Scarlatti to Scarlatti: intervista a Giulio Biddau

L’ultimo disco di Giulio Biddau per l’etichetta Label Aparté sarà presentato il 16 marzo a Milano, presso il museo Teatrale della Scala

L’ultimo disco di Giulio Biddau per l’etichetta francese Label Aparté sarà presentato il 16 marzo a Milano, presso il museo Teatrale della Scala. Il progetto confronta diversi approcci interpretativi alla musica di Scarlatti, accostando l’esecuzione di edizioni diverse; al centro di questa ricerca c’è il pianoforte, le potenzialità della sua musica e l’influenza che può avere una partitura all’interno del processo interpretativo ed espressivo di un musicista. Il concetto di filologia e prassi storicamente informata incontra la libertà necessaria dell’interprete e la orienta, anziché limitarla.

Come hai affrontato questo progetto? Qual è l’esperienza in fase di registrazione?

L’esperienza in studio di registrazione è sempre molto stancante, è il momento in cui ci si confronta con la fotografia di quello che si fa. Noi siamo abituati a rendere la musica nel tempo e a dirigerla verso persone fisiche che sono lì presenti. Fare un disco significa confrontarsi col proprio ideale di perfezione e questo sicuramente è molto stressante per un musicista.

Lo capisco benissimo, è sempre un tormento.

È un tormento perché l’ambizione è quello di fare il meglio possibile, ed è sbagliato: anche in una registrazione, come in un concerto, quando ci si riascolta i momenti più belli sono quelli in cui filtra un’idea. C’è sempre questo momento in cui arriva l’idea e si porta appresso con sé la musica; se si è troppo concentrati a voler fare esattamente come abbiamo pensato alla fine questo concetto non passa. Registrare significa anche fissare, ed è un po’ l’antitesi della musica, che è invece fluire.

(Scarlatti to Scarlatti. Photo Credit: Label Aparté)

Il cuore di questo progetto è il confronto tra diverse edizioni della musica di Scarlatti: una problematica comune a tutti gli interpreti e uno dei tanti esempi di ricerca di una certa attendibilità, spesso difficile da verificare quando si decide di affrontare repertorio di questo periodo. Quali sono le edizioni che hai scelto e poi messo in musica e che differenze hai trovato?

Io ho scelto l’edizione critica che mi è sembrata quella più attendibile, ovvero quella di Emilia Fadini, con la quale ho lavorato per preparare il disco, e l’ho confrontata con l’antologia di Hans von Bülow, edizione da un punto di vista critico assolutamente lontana dagli standard filologici: c’è un lavoro di revisione che la fa assomigliare più a una trascrizione che a un’edizione. È però l’edizione più interessante da un punto di vista pianistico; qui ho scoperto che tipo di approccio avevano gli interpreti che cominciavano a suonare Scarlatti sul pianoforte. Hans von Bülow, se da un lato trascrive e corregge Scarlatti, dall’altro fornisce una miniera di informazioni attraverso le indicazioni che affida all’interprete. È un compendio della trattatistica e del segno scritto: pur essendo nel 1864 c’è questa affiliazione dal barocco che continua nell’epoca classica e arriva fino al romanticismo, ed è quindi possibile vedere la tradizione fluire da un’epoca all’altra.

Se i suoi fraseggi sono ancora molto settecenteschi, la tradizione si rompe agli inizi del Novecento, come dimostra per esempio quella a cura di Alessandro Longo; il desiderio dell’editore ora è quello di trasformare il pianoforte e avvicinarlo il più possibile al clavicembalo. Questa è proprio una tendenza pianistica: nello stesso periodo anche nella musica di Bach si moltiplica l’utilizzo dell’articolazione staccata, chiaramente un’imitazione, dal mio punto di vista una falsa tradizione. Quando ho deciso di incidere questo disco mi sono posto l’obiettivo recuperare questa tradizione, che si era di fatto interrotta.

Non possiamo a questo punto non parlare di Emilia Fadini: che cosa ti ha trasmesso a proposito della ricerca di un’interpretazione storicamente informata?

Lei mi ha instradato in questo lavoro: il mio approccio a Scarlatti era abbastanza istintivo, lo suonavo staccato, tanto che quando mi avvicinai una volta a fine lezione ricordo che lei mi disse: “Facciamo il disco su Scarlatti, ma non così. Ripercorriamolo e ritroviamolo”. Io mi sono fatto guidare e mi sono poi appassionato alla ricerca delle fonti, e per questo le sono veramente grato: è riuscita a coniugare l’interesse culturale – che io avevo e però si muoveva in autonomia – con la pratica pianistica, in una maniera mai sterile, ma anzi ricca di vitalità. Emilia Fadini anche quando parlava di trattati non era mai cattedratica. Lei li leggeva pensando veramente alla musica, a come nei secoli i compositori vedevano e vivevano la musica: non era mai una mera applicazione di regole.

Quando ci si interfaccia con la trattatistica è chiaro che il primo impulso sia pensare di trovarsi su un terreno un po’ arido per noi interpreti. Chi li ha scritti aveva l’esigenza di descrivere con le parole ciò che accadeva con il suono. Il simbolo grafico in partitura non esisteva all’epoca, non c’erano indicazioni: era tutto lasciato alla tradizione. Se noi oggi dovessimo leggere un testo sull’interpretazione della musica di Bach negli anni ’50 sarebbe molto più immediato ascoltare direttamente una registrazione eseguita in quegli anni, per apprenderne appieno la prassi. Questo manca alla trattatistica e quindi dobbiamo immaginarcelo. Lei aveva questo dono della fantasia ed era in grado di far appassionare chi la ascoltava, ed è stato fondamentale per la mia ricerca.

Potremmo allora dire che Emilia Fadini sia anche riuscita a trasmetterti la capacità di decodificare un linguaggio nuovo?

Lei mi ha dato le chiavi di accesso. Naturalmente ha sempre usato e declinato il suo approccio alla ricerca sul clavicembalo e sulle tastiere storiche, io ho poi dovuto trasporre e adattare questo lavoro al suono del pianoforte. Lei mi ha dato però tutto ciò che poteva arricchire il mio modo di suonare Scarlatti con degli elementi più musicologici.

Emilia Fadini suona e racconta Scarlatti

Quanto è importante imparare quindi a confrontare e stabilire un ordine personale, una presa di posizione, che arriva però dopo lo studio approfondire delle fonti e dopo l’incontro con quest’altro linguaggio?

La cosa importante per un musicista secondo me resta l’autenticità. Non è qualcosa che funziona sempre, non tutti hanno un’autenticità che si coniuga con il mercato, però alla fine è fondamentale. Per chi ha un interesse per l’approfondimento storico, estetico, musicologico di un autore e di un brano è sicuramente fondamentale ed è un grande arricchimento. La visione empirica della musica è altrettanto bella: il grande rischio dell’approfondimento culturale è che si passi unicamente a una funzione cosciente dell’intellettuale, e si rischia di perdere l’elemento vero della musica, dove c’è intelletto ma anche sentimento e inconscio che fluisce.

Lasciarsi dirigere troppo dall’intelletto rischia di snaturare il senso della musica. In questo Emilia era unica: era immersa nella musica ed era in grado di nutrirsi dalla cultura. Coniugava l’essenza stessa della musica come espressione e sentimento con l’interesse per le prassi originali, che invece rischiano, se maneggiate con poca cura, di condurre al mero intellettualismo.

Come ha cambiato quest’esperienza il tuo approccio interpretativo?

Da un lato mi ha portato a relativizzare: ho imparato quanto sia importante considerare le indicazioni del compositore in funzione dell’estetica del tempo. Se consideriamo per esempio le indicazioni di tempo – andante, adagio – queste notazioni hanno valori diversi, e sono da riconsiderare non solo dal punto di vista dello stile e dell’intenzione del compositore, ma anche dalla scuola di pensiero che lo influenza. Un esempio emblematico è l’idea dell’andante; in un ambiente tedesco romantico si può considerare come una traduzione di langsam, mentre in epoca barocca l’andante si rifà a un’andatura, al movimento, e quindi a un’indicazione di tempo più scorrevole.

Questa relativizzazione mi ha insegnato a mettere un freno, a fermarmi e a osservare con più profondità. La lettura di questi documenti, non solo strettamente trattatistici, è interessantissima. La lettura delle corrispondenze, per esempio, è straordinaria. Pensiamo al lavoro sulla musica di Chopin: è stato reso possibile anche grazie a una quantità notevole di informazioni. Attraverso le testimonianze degli allievi, per esempio, è possibile delimitare un certo relativismo nei confronti dell’interpretazione. Questa ricerca ci permette di aprire un ventaglio che non è infinito, ma anzi ci fa intuire dove andare.

Si torna sempre all’esigenza di un equilibrio, anche nell’approccio all’arte.

Sì, un equilibrio che si sfila direttamente dalla cultura: è molto importante per un musicista. È la nostra bussola.

Perché Scarlatti? Qual è il tuo legame con la sua musica? Perché è importante per un pianista approcciarsi alla sua musica?

Scarlatti è un compositore al quale mi sento molto affine. Suono sempre volentieri la sua musica e mi ha sempre permesso di esprimere me stesso, mi fa sempre sentire a mio agio. Secondo me è un compositore su cui c’è ancora da studiare e da dire. È un ottimo terreno sul quale cercare di ricostituire il gap culturale che il pianoforte ancora mantiene nell’ambiente dei barocchisti. I clavicembalisti, per esempio, hanno riacquisito una libertà espressiva enorme che noi pianisti fatichiamo ancora a concederci.

Cosa consiglieresti a chi si sta avvicinando a uno studio più filologico? Quali sono i passi fondamentali da seguire per poter poi far emergere un’idea personale?

Il primo consiglio che mi sento di dare è farsi amici i musicologi! Secondo me interpreti e musicologi si parlano troppo poco, e questo è un gran peccato. Abbiamo davvero molto da imparare da loro e secondo me anche loro possono apprendere qualcosa dalla nostra percezione: per un giovane secondo me è importante avere uno scambio con i musicologi. È un buono esercizio avere l’umiltà di ascoltare quello che hanno da dire e contemporaneamente dare vita a quello che i teorici scrivono. È un gioco dove vincono tutti: entrambe le parti possono avere grande giovamento da questo dialogo.

Da qualche anno ho la fortuna alcuni musicologi che mi onorano della loro amicizia: Jean-Jacques Eigeldinger, per esempio, mi ha dato una mano a rileggere e correggere ciò che ho scritto nel booklet del disco. È sempre molto bello dialogare con queste figure. Sono prima di tutto persone appassionatissime di musica e possono aprire porte impensate, suggerire collegamenti e accostamenti… C’è veramente un grande universo che l’interprete può riscoprire.


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