Il viaggio musicale in Italia di Fabrizio De Rossi Re

Il canto del rauco mendicante e le musiche della tradizione popolare italiana 

Autore: Michele Sarti

3 Dicembre 2020

Prosegue il cartellone di Nuova Consonanza, visti i tempi, naturalmente, nell’unica modalità possibile: lo streaming. E un festival online centrato sulla nuova musica, destinata di per sé, purtroppo, ad attirare un pubblico troppo spesso specializzato, è un’impresa degna di nota il cui coraggio sta però premiando con un indice positivo dei numeri di ascolto da casa.

Il prossimo 8 Dicembre ritorna in cartellone Fabrizio de Rossi Re, che col festival ha un rapporto stretto e di lunga data, per l’occasione nella duplice veste di compositore e performer al pianoforte, voce e melodica. Il canto del rauco mendicante è il titolo suggestivo di uno spettacolo interamente elaborato su canti popolari della penisola divenuti nelle mani del compositore romano traccia nella memoria. Da Nord a Sud, un’accurata scelta di varie melodie tradizionali filtrate da de Rossi Re, svela contrasti sorprendenti, spigolose angolature, immagini nostalgiche e struggenti, crude e spietate intrise di quel realismo quotidiano che da sempre il folklore tramanda nei suoi racconti di tradizione orale.

Insieme a de Rossi Re, attivo da molti anni per Nuova Consonanza, abbiamo ricostruito i fili della sua attività per il festival e poi il Maestro ci ha raccontato, più nello specifico, come sia nato il progetto e in cosa consista.

Maestro de Rossi Re, la sua comparsa nel Festival di Nuova Consonanza risale al 1986…

Il 1986… sono passati alcuni anni ormai. Ho delle memorie bellissime del Festival che allora si svolgeva nell’Auditorium RAI situato al Foro Italico; un luogo senz’altro molto speciale che tra l’altro permetteva di registrare e passare immediatamente in radio ogni concerto. All’epoca avevo venticinque anni e di musica nuova in Italia se ne ascoltava ancora moltissima: a Nuova Consonanza per esempio si alternavano figure del calibro di Mauricio Kagel, Stockhausen, Scelsi, per dirne alcuni. Coi venti anni precedenti, il Festival aveva raggiunto uno spessore delle proposte davvero notevole, e devo dire ho avuto la fortuna di assistere  agli ultimi bagliori di un periodo estremamente florido per la musica contemporanea in Italia. Era anche il periodo in cui la RAI aveva un’orchestra nelle più importanti città italiane… Poi purtroppo le cose hanno cominciato a cambiare e tutto il panorama culturale ha subito un decorso drammatico. A quell’epoca avere un pezzo in cartellone in festival di questo calibro era un passo davvero significativo che ti faceva sentire, in qualche modo, incluso in un circuito molto ampio e vivo.

Dall’anno in cui sono entrato a far parte per la prima volta di Nuova Consonanza ho potuto allacciare uno stretto rapporto di collaborazione con l’associazione sia operando all’interno dal punto di vista organizzativo (sono stato nel consiglio direttivo ripetutamente) che puramente come compositore. Nel 2001, tra l’altro scrissi proprio per Nuova Consonanza un’opera sulla figura di Cesare Lombroso, la cui messinscena e commissione fu possibile perché avevamo ottenuto fondi dall’Unione Europea, fatto senz’altro molto significativo. Caso curioso: proprio in quell’opera compare per la prima volta il canto del rauco mendicante che poi divenne un pezzo a se stante, e successivamente fu incluso nello spettacolo che ascolteremo l’8 Dicembre.

Parliamo dunque di questo spettacolo. Come è nata l’idea?

Il canto del rauco mendicante nasce dal mio rapporto con Luciano Berio. Negli anni in cui il Maestro fu Presidente dell’Accademia di Santa Cecilia (tra il 2000 e il 2003) ci frequentavamo assiduamente. In uno dei nostri incontri si presentò con una raccolta di canti popolari della tradizione italiana curata da Roberto Leydi, grande musicologo bolognese che insegnava al Dams, nonché caro amico dello stesso Berio. Conoscendo le mie qualità di improvvisatore (ho un background di taglio jazzistico a cui sono naturalmente legato e che credo emerga nella mia musica), mi disse con quel fare deciso tipico dei suoi suggerimenti: «Devi farci qualcosa!» . Ci sono voluti alcuni anni perché riuscissi a seguire il consiglio, e a creare attorno a questa raccolta uno spettacolo, che poi ho proposto in varie vesti. La prima: io stesso al pianoforte. Così l’ho portata ad esempio a Helsinki, numerose volte in Italia, o Londra, all’Istituto di Cultura Italiano, in una splendida sala gremita dove ricordo qualcuno presentarsi alla fine con le lacrime agli occhi dicendo: «Io me lo ricordo il ritmo della Tonnara!». Un’altra possibilità consiste nell’allargare l’organico, come nel caso di quando fu fatta a Roma, all’Auditorium con l’orchestra Popolare Italiana diretta da Ambrogio Sparagna e con la bellissima voce di Lucilla Galeazzi.

 

In cosa consiste dunque questo viaggio musicale attraverso l’Italia?

Entrando più nello specifico, si tratta di un percorso scandito attraverso una cernita dei canti raccolti da Leydi, attingendo a canti politici, canti d’amore, canti rituali, canti del lavoro (straordinari quelli della tradizione siciliana come il ritmo della Tonnara, il ritmo per issare le vele e lo stesso Canto del rauco mendicante che è in realtà un canto di un carrettiere di Mazara del Vallo). I canti vengono trasfigurate, resta un profumo dell’antico canto che viene immerso in una struttura sonora in continuo movimento, come emergessero e sprofondassero dal magma del suono nella memoria.

Per intenderci meglio ho ripescato alcune note di sala che scrissi: “Ho lavorato a queste musiche nel tentativo di trasfigurare, reinventare e deformare le ragioni profonde del canto originale, soprattutto suggestionato dalla drammaturgia, i testi, che questi canti narrano: tal volta raccontano storie d’amore toccanti (che è il caso soprattutto degli stornelli della zona romana come In mezzo ar petto tuo ce so’ du perle oppure M’affaccio alla finestra e vedo l’onne), o storie di omicidi e di vendette, di canti che parlano della disuguaglianza sociale o delle fatiche del lavoro. Non si tratta di realizzare una trascrizione o un arrangiamento, ma di raccogliere le figure musicali archetipiche di quella tradizione: suoni di un linguaggio antico immersi in una moderna e sperimentale costruzione narrativa trasformata e ricomposta musicalmente.”

Ad esempio un canto stupendo di Anagni (Frosinone), La mamma del mio amore l’accortellate, parla di una madre che non vuole dare in sposa la figlia a un giovanotto perché povero; questi allora si rivolge a un clan chiedendo di accoltellare la donna; e il testo entra davvero nei particolari con dettagli spietati come: “…Facetele anche grosse le ferite…”.  Un altro canto meraviglioso viene dalla Sardegna, una ninna nanna particolarissima per le asprezze armoniche (Su Duru Duru), o ancora, di tutt’altro genere la Serenata di Castel Toblin, del Trentino.

Maestro, come ha risolto la notazione in partitura? Soprattutto se consideriamo le riprese da parte di altri gruppi strumentali, e il fatto che Il canto del rauco mendicante sono praticamente come musiche di scena, con una loro dimensione estemporanea, di improvvisazione.

Per fare un esempio, la realizzazione con l’Orchestra Popolare Italiana doveva tener conto del fatto che i suoi musicisti, tutti straordinari esecutori di strumenti come organetti, ciaramelle, non leggono la musica. Ho dovuto dunque adattare la scrittura ripensandola per quella specifica occasione cercando una notazione, che poi Sparagna ha spiegato agli strumentisti, che permettesse allo spettacolo il respiro libero dell’improvvisazione che naturalmente la musica di tradizione orale conserva. Quando invece l’ho presentata io stesso al Teatro Metastasio di Prato ho costruito un set con un gruppo di musicisti jazz, e pertanto in quel caso il risultato finale risulta piuttosto diverso rispetto alla versione con l’Orchestra Popolare.

Esiste quindi un canovaccio di partitura con sigle di accordi e le melodie, interpolato da appunti vari sulla direzione che il discorso musicale prende. Questa struttura può essere modificata e riadattata a seconda delle situazioni. Molteplici quindi, possono essere le direzioni di questo progetto, incluso la scelta dei canti che non è mai fissata rigorosamente. A Londra ad esempio, inserii anche il ritmo per issare le vele che è di origine siciliana ma che in qualche modo ritorna anche nei canti marinari inglesi restati fino ad oggi sulle imbarcazioni britanniche, che però fino a cinquant’anni or sono erano popolate di siciliani e anche calabresi. Anche il titolo dello spettacolo non è sempre stato lo stesso: a Roma, in Auditorium, lo intitolai Terror Vocis, o altre volte fu Canti di Cielo e Terra.

Qual è quindi il percorso drammaturgico, seppur variabile, dello spettacolo?

La grande diversità di questi materiali costituisce il primo elemento drammaturgico… come appunto dicevo: il canto sardo contrapposto a quello trentino, le serenate amorose romane, i ritmi di lavoro siciliani (che comprendono per esempio anche il ritmo della mattanza del tonno). La drammaturgia viene poi anche dagli spostamenti geografici: Sicilia-Trentino; Roma-Pistoia; Scanno (spesso ho fatto il canto abruzzese Scura Maje, Scura Maje che ripropongo anche per Nuova Consonanza), Frosinone e via dicendo. Si alternano brani diversissimi trattati ognuno in maniera autonoma a partire dalle proprie intime caratteristiche che possono essere messe in rilievo oppure anche destrutturate. È il caso, per esempio, di un saltarello (che pare risalga alla Norcia del XV sec.) rielaborato quasi fosse un preludio di Rachmaninov! Al canto umbro immediatamente segue l’aspro Bella quanno te fece mamma tua. Il percorso è quindi scandito da un susseguirsi di tappe tra loro in contrasto.

Ringraziamo il Maestro per averci guidato dietro le quinte de Il Canto del Rauco Mendicante. Si prospetta dunque un affascinante viaggio che trae spunto da una lunga tradizione di metabolizzazione delle radici popolari, così vive e rigogliose, alla cui fonte hanno attinto tra i più significativi artisti degli ultimi due secoli, ognuno con modalità e per ragioni differenti: dall’uso delle forme e del materiale folkloristico in Chopin, Liszt, Brahms o Dvořák, alle prime ricerche etnomusicologiche di Bartók e Kodály, passando per straordinarie armonizzazioni di canti popolari realizzate da Britten o dallo stesso Luciano Berio, con le loro Folk Songs.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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