Arrigo Boito

un Richard Wagner all’italiana

Autore: Redazione

28 Giugno 2019
“…Mi pareva che quella musica fosse mia, e la riconoscevo così come ognuno riconosce le cose che è destinato ad amare.” (Charles Baudelaire, Su Wagner, Venerdì 17 febbraio 1860)

Arrigo Boito (1842 – 1918), librettista, compositore, critico musicale e poeta della corrente artistico-culturale “Scapigliatura”, sviluppatasi nel Nord di quella che era l’appena nata Nazione Italiana, fu un grande sostenitore della “musica dell’ Avvenire” e quindi del suo artefice: il tedesco Richard Wagner. È da considerare che l’Italia dell’Ottocento era impregnata, nel campo musicale, quasi esclusivamente dal Melodramma, tralasciando la musica dell’oltralpe e la musica strumentale, per gli italiani, infatti, tutto ciò era una novità e qualcosa di estraneo.
Franco Faccio (1840 – 1891), direttore d’orchestra, compositore e grande amico di Boito fu uno dei primi ad aprire il sipario nei grandi teatri alla musica sinfonica eseguendo inizialmente dei pezzi “caratteristici” (melodie facilmente orecchiabili per il pubblico), non a caso egli aderì alla Scapigliatura milanese.
Boito e Faccio vennero a conoscenza di quella che era la “musica dell’avvenire”  grazie, in particolar modo, alla borsa di studio che entrambi vinsero dopo il loro diploma di composizione al conservatorio di Milano che diede la possibilità di intraprendere un viaggio di studio in quella che era ormai la capitale della musica europea: Parigi, dove conobbero di persona Verdi, Rossini, Gounod, Berlioz, le correnti artistico-culturali francesi e la musica di Wagner che giunse in Francia nel gennaio- febbraio 1860 con dei concerti wagneriani al Théâtre des Italiens, diretti dallo stesso compositore e la “prima” del Tannhäuser all’Opéra nel marzo 1861, dove i due assistettero alla rappresentazione.
Di Wagner a Parigi si parlò molto,

[blockquote cite=”Hector Berlioz, 9 febbraio 1860″ type=”left“]”…Mai un soggetto ancora sconosciuto fu tanto discusso.”,
“ …Non appena  i cartelloni annunciarono che Richard Wagner avrebbe fatto ascoltare nel Thèatre des Italiens alcuni pezzi delle sue composizioni, si produsse una situazione divertente, che dimostra il bisogno istintivo e affannoso che i francesi hanno di prender partito su ogni cosa prima ancora  d’aver valutato e d’essersi orientati.” Charles Baudelaire,
“…C’erano scompigli , grida, discussioni che sembravano esser sempre sul punto di degenerare passando a vie di fatto.”[/blockquote]

tante furono le critiche (durante il terzo atto della nuova versione di Tannhäuser il teatro fu sommerso dal tumulto della contestazione) ma tanti e di rilievo furono i difensori quali Gounod, Offenbach, Berlioz, Gautier e Baudelaire:

“Artista capace di tradurre attraverso le mille combinazioni del suono i tumulti dell’animo umano” (C. Baudelaire)

Inizialmente Boito non fu un fervido sostenitore del Maestro di Lipsia, tornato dalla Capitale Francese svolse una brillante attività di critica musicale-letteraria dando però espressioni negative all’ “opera d’arte dell’avvenire” (“Mendelssohn in Italia”) ma ben presto si trovò a lavorare in prima linea su alcune opere di Wagner come traduttore italiano (tradusse anche opere di C. M. Von Weber, M. I. Glinka), quattro delle sue opere furono, infatti, tradotte dal poeta in italiano: Rienzi, Lohengrin, Tannhäuser e Tristan und Isolde.

[blockquote cite=”Arrigo Boito, 22 settembre 1868, a Giovanna Lucca Strazza” type=”left”]…La cifra che io propongo per la mia traduzione poetico-musicale del Rienzi sarebbe di Lire italiane 500. Io mi obbligherei di consegnare alla casa Lucca l’intero spartito di Wagner completamente tradotto in modo da poterlo rappresentare o dare alle stampe. Mi obbligherei  di eseguire sul Rienzi il doppio lavoro di poeta e di musicista, cioè tradurrei il testo tedesco e adatterei poscia la mia traduzione alle note, per modo che l’editore non avrebbe più bisogno di ricorrere ad altri per completare il lavoro.[/blockquote]

Boito si fece aiutare dalle traduzioni francesi in prosa delle opere del compositore tedesco, lo scapigliato era madrelingua francese essendo la madre polacca, in Polonia infatti molti conoscevano  sapientemente il francese essendovi un gran numero di immigrati provenienti da quella Nazione (Vedi F.Chopin), che però risultarono approssimative soprattutto per il Tristano e Isotta tant’è che egli stesso nel 1888 rinnegherà la traduzione: “I peggiori versi sputati da una penna” facendo pace con il wagnerismo, egli, infatti, creò una parodia arrivando ad un provocatorio slittamento, comico, eroico dando vita ad un antifilosofico Tristano (Anti Tristan), un’ “anestesia del cuore” a Boito interessava il risultato non tanto la forma filosofica e celestiale ne è  esempio palese la protagonista femminile che risulta una creatura provocatoria, erotica, un’ “ideal sogno” (una sorta di Elena del suo Mefistofele) in contrapposizione con l’Isolde wagneriana che assomiglia alla Vergine Maria  (“Isolde in der Liebesverklarung” Cosima Liszt, 22 ottobre 1882) -”Assunzione dell’Assunta” del Tiziano Vecellio opera artistica da lui particolarmente amata dal 1861, anno del suo secondo viaggio a Venezia, la Margherita redenta ed assunta in cielo del Mefistofele, il suo “real dolore”;  codesto lavoro rimane comunque la prima traduzione cantabile dell’opera.

Da questo momento l’influsso wagneriano entrò come un turbine nella vita del giovane, tanto da voler diventare il compositore italiano dell’opera d’arte totale, della “melodia infinita”, dell’avanguardia musicale: un Richard Wagner ma all’italiana che però gli causò grandi ostilità.

Il 30 maggio 1865 al teatro Carlo Felice di Genova venne rappresentato L’Amleto, opera in quattro atti di Franco Faccio su libretto di Arrigo Boito, la collaborazione proponeva di creare una vera tragedia in musica trasformando quindi la “solita forma” (A.Basevi), tipica del Melodramma italiano ottocentesco, in una vera e propria forma:

“…L’ora di mutare stile dovrebb’essere venuta, la forma vastamente raggiunta dalle altre arti dovrebbe pure svolgersi anche in questo studio…” (Arrigo Boito, 13 settembre 1863, “La Perseveranza”),

cercando quindi di abolire nel maggior modo possibile i numeri chiusi non vi è più presente la tradizionale scansione in recitativi, tempi d’attacco, cantabili, tempi di mezzo e cabalette anche se non mancano i debiti alla tradizione operistica italiana: netta separazione tra sezioni dinamiche (realizzate principalmente come recitativi) e sezioni liriche come l’aria della regina nel terzo atto “Io rea, io rea che il padre” che ricorda le pagine verdiane. Per quanto riguarda il canto vi è una netta contrapposizione tra declamato, prevalente nel ruolo del protagonista, e il lirismo tipicamente italiano di Ofelia.

Il ruolo dell’orchestra è caratterizzato da momenti di scrittura sinfonica, che le conferisce la funzione di personaggio ad esempio quando introduce le scene tramite preludi o brani strumentali, e quello del mero accompagnamento al canto fortemente tradizionale.

Quest’opera può essere considerata un componimento di transizione creando una frattura tra tradizione e innovazione molto vicina a quella che stava compiendo Wagner nella sua Germania:

  • l’universalità dei soggetti wagneriani (miti germanici) in controcanto con la vasta modernità del soggetto Shakespeariano:

“…Il melodramma è la grande attualità della musica; Shakespeare è la grande attualità del melodramma.” (Arrigo Boito, 14 maggio 1865, “Giornale della Società del quartetto”)

  • opera a scene, ossia un blocco temporale piuttosto ampio e variamente articolato in pezzi non chiusi strettamente collegati tra loro per creare continuità musicale,
  • legame parola- musica: nei passi più espressivi viene utilizzato uno stile declamatorio che rassomiglia a un recitativo molto intenso,
  • ampio spazio al ruolo dell’orchestra che diventa protagonista importante dell’opera: in Wagner grazie ai “motivi conduttori”, vere e proprie azioni in musica che creano una sorta di doppio palcoscenico, mentre per l’Amleto l’orchestra si limita ad avere sezioni sinfoniche a lei dedicate con qualche motivo di reminiscenza già comunque utilizzati dai compositori italiani dell’epoca,
  • l’utilizzo di una scrittura diatonica-cromatica che crea dissonanza senza essere preparata e risolta, esempio più celebre ed estremo è il famigerato accordo di Tristano al limite della tonalità (opera rappresentata il medesimo anno dell’Amleto), mentre per Faccio-Boito è un territorio appena esplorato, ancora da sviluppare pienamente:

finale atto secondo – raffinato contrappunto che conclude la scena con una scala cromatica discendente, metafora di una discesa agli inferi o a mio parere di un lamento funebre (lamento di Didone, H.Purcell),  atto terzo – il Padre Nostro recitato da Claudio è accompagnato da una scrittura diatonica piana e turbata da cromatismi,

  • Passaggio repentino tra tonalità maggiori e minori non vicine: inizio atto quarto -breve introduzione strumentale in tonalità di si minore per concludersi in maggiore con terza piccarda e quinte vuote che creano indeterminazione.

La collaborazione tra Faccio e Boito ebbe un successo moderato, ci furono delle voci a favore ma non entrò nel repertorio operistico-teatrale:

“Da 40 anni, l’Italia non vide un’opera più completa, più nuova, più fine…” (F.Filippi).

Bisognerà aspettare sei anni prima che l’opera venga nuovamente rappresentata  sulle scene nella ripresa del 9 febbraio 1871 al teatro La Scala e fu un fiasco dovuto in parte alla cattiva esecuzione (fu rimaneggiata nel corso degli anni ad esempio venne tagliata l’ultima scena dove l’unico a morire trafitto è il re Claudio)

( “….Totalmente afono e disorientato non emise una sola nota con l’accento  di quel grande artista che fu sempre, abbassò la tonalità, soppresse intere frasi.”  F.De Renzis,

“L’Amleto si è rappresentato senza Amleto.” G.Ricordi, “Gazzetta musicale, riferimenti alla performance di M.Tiberini nel ruolo di Amleto)

e in parte dovuto ad un pubblico ostile alle idee estetiche dei due, vicine all’ “arte dell’avvenire”.
L’insuccesso dell’ esecuzione decretò la fine della carriera compositiva di Faccio, si dedicò alla direzione d’orchestra, e l’opera cadde nell’oblio fino alla ripresa del 2014, Opera Southwest di Albuquerque, nell’edizione critica di Anthony Barrese.

Boito ebbe sempre più frequenti rapporti epistolari con il compositore di Lipsia, di notevole importanza sono la lettera nella quale Wagner dichiara che durante una notte insonne in un albergo a La Spezia egli ebbe l’intuizione per la musica dell’ “Oro del Reno”, “Sulla fortuna di Wagner in Italia” o la lettera in cui Wagner espresse l’idea di una fusione tra genere musicale italiano e quello germanico. Nel 1871 Boito conobbe Wagner a Bologna in occasione della prima esecuzione italiana di un’opera del tedesco: Lohengrin. L’arrivo in Italia di un’opera del compositore è dovuta alle idee progressiste della città in particolare del sindaco I. Campanini, dell’ assessore E. Panzacchi, del direttore d’orchestra A.Mariani (direttore della prima italiana) e del poeta G. Carducci che fece un’importante propaganda all’interno dell’ ambiente universitario bolognese dove insegnava, egli dedica al compositore grandi elogi:
“Wagner possente mille anime intona ai cantanti metalli”, quei metalli (ottoni) che resero Boito in contemplazione ed in estasi già dall’esecuzione del Tannhäuser parigino tanto da utilizzarli in maniera consistente nel suo Mefistofele.

Il Mefistofele è la prova della venerazione che Boito ha per l’opera d’oltralpe, non solo per Wagner, C. Gounod, ma anche e soprattutto per G. Mayerbeer, essa è la “Tragedia” (“…E invece di dire libretto, picciola parola d’arte convenzionale, si dica e si scriva tragedia…” Arrigo Boito, “La Perseveranza”) che vede Boito come compositore, sceneggiatore, librettista e direttore d’orchestra (suggerito dal suo Maestro A. Mazzucato), come lo stesso Wagner era solito essere già dalla sua prima opera completa composta (Die Feen).

Possiamo considerarla un’opera monumentale perché è l’unica rappresentazione musicale che racchiuda entrambe le parti del Faust del Sommo poeta tedesco, nessuno mai si cimentò a tale impresa: i compositori tedeschi preferirono utilizzare altre fonti come la leggenda o il lavoro di N.Lenau (L.Spohr) o musicare solo alcuni testi dell’opera poetica di J.W. Von Goethe come per F.Schubert (“Gretchen am Spinnrade”) ovviamente non manca l’amato  F.Mendelssohn Bartholdy nel “Walpurgisnacht” dove racconta il sabba romantico o sempre di N.Lenau il  “Der Nachtliche Zug” “Mephisto Walzer – Der Tanz in der Dorfschenke” o la “Sinfonia Faust” di F.Liszt. I compositori tedeschi non vollero musicare per intero il Faust perché considerata la Somma opera poetica ed ebbero, quindi, una sorta di rispetto verso essa.

I francesi si cimentarono ma comunque non composero l’intero lavoro: H.Berlioz con la cantata “La damnation de Faust” (I parte) e C.Gounod con l’opera “Faust” o meglio “Margarete” (spregiativo dato dai tedeschi all’opera del francese) dove viene narrata la prima parte ossia quella terrena, “la reale”. Monumentale anche per la durata oltre le cinque ore, improponibile per il pubblico italiano tanto da riproporla in due serate separate e dividere quindi la prima e la seconda parte, un po’ come avvenne per Wagner e la Tetralogia ma ovviamente verrà scandita in più giornate essendo di durata più lunga, e, infine, gigantesca nell’organico, come in Wagner: una sorta di “Sinfonia dei Mille” in versione opera.

Opera eroico-universale come i soggetti wagneriani sempre legati alle leggende germaniche nella quali il popolo si riconosceva:

“….E il soggetto non fu esaurito, non lo è e non lo sarà mai. Perché fosse esaurito il soggetto di Faust converrebbe che fosse morto fra noi l’istinto del Vero dal quale emana…”  (Arrigo Boito, Prologo in teatro)

La lotta tra il bene e il male ne decreta l’attualità (“Sono una parte di quella forza che desidera eternamente il male e opera eternamente il bene” Faust, J.W. Von Goethe, “Una parte vivente di quella forza che perpetuamente pensa il male e fa il bene” A.Boito, Mefistofele)

L’opera non fu ben accolta alla prima esecuzione (Teatro alla Scala di Milano, 5 marzo 1868), un fiasco clamoroso dovuto alla portata d’innovazione che l’Italia non era pronta ad accettare e tanto meno a sostenere. Boito ne uscì sconfitto come il suo “Figaro delle tenebre” ma grazie all’editore musicale Giulio Ricordi che analizzò in modo preciso l’intera opera il suo diavolo ritornò nelle scene più forte che mai a Bologna nel 1875, città che aveva appoggiato molte innovazioni musicali (ricordiamo la prima italiana di Lohengrin,) ma con dovute rielaborazioni mantenendo sottobanco il carattere innovativo: il rifiuto quasi totale delle forme chiuse.
La rappresentazione bolognese sancì un successo tale da rendere Mefistofele un’opera eterna.

Analizziamo ora le somiglianze armoniche e tematiche tra l’opera boitiana “Mefistofele” e le opere wagneriane:

  • Dissonanze costanti: utilizzate da Wagner per poter adattare a qualsiasi contesto armonico i suoi Leitmotiv fino a creare un contesto tonale ambiguo (cromatismi), Boito le utilizza ma sicuramente rimane all’interno del sistema tonale non avendo bisogno di creare dei collegamenti tra motivi conduttori che non utilizzò (sono presenti comunque reminiscenze ad esempio “Ave Signor” che viene intonato nel primo atto, ritorna nel terzo per accompagnare Margherita al Cielo e nell’ Epilogo o il tintinnio di sonagli che caratterizza il personaggio oscuro):

[blockquote cite=”G. Verdi, 1879, al Conte Apprandino Arrivabene” type=”left”]Tu mi parli di musica ma parola d’onore, mi pare di averla dimenticata, e prova ne sia che l’altra sera sono andato a sentire il Mefistofele…e letto che il Prologo in Cielo era una cosa di getto, di genio… Ed io nel sentire che le armonie di quel pezzo appoggiavano quasi sempre sulle dissonanti mi pareva di essere… non in Cielo sicuramente.[/blockquote]

  • La costruzione di una “forma” con quasi la totale assenza di pezzi chiusi di grande duttilità musicale creando delle scene, temi poco orecchiabili che non vennero apprezzati dal pubblico italiano. Ci sono però in Boito dei riferimenti alla tradizionale “solita forma” dati principalmente a Mefistofele, il così chiamato “Figaro delle tenebre”, colui che si prende gioco dell’estetica musicale tradizionale italiana, ecco il fischio ironico.

Esempi: l’aria di presentazione “Son lo spirito che nega” che ricorre a svariati motivi contrastanti con dei ritornelli per dargli forma (i fischi), la cabaletta “Fin da stanotte nell’orgie ghiotte” duetto tra Faust e Mefistofele, la ballata “Ecco il mondo”. Privo di forma invece era “L’altra notte infondo al mare” descritto da G.Ricordi come privo di forma percepibile.

  • Dualismo del Mefistofele tra bene e male, cristianità e laicità, ideale e reale simile al dualismo del Tännhauser con la differenza che il Minnesänger viene redento dal sacrificio di Elisabeth mentre Faust per l’opera di bene che ha svolto in vita (“Re d’un placido mondo, d’una spiaggia infinita, a un popolo fecondo voglio donar la vita”).
  • Margherita la donna reale simile ad Elisabeth entrambe redente, Elena la donna ideale simile a Venere (entrambe figure mitologiche), donne provocatorie: “Ogni mortale mister conobbi, il Real, l’Ideale, l’amore della vergine e l’amore della Dea…Ma il Real fu dolore e l’Ideal fu sogno”.
  • Il variare continuo delle tonalità lontane da maggiori a minori senza ponti tonali quindi in modo repentino e non preparato.
  • Strumentazione del Prologo in Cielo simile a quello dell’Olandese Volante come l’ utilizzo degli ottoni rassomiglia al Prologo del Tannhäuser, le risposte in piano date ai legni ricordano l’ouverture del Lohengrin. Il Prologo del Mefistofele ricorda quindi i tre prologhi delle “opere romantiche” wagneriane creandone una sintesi e una fusione.

Prologo in Cielo (inizio) e Prologo del Tannhäuser (fine): entrambi in mi maggiore con le seguenti armonie simili:

per il primo (I) – V – I – V – I (ripetizione) I6 – VI – (V – VI – V) – I
per il secondo V – I – I6 – VI – (I46 – IV6) – I6 – I6 – IV – I6 ect.

 

Riduzione per pianoforte del Prologo in Cielo da “Mefistofele”, da battuta 1 a 5

Riduzione per pianoforte del Prologo in Cielo da “Mefistofele”, da battuta 1 a 5

Prologo del “Tannhäuser” da battuta 5 alla fine

Prologo del “Tannhäuser” da battuta 5 alla fine

 

Boito si considerò, comunque, sempre un vero italiano (nelle fila dei Garibaldini assieme a F.Faccio), non dimenticandosi della cultura e della tradizione della sua Nazione ma con la sacra missione di trascinare la musica e la letteratura del suo Paese verso l’avanguardia europea:

“…Tutti dovrebbero mantenere i caratteri proprio della loro nazione, come disse benissimo Wagner.” (G.Verdi, Genova, 14 aprile 1892, a H. Von Bulöw)

Caterina Schenal

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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