto di Ottone. Per quanto dunque la scena appaia sovrimpressa sulla vicenda, non nascendo da questa né aggiungendovi nulla, la coerenza drammaturgica è ben curata e collabora nella caratterizzazione di questo ambiente ostile in cui si muovono non solo Griselda e Costanza, ma le donne in generale. Sembra dunque che l’inserimento di un drammaturgo nel team creativo, Mattia Palma, abbia dato i suoi frutti nel donare ulteriore coerenza alla regia. Buone le luci di Alessandro Carletti e Fabio Barettin, che valorizzavano le belle scene (e in particolare quel bosco che è quasi un personaggio dell’opera).

 

Costanza vestita di bianco nel bosco. Foto di Michele Crosera.

 

Griselda, o della bellezza

Meno complessa, da un punto di vista etico, la parte musicale: la Griselda è semplicemente bellissima. Questo non rende certo più facile suonarla e cantarla, nonostante la direzione di Diego Fasolis la faccia sembrare tale. Fasolis è talmente a suo agio nel repertorio che modella l’Orchestra della Fenice con agile flessibilità, ben sagomando i rapidi scarti d’umore, cercando e trovando con successo impasti, timbri, colori. La cura della concertazione trova uno splendido equilibrio tra passato e modernità e Fasolis riesce ad imprimere questa coerenza all’intero cast, in un insanabile contrasto tra la bellezza commovente della musica e la difficoltà di empatizzare con i personaggi. Abilissimo nella tenuta dell’insieme con i cantanti, della direzione di Fasolis si può rilevare solo un certo horror vacui, che pur lasciando alla voce i suoi tempi non sempre le lasciava gli spazi, saturati da una pienezza sonora che sebbene splendida risultava a tratti un po’ eccessiva. Per il resto, l’esecuzione è stata vicina all’impeccabile sia per l’orchestra che per il direttore, che si è concesso anche qualche bel gesto retorico ed enfatico, distribuito con certezza dell’effetto sul pubblico giustamente entusiasta.

Pubblico entusiasta anche per il cast, che ruotava intorno ad una Ann Hallenberg capace di donare tridimensionalità tragica al personaggio di Griselda, senza perdere di qualità vocale in tutta l’estesa opera (che è stata data con ben pochi tagli e dunque durava tre ore piene). La Griselda di Hallenberg è umana più che santa, è incerta, dubbiosa, facile allo sdegno pur se remissiva. Tanto gravoso è il suo destino, tanto tragica l’interpretazione di Hallenberg che il lieto fine non è riuscito a scacciarne le brume nelle poche battute a disposizione. Ottima anche la Costanza di Michela Antenucci, che affronta la vertiginosa parte con sicurezza e gusto. Se il nocchiere di “Agitata da due venti” già s’aspetta naufragar, Antenucci ha ben tenuto il timone nelle sue tempestose gragnole di agilità. Non si può affermare che sia uscita dal turbinio senza graffio alcuno e con sprezzo del pericolo, ma il risultato è stato pienamente convincente. Meno convincente, invece, il Gualtiero di Jorge Navarro Colorado, che avrebbe anche bel timbro, ma non riesce a passare sull’orchestra e risulta fin troppo debole. Il suo ruolo, d’altronde, è quello forse più scomodo di tutti da un punto vista interpretativo: come rendere il marito-padrone che arriva a fingere la morte della figlia per 15 anni pur di mettere alla prova l’ubbidienza della moglie, il quale al contempo si strugge perché in realtà Griselda la ama? Nel dubbio, Colorado tira dritto e disimpegna non senza qualche difficoltà le fantasmagoriche agilità che tormentano Gualtiero fin dall’atto primo e arriva dignitosamente al termine tutto d’un pezzo. Chapeau.

In difficoltà anche Rosa Bova (Corrado), cui non mancano dei bei momenti lungo l’opera, ma che troppo spesso offre una resa un po’ stridula e goffa del suo personaggio, che tra voce e recitazione appare macchiettistico fino quasi all’eccesso. Migliore la prova dei due controtenori. Antonio Giovannini è un convincente Roberto, che dopo un po’ di riscaldamento mostra bel timbro, ottima proiezione e buona capacità di interpretare attorialmente e vocalmente il ruolo dell’amante offeso che reagisce con sempre maggiore ardore prevaricatore sulla sua Costanza, contro cui si lancia impietoso. Ginnico è invece l’aggettivo che più mi veniva in mente nell’ascoltare l’Ottone di Kangmin Justin Kim, elastico sia d’ugola che di giunture, abilissimo nel rendere il ruolo del ragazzetto sfrontato, pronto a mentire e usare violenza pur di conquistare Griselda. Alcuni passaggi particolarmente acuti erano un po’ gettati, anche la netto degli accomodamenti necessari per adattare le arie di Ottone con la peraltro notevole estensione di Kim, ma la possibilità di sfruttare i bassi pieni e risonanti compensava ampiamente. Se c’è un personaggio che risulta ancora più odioso di Gualtiero è proprio Ottone e Kim non si è risparmiato nel caratterizzare sia vocalmente che attorialmente l’arrogante cavaliere, mostrando anche la capacità di dominare la scena con spontaneità attoriale.

 

Costanza e Griselda tentano di ammorbidire l’inflessibile Gualtiero, che soffre silenziosamente per le prove che è costretto (da se stesso) a sottoporre a Griselda. Foto di Michele Crosera.

 

Tolta la musica, restano i dubbi

La recita di Griselda, dunque, non placa i dubbi. Al contrario, li infiamma. La musica di Vivaldi è talmente bella da giustificare pienamente la presenza di quest’opera sui cartelloni dei teatri, anzi, da volerla vedere più spesso. Come approcciarsi però a quelle opere che, pur bellissime, esaltano idee ed ideali contro cui si cerca tuttora di combattere? È paradossalmente più facile relazionarsi con musica dichiaratamente politica, celebrativa, di regime. In un certo senso, questo permette di storicizzarla, la si guarda con la stessa fascinazione con cui guardiamo i film ambientati nella seconda guerra mondiale. Ma quando il tema appare di scottante attualità e un’opera spinge verso una direzione contraria, possiamo ignorare gli effetti che la cultura ha sulle nostre coscienze? La potenza della musica e della cultura in generale nel diffondere idee, ideali non va sottovalutata. Se oggi stiamo ripensando alla cultura come strumento di coesione sociale, essenziale per il benessere e per lo sviluppo di un senso critico nella società, è anche perché ci siamo resi conto di questo impatto. Forse è anche per questa rinnovata richiesta di significato, per questa messa in discussione del ruolo che lo spettacolo ha nelle nostre vite, che la figura del regista è negli ultimi anni assurta a demiurgo dell’opera lirica, tolta al dominio puramente musicale del direttore e portata su una dimensione scenica che si relaziona con maggiore chiarezza con la società che la circonda. Per Griselda, si può tentare di dimostrare che Vivaldi e Goldoni desideravano anch’essi criticare la prevaricazione di Gualtiero e la condizione di schiava di Griselda, all’epoca socialmente accettata. Ma non è questo il punto, non possiamo imporre i nostri valori ad opere del passato, ma al contempo non possiamo nemmeno prenderle acriticamente ed empatizzare con i dolori del povero Gualtiero, costretto (da sé stesso e dalla sua società) a tormentare sua moglie, ricevendo infine il plauso per sé e per lei. Sarà interessante riflettere su come i cambiamenti nella nostra percezione ci faranno relazionare con ciò che viene dal passato, ma ha ancora qualcosa di attuale da dire. E quello che ha da dire potrebbe non piacerci. Cosa fare, dunque?

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