Testimoni del presente: Orazio Sciortino

Le voci dei compositori dentro e oltre la pandemia.

Una rubrica di interviste e colloqui con i compositori europei, per indagare le caratteristiche, le contraddizioni e le peculiarità del fare (e pensare) musica in un momento di così radicale cambiamento globale. Dei dialoghi riguardanti un presente profondamente segnato dagli effetti della pandemia e i possibili sviluppi dell’arte musicale in un panorama futuro. 
Abbiamo raccolto fino ad ora testimonianze molto ricche ed eterogenee (le conversazioni con Giorgio BattistelliLuca LombardiGiorgio Colombo TaccaniVittorio MontaltiFrancesco FilideiFabio Massimo CapogrossoFabio VacchiLucia RonchettiMarco Tutino, Luca Francesconi sono consultabili ai link qui riportati). Oggi vi proponiamo il compositore, pianista e direttore d’orchestra siracusano Orazio Sciortino.

L’intimo rapporto con se stessi: il compositore vive, per la natura stessa del proprio mestiere, una condizione di solitudine; tuttavia, a fronte della forzata reclusione, come cambia la percezione di questa solitudine, se cambia, e quali sono le riflessioni che emergono?

È vero, il compositore, come anche l’interprete però, passa moltissimo tempo da solo a scrivere, e quindi la dimensione del silenzio, della solitudine è praticamente essenziale. È anche vero, almeno per quanto mi riguarda, che lo stereotipo del compositore isolato dal mondo non ha molto senso: la società, in fondo, è uno spazio vitale per indagare, per ricercare. Mi è mancato però il contraddittorio, il negativo alla clausura; per dirla in termini aulici, mi è mancato l’atopo. Stare molte ore a lavorare senza poter poi prevedere un’uscita, un incontro, un abbraccio, una sera a teatro, o anche una corsa al parco, significa accumulare tensioni che poi non sfogano, anche se per certi versi mi sono disintossicato da tante abitudini che la nostra quotidianità frenetica e superficiale ci impone. Non potermi confrontare con il prossimo, rielaborare le energie, ha comportato un blocco, come se tutto restasse congelato dentro di me.  Tornando alla solitudine: nonostante tutto, con essa ho un rapporto molto positivo. D’altronde si vive benissimo se è una condizione che si sceglie. 

Maestro Sciortino, è possibile che la frustrazione sia derivata dal non avere nell’orizzonte degli eventi la possibilità di immaginare una concretizzazione del proprio lavoro?

Sicuramente sì, tuttavia ero riuscito a ricavarmi gli spazi necessari per sistemare alcuni lavori passati o studiare musiche di altri compositori. Sapete, tante volte si tralasciano dei dettagli per mancanza di tempo. Ad esempio, a Verona avrei dovuto dirigere una prima di un mio pezzo sinfonico, esecuzione che ovviamente non ha avuto luogo, per cui in questi giorni mi sono divertito addirittura a riscriverlo da cima a fondo. Ma questa operazione è stata un po’ come il lavoro di Penelope: un giorno scrivevo, il giorno dopo rifacevo. Causa, probabilmente, della difficoltà nel rielaborare le idee di cui parlavo prima. E’ stata però un’occasione di ricerca. Banalmente, la socialità aiuta a far chiarezza anche sul proprio pensiero musicale.

Oggi però, da un certo punto di vista, il compositore vive una condizione di solitudine anche sociale, di legittimità. Sono rari i casi in cui un compositore vede il pubblico, inteso come comunità, partecipare attivamente a una prima, per esempio. 

La solitudine si sceglie, appunto, ma è anche vero che la solitudine dipende da ciò che solitudine non è. I numeri del mondo della musica contemporanea sono in realtà più grandi di quelli che pensiamo. L’arte è in fondo un bisogno del quale percepire la necessità. Non necessariamente è per tutti, ma a tutti deve essere accessibile. Esiste forse un problema di comunicazione tra chi la musica la scrive e chi ne fruisce, e la responsabilità è anche nostra.

Non pensa che questo problema sia anche dato da una generale difficoltà di selezione, dentro un flusso enorme di documenti e informazioni?

Certamente, nella nostra società manca la capacità di discernimento. La globalizzazione ci porta solo i grandi numeri, è evidente, e il mercato, etichettando, porta inevitabilmente a delle mistificazioni. Per un giovane è certamente più facile conoscere Young Signorino che Donatoni. Certi fenomeni di musica commerciale vengono fatti passare per musica di ricerca. E’ illusorio credere che alcune personalità della musica di oggi, possano portare pubblico anche alla musica colta; non è automatico che l’ascoltatore interessato a questi autori sappia poi distinguere, senza i necessari strumenti, e sia per esempio interessato ad approfondire Stravinskij o i Pink Floyd. In realtà, in questi casi, a vincere è sempre il fenomeno, la personalizzazione. In effetti tutta la nostra società è legata alla persona e, nel mondo della musica commerciale, all’immagine indotta dalle case discografiche. Per cui, spesso, l’ascoltatore insegue più il personaggio che la musica stessa.

Come possiamo valorizzare la comunicazione in un momento storico in cui siamo subissati da miriadi di informazioni?

Saper comunicare è importante anche quando il messaggio musicale è complesso e in apparenza oscuro. Certo, è anche vero che spesso la musica contemporanea finisce per essere autoreferenziale o rivolta a una cerchia di adepti ma è sempre un problema di comunicazione. 

Nella babele linguistica di oggi, ma soprattutto nella quantità di informazioni che ci bombardano quotidianamente, possiamo comunicare tutto e il contrario di tutto. I giovanissimi fanno spesso fatica ad applicare il senso critico a ciò che leggono e imparano. Il senso del “qui e ora” ha inibito la nostra capacità di connettere il passato col presente. Raggiungendo tutto con facilità e immediatezza è più difficile essere stimolati ad approfondire. Di questo bisogna tenere conto quando si elaborano le strategie di comunicazione del mercato musicale. A volte chiamare le cose con il loro nome è più efficace, senza troppi tecnicismi, ma senza svilire o banalizzare la portata del messaggio musicale. Luciano Berio, da questo punto di vista, con le sue trasmissioni televisive del ciclo “C’è musica e musica” è un esempio sempre valido. 

Non c’è più l’impulso di impiegare il proprio tempo in termini creativi… Come impatta tutto questo nella costruzione dei linguaggi musicali? 

La creatività musicale vive a mio avviso un momento particolarmente felice. Caduti i dogmi e mescolati i linguaggi, abbiamo la fortuna di ascoltare musica bellissima, facile da reperire. Quindi, un giovane che si avvia allo studio della composizione ha a sua disposizione una quantità enorme di stimoli che sono fondamentali per la propria ricerca. E in fondo è sempre stato così…e il compositore è come un albero che per crescere si nutre di tutti gli elementi che dalla natura provengono. 

Cosa ne pensa dello scrivere opera oggi? Che momento sta vivendo secondo Lei Maestro Sciortino il teatro musicale?

Il teatro musicale oggi vive una fase molto vivace, da quello che mi sembra di vedere. Ci sono tantissimi titoli molto riusciti e di grande successo: le opere di Thomas Adès per esempio. Adès padroneggia la voce in tutte le sue espressioni, in tutte le sue declinazioni possibili, è un grande maestro di orchestrazione, sa tradurre in musica un pensiero in maniera spontanea e profonda, ed è abilissimo nel creare una drammaturgia musicale di stati psicologici molto complessi resi con grande chiarezza e andando così ad articolare una linea narrativa all’apparenza anche semplice ed essenziale. Mi riferisco a Powder her face, The Tempest, o il suo ultimo lavoro operistico The exterminating angel, un vero capolavoro.  Insomma il Britten dei nostri tempi. Un’altra molto opera molto bella è Alice in Wonderland di Unsuk Chin, una musicista che trovo estremamente importante, specialmente considerati i suoi ultimi lavori. E poi, sempre a proposito di teatro musicale penso naturalmente a George Benjamin, a Péter Eötvös , compositori che hanno saputo coniugare la complessità della scrittura musicale alle esigenze teatrali. 

Adès oltre a essere un compositore è un direttore e pianista straordinario. Anche tu incarni la figura articolata del musicista che scrive, che suona, che vive insomma in prima persona la musica. Il compositore-interprete, artigiano, è una figura importante da recuperare anche in Italia...

Nella nostra epoca i dogmi musicali non hanno più senso. La mia generazione ha già superato le avanguardie, le reazioni e le controreazioni. Dopo essere stata demonizzata sta poi tornando di moda anche la figura del compositore-interprete. I paesi anglosassoni da questo punto di vista indicano la via. Penso sempre a Thomas Adès, ma anche a Brett Dean, eccellente compositore e violista australiano la cui musica, talvolta da lui stesso interpretata è estremamente lirica e densa di interesse. In Italia, forse per una tendenza ad un certo conservatorismo, il compositore-interprete fatica a farsi riconoscere. Un musicista italiano, per emergere, deve seguire una serie di tappe obbligate e ben etichettate, privilegiando ad esempio un certo tipo di repertorio ed escluderne un altro. 

Cosa possiamo fare secondo te per aprire il nostro panorama? Ad emanciparci da questo circolo vizioso di provincialismo?

Io credo sia pressoché impossibile. Forse è sempre mancata una reale coesione tra agenzie, editori, stagioni concertistiche e una vera promozione anche all’estero. Le composizioni che spesso vengono richieste ai giovani compositori non vengono poi riproposte o fatte circuitare, o fatte eseguire anche da grandi interpreti del panorama musicale mondiale. Quel che si fa in Italia spesso muore in Italia. Torno a dire, manca un po’ di coraggio, ma anche coesione e forse un po’ di spirito imprenditoriale. Ancora una volta tocca prendere la Germania come esempio virtuoso: i concerti dei Berliner Philarmoniker, attraverso la loro bellissima piattaforma on-line, propongono spesso nuova musica affidata a grandissimi direttori dando vita a sodalizi importanti. Nei paesi anglosassoni la prima di una nuova opera è vissuta e comunicata come un evento pop: grandi interpreti, talk show, strategie di marketing molto forti. Abbiamo molto da imparare.

Alcuni esempi virtuosi comunque ci sono, penso a La Toscanini e i suoi programmi per i compositori in residenza…

Certo, assolutamente. La Toscanini ha lanciato un’iniziativa importantissima che spero non rimanga un caso isolato e che possa servire da esempio per le altre istituzioni orchestrali. Videoregistrare i concerti, specialmente le prime esecuzioni, favorirne la diffusione attraverso le già esistenti piattaforme digitali, far conoscere il compositore o l’interprete (giovane o meno) attraverso le trasmissioni televisive o i canali social. Uno spazio che non ci viene concesso e che dovremmo rivendicare con insistenza. 

Cosa diresti a un giovane compositore che vuole intraprendere il mestiere in Italia? (oltre a impara a cucinare)

Cosa gli direi? Pensaci bene…!

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