La guerra senza pace tra Tolstòj e la musica

Lev Nikolàevič Tolstòj, figura iconica della cultura russa del XIX secolo, ha dedicato alla musica pagine dotate di grande densità significativa e manifestò un coinvolgimento nella musica che ha tutt’altri caratteri rispetto ad un sereno rapimento estatico.

Autore: Lorenzo Pompeo

17 Ottobre 2017

Tolstòj amava la musica, ma l’amava come amava ogni altra cosa nella sua vita: in modo combattuto, drammatico, con una ampiezza spirituale che lo portava a nutrire avversione per ciò che aveva vissuto con pienezza precedentemente. In questo senso fu emblematica la celebre conversione spirituale che lo portò a rifiutare valori accettati come indissolubili fino a pochi anni prima, oppure ad affermare nuovi paradigmi letterari che lo conducono a rifiutare e condannare suoi capolavori come Guerra e Pace e Anna Karenina.

Molti musicisti avevano il piacere di prendere parte a riunioni nella tenuta di Jàsnaja Poljàna e Lev stesso trascorreva ore al pianoforte insieme alla moglie, ma l’elemento più interessante sono sicuramente gli incontri con Čajkovskij e Rachmaninov.

Gli incontri col primo furono vari, il primo avvenne nel 1876 e nelle lettere di quei giorni Čajkovskij raccontò di essere conquistato dalla personalità di Tostòj, prendendo nota dell’evento nei propri diari:

«Quando per la prima volta mi trovai di fronte a Tolstòj, provai un incredibile senso di panico. Mi sembrava che a questo grande conoscitore di cuori bastasse gettare uno sguardo su di me per penetrare fino ai più reconditi meandri della mia anima. Al suo occhio, credevo, non poteva rimaner celata neppur la più piccola debolezza della mia indole, per modo che risultava inutile cercar di mostrarglisi soltanto dal lato migliore. In realtà le cose andarono in modo tutto diverso. Il sommo fra tutti i conoscitori d’uomini, si rivelò un essere molto semplice, molto affabile, al quale non importava assolutamente nulla di mettere in evidenza davanti a chicchessia quell’onniscienza che tanto paventavo… evidentemente non vedeva in me un oggetto delle sue indagini, ma voleva unicamente discorrere un poco di musica con me.»

Non dovette attendere a lungo un secondo incontro, poiché poco tempo dopo il Conservatorio di Mosca organizzò una serata in onore di Tolstòj in cui veniva eseguito, tra gli altri, l’Adagio cantabile tratto dal Quartetto per archi n.1 op.11 proprio di Čajkovskij, che sempre nei diari ricorda anche questo secondo incontro:

«Mai, in vita mia, la mia ambizione fu così soddisfatta, mai la mia coscienza di autore così appagata come quella volta quando Tolstoj, seduto accanto a me, ascoltava le note del mio Andante, mentre lacrime di commozione gli rigavano le guance».

Di questo incontro possediamo anche testimonianza di Tolstòj, che scrisse una lettera a Čajkovskij colma di emozione:

«Non le ho detto nulla di quel che provavo, non ne ebbi nemmeno il tempo; potevo soltanto godere. Il mio ultimo soggiorno a Mosca rimarrà fra i miei ricordi più belli. Prima di allora, non mi era mai toccato ricevere per le mie fatiche letterarie un compenso così bello come quella meravigliosa serata.»

Altri incontri vengono riportati da Čajkovskij senza datazione precisa, in cui si fa riferimento a colloqui che suscitarono grande ammirazione nel compositore:

«L’inverno scorso ebbi alcuni interessanti colloqui con Tolstòj il quale mi aprì gli occhi su molte cose. Mi convinse che chi non crea per intimo impulso, ma mira all’effetto calcolato con l’intenzione di piacere al pubblico, non è artista autentico. Le sue opere sono caduche, i suoi successi effimeri. Sono pienamente compenetrato di tale verità».

Čajkovskij nutriva una stima ai limiti della venerazione per Tostòj, sufficiente a provocare grande insofferenza per la svolta etica che intraprese lo scrittore. Nel 1886, Čajkovskij nel suo diario scrive parole molto dure al riguardo, con una conclusione che restò celebre:

«Se si leggono le autobiografie dei nostri grandi uomini, ci si imbatte ad ogni istante in pensieri, impressioni, sentimenti che si sono spesso provati. Esiste uno solo che è inafferrabile, che se ne sta ineguagliato e solo nella sua grandezza: Lev Tolstòj. Spesso mi sento in collera con lui e mi par quasi di odiarlo. Perché, penso, quest’uomo che possiede il dono prezioso di accordare l’anima dell’uomo in una maniera meravigliosamente armonica, che ha la forza di indurre le nostre deboli menti ad afferrare i più riposti moti del cuore, perché si sente in dovere di fare il predicatore, il moralista? Una volta, col semplice racconto di un episodio della vita di tutti i giorni, sapeva suscitare le impressioni più profonde. Adesso commenta testi e pretende un monopolio esclusivo nelle cose di fede e di etica. Il Tolstòj di un tempo, il narratore, era un Dio; l’attuale non è che un sacerdote».

Seppur meno documentato, è assolutamente rilevante e curioso l’aneddoto riguardante l’incontro che Tostòj ebbe con Sergej Rachmaninov. Rachmaninov affrontava un momento di depressione, cosicchè alcuni amici organizzarono un incontro con Tolstòj nella speranza che la sua poderosa energia potesse risvegliare speranza e convinzione nello spirito di Sergej.

L’intento non fu esattamente raggiunto, se è vero che dopo aver ascoltato alcuni suoi brani per pianoforte, Tolstòj si rivolse a Rachmaninov ponendogli questa domanda:

«Dimmi, le persone hanno bisogno di musica come questa?»

Il potere della musica

La gelosia per il rapporto tra un altro celebre musicista dell’epoca, il pianista e compositore Sergei Taneyev, e la moglie di Tolstòj, Sofia, avrebbe ispirato il racconto del 1889 intitolato “La Sonata a Kreutzer”.

La vicenda avviene tutta nell’arco di un viaggio in treno. Vasja Pozdnyšev, dopo aver ascoltato un varie persone discutere sull’amore e sulla natura dei rapporti sentimentali, si rivolge all’unica tra queste rimasta in seguito nel suo scompartimento, un uomo che Tolstòj lascia innominato. Il racconto si perde tra una serie di divagazioni moralistiche sull’amore di cui Tolstòj lo infarcisce, ma il narratore progressivamente viene trascinato dalla propria storia personale e il pathos nelle pagine aumenta di conseguenza, fino alla confessione finale dell’omicidio della propria moglie dovuto ad una furiosa gelosia scatenata dal rapporto tra lei e un abile violinista, Truchacevskij.

Sarebbe semplicistico considerare la gelosia come causa dell’omicidio e non è questo il messaggio che vuol comunicare Tolstòj, ma, nei fatti, il motivo scatenante è esattamente questo. Il rapporto tra la moglie e Truchacevskij si intensifica, finché, durante un viaggio del protagonista, quest’ultimo viene avvertito dalla moglie, tramite una lettera, della presenza in casa del musicista. Fuori di sé ritorna a casa, trova i due a conversare in piena notte e, in preda all’ira, pugnala la donna a morte.

Negli 1889-1890, anni in cui viene pubblicata “La Sonata a Kreutzer”, Tolstòj si trovava nel pieno della sua conversione spirituale, di cui è figlio l’impegno moralistico che lo coinvolgerà in tutti gli anni seguenti nella causa del pacifismo, della resistenza non violenta, di una nuova religiosità che lo allontana definitivamente dalla Chiesa Ortodossa in quanto critica verso la sacralità dei testi biblici, verso il ruolo della Chiesa nel controllarne l’interpretazione e più in generale nei confronti della Chiesa come istituzione, oltre che diversa nella stessa interpretazione di Dio, intrisa di elementi che si potrebbero definire panteistici.

Un carattere della morale propugnata da Tolstòj e caposaldo de “La Sonata a Kreutzer” è la condanna senza appello della sensualità che rende l’amore nient’altro che un rapporto di proprietà e dipendenza dove l’uomo vede la donna come un oggetto di piacere che risponda ai suoi vizi e desideri e la donna, di rimando, cerca di sedurlo con ogni mezzo, al punto da essere equiparate a prostitute, rispetto alle quali però vengono riverite e apprezzate.

Tolstòj è stato più volte accusato di misoginia e di aver umiliato sua moglie Sofia, che si vedeva celata dietro la donna del racconto, ma lo scrittore nel testo non manca mai di evidenziare la condizione di insanità mentale di Pozdnyšev che, anche di fronte alle più sincere rassicurazioni della moglie, non smette mai di torturarsi con immagini e paure. Certo, il comportamento della moglie pare insolito per le convenzioni dell’epoca e sicuramente Tolstòj lascia aperti spiragli verso un effettivo sentimento nutrito da essa per il violinista, ma, alla fin fine, non vi è nemmeno la certezza del tradimento e anzi, pare alquanto improbabile che sia avvenuto.

La conclusione è che è la medesima natura dell’istinto sessuale ad aver provocato l’omicidio, la natura stessa dei rapporti che rende le persone degli oggetti ad aver creato il terrore di essere “derubato”.

Per quanto i sospetti crescano con la frequentazione cordiale da parte dei due presunti amanti, tutta la paura di Pozdnyšev si riversa in un episodio, in una serata musicale con invitati in cui i due, lei al pianoforte e lui al violino, suonano, oltre ad altri brani, la Sonata a Kreutzer di Beethoven.

Il tradimento, la passione tra i due amanti agli occhi del marito è tutta qui, nel primo tempo della Sonata. Le due parti strumentali si intrecciano, sembrano attirarsi e richiamarsi come due desideri che si ricercano, la voce dell’uno si perde e confonde nel vibrare dell’altra, così che Pozdnyšev, dietro a questa comunanza di spiriti, sentiva bruciare una tensione alla corporeità, qualcosa di assolutamente carnale.

In un primo momento anche lui resta coinvolto da questa energia, trasportato in una sorta di isterica euforia inspiegabile, ma la memoria di questa forza della musica gli resta impressa con decisione.

Alla musica si attribuisce una vera e propria carica erotica, un flusso incontrollabile che riesce a determinare le azioni dell’uomo, ne scatena gli impulsi ed alimenta la sua parte volitiva e istintiva. Ci sono molte assonanze con la filosofia della musica dominante dell’epoca, basti pensare a Schopenauer che vede la musica come emanazione diretta della Volontà, o Nietzsche per quanto riguarda la spiritualità dionisiaca, ma soprattutto a Kierkegaard, che associa alla caratterizzazione della vita estetica, personificata in Don Giovanni, proprio la musica del Don Giovanni di Mozart. L’uomo estetico vive nell’istante, nel vuoto, e da un vuoto all’altro passa alla continua ricerca della risposta ai suoi impulsi.

Le parole che Tolstòj mette in bocca a Pozdnyšev manifestano una sensibilità simile, ai limiti di una sorta di fobia della musica, o più precisamente della forza che esercita sull’uomo.

«Suonarono la Sonata a Kreutzer di Beethoven. Conoscete il primo tempo, il presto? Lo conoscete? Oh! Oh! Tremenda cosa questa sonata! E specialmente questa parte. E in generale, tremenda cosa la musica! Che cosa è mai? Io non capisco. Che cosa è mai una simile musica? Che cosa fa? E perché produce di tali effetti? Dicono che la musica agisca sull’anima elevandola. Stoltezza! Menzogna! Agisce sì, agisce terribilmente, lo dico per parte mia, ma non eleva affatto l’anima. Agisce non elevando né abbassando l’anima, ma irritandola. Come dirvi? La musica mi fa dimenticar me stesso, la mia vera esistenza: mi trasporta in un’atmosfera che non è quella della mia vera esistenza; sotto l’influsso della musica mi par di sentire cose che assolutamente non sento, di capire cose che non capisco, di poter fare cose che non posso fare. Io spiego questo col dire che la musica agisce come lo sbadiglio, come il riso: non ho voglia di dormire ma sbadiglio guardando uno che sbadiglia; non ho motivo di ridere ma rido guardando uno che ride. La musica, a un tratto, immediatamente mi trasporta nello stato d’animo in cui si trovava colui che ha scritto quella data musica. Io mi confondo con l’anima sua e con lui passo da uno stato all’altro: ma perché ciò accada io non so. Colui che ha scritto la Sonata a Kreutzer, Beethoven, sapeva perché si trovava in quel tale stato d’animo: questo stato lo aveva condotto a compiere alcune date azioni e quindi questo stato per lui aveva un senso, per me non ne ha nessuno. Perciò la musica eccita soltanto senza portare a una conclusione».

Il compositore, nel riempire lo spartito, non ha solo una responsabilità creativa, quanto piuttosto un vero e proprio potere di trasmettere nelle note dei contenuti tali da trasportare l’ascoltatore nell’esatta condizione che prova o desidera lui. Pozdnyšev è terrorizzato dal fatto che chiunque possa farne uso e controllare le persone, tanto da augurarsi un controllo statale della musica!

«Suonano una marcia militare, i soldati camminano al suono di questa marcia e la musica ha ottenuto il suo effetto; suonano un ballabile, si balla e la musica ha ottenuto il suo effetto; si canta una messa, io mi comunico e la musica ha ottenuto il suo effetto; ma questo non produce che eccitazione, e ciò che deve compiersi mediante questa eccitazione non si compie. E per questo, a volte, la musica ha un effetto così tremendo, così spaventevole. In Cina la musica è prerogativa dello stato. E così dovrebbe essere dappertutto. Si può forse ammettere che chiunque voglia , possa ipnotizzare una o più persone e poi farne quello che gli piace? Specialmente poi se questo ipnotizzatore è il primo uomo immorale che capita? È un mezzo pericoloso messo nelle mani di uno qualunque. Per esempio, il primo presto di quella Sonata a Kreutzer, si può mai suonare in un salotto, fra signore scollate? Suonare questo presto e poi applaudire, e poi prendere gelati e parlare dell’ultimo pettegolezzo? Queste cose si possono suonare soltanto in date circostanze, importanti, significative e allorché si debbono ottenere delle date azioni, corrispondenti a questa musica. Suonare e far poi ciò che questa musica esprime. Ma suscitare energie e sentimenti non corrispondenti né al tempo né al luogo e che non conducono a nulla, non può far di manco di avere un effetto deleterio. Su di me, almeno, questo pezzo agiva in modo terribile: era come se mi svelassero sentimenti che a me parevano assolutamente nuovi, nuove possibilità a me sconosciute fino a quel momento. “Ah! Ecco, è così: non come io vivevo e sentivo prima. Ah! Ecco, è così” mi pareva che mi dicesse una voce nell’anima».

La vera musica

Dopo pochi anni questo conflitto interiore acquisì anche una forma saggistica. Al 1897, infatti, risale lo scritto “Che cosa è l’arte?” in cui viene affrontata una generale critica alla teoria dell’arte passata e contemporanea e all’arte in sé per come essa è venuta a svilupparsi. Si tratta di un testo estremamente problematico, ricco di interpretazioni che potrebbero far gridare all’approvazione o all’indignazione senza possibilità di vie mediane.

Tolstòj si interroga su cosa sia l’arte, provando a darne un significato universale che non consenta spazio a falsa arte foriera di effetti dannosi per l’uomo.
Proprio l’arte del tempo pare a Tolstòj la peggior forma di falsa arte, una mistificazione del senso stesso di arte oltre che delle sue forme, tanto per quanto riguarda le arti figurative tanto per quanto riguarda la musica o la poesia.

La vera arte attinge alla “conoscenza religiosa”, una sorta di cristiano senso del sacro che attraversa l’umanità intera con la sua universale gamma di valori accessibile a tutti, dal nobile al contadino, anzi, al secondo forse più che al primo. L’arte deve operare in favore di questa conoscenza religiosa e trasmettere i suoi frutti attraverso un’opera che Tolstòj definisce di “contagio”, quasi a voler evidenziare la forza tangibile e corporea oltre che spirituale che deve possedere un’arte che sia tale. Non conta solo l’inventiva, l’originalità; essa deve porsi al servizio dell’umanità, realizzare l’unione fraterna degli uomini e sopprimere la violenza. Potremmo cercare una spiegazione più compiuta di questo senso religioso comune accennando all’idea della Sobornost, molto diffusa in Russia tra ‘800 e ‘900 e che potrebbe esser stata in qualche modo condivisa da Tolstòj. Sobornost è un termine russo dall’etimologia complessa che si potrebbe tradurre con Ecclesialità, una “comunità spirituale di persone che vivono in piena comunione” fondata sull’amore per alcuni valori che condividono in piena libertà e unità, un nucleo quasi familiare che si sente unito da una comune matrice spirituale, ma anche da una comune identità storica dove l’individualismo dev’essere superato in una vera e propria kenosis del proprio essere-sè.

Anche se Tolstòj adduce esempi di vera arte tra la musica classica come l’opera di Bach, in particolare la famosa Aria per violino, il Notturno op.9 n.2 in Mi bemolle maggiore di Chopin e alcuni brani dello stesso Chopin, Beethoven, Haydn, Schubert e Mozart, la vera natura di ciò che deve rappresentare l’arte per lui sta nei canti popolari, testimonianza viva della piena partecipazione ad una comunione di vita che l’arte deve sempre cercare di trasmettere e rafforzare.

Dal Rinascimento l’arte prende una strada che, secondo Tolstòj, è diametralmente opposta a questa poiché l’arte inizia ad appartenere a un gruppo ristretto di persone che la condividono perché oggetto del loro esclusivo piacere. L’ideale di Bellezza impera su qualsiasi manifestazione artistica senza chiarezza su quali canoni la definiscano; si giunge a indicare non più un’opera d’arte bella perché tale appaia, ma a definire la bellezza in base alle opere d’arte approvate dalle élite. Nell’assenza di conoscenza religiosa, l’arte viene definita in base a criteri personali e la presunta bellezza è in realtà soltanto legittimazione del piacere che prova chi ne gode. Le classi agiate non solo escludono la massa di persone che non vi appartengono, ma le sfruttano ai fini della realizzazione di spettacoli destinati a procurare loro piacere.

In definitiva, l’arte così intesa non è più condivisa, non è più libera e inclusiva, viene resa incomprensibile alle persone incolte che nel restare freddi di fronte ad essa vengono messi alla berlina per la loro manifesta inferiorità non solo intellettuale, ma morale. Le stesse persone appartenenti ai ceti alti mentono e si predispongono previamente a restare coinvolti dalla musica solo per tingersi di altezzosa superiorità, o forse per non essere additati essi stessi quali ignoranti.

Se ci si arrestasse a queste generalità, probabilmente sarebbero in molti a trovarsi d’accordo con Tolstòj e all’amara condizione della lontananza della musica colta da chi non può fruirne, ma è improbabile che altrettanti condividerebbero gli esempi concreti che pone.

Tolstòj, tanto per cominciare, condanna senza appello e in toto l’attività dei grandi teatri d’opera europei. L’attività operistica gli appare come un susseguirsi di depravazioni artistiche, a cominciare dal ruolo della critica che ogni giorno lavora per canonizzare a regime estetico la data opera, il dato interprete e la scena, fino ad arrivare alla violenza verbale con cui i direttori si rivolgono a strumentisti e cantanti durante le prove, giustificati dall’uso comune.

La critica più sferzante tuttavia è ancora una volta di natura sociale. Operai, imbianchini, falegnami, muratori, ogni genere di maestranza si prodiga per tutta la vita in fatiche atte a soddisfare le esigenze dell’arte e di chi deve fruirne in una vera e propria industria che fa concorrenza a quella bellica. Una fatica che non verrà ricompensata dalla condivisione dell’arte, perché è un’arte di cui non sono “all’altezza” e che non possono comprendere, qualcosa che non potrà mai appassionarli.

Tolstòj descrive con sdegno e ironia le prove di un dramma in programmazione a Mosca, ma è ancora più sferzante nel raccontare l’esperienza della visione di un’opera di uno dei suoi principali bersagli, Richard Wagner.

Agli occhi di Tolstòj, Wagner, contrariamente a quanto fecero prima di lui Mozart ma anche Rossini o Weber, antepone la poesia alla musica. Se per Tolstòj nelle opere di Mozart, persino dotate dei testi più assurdi come nel Flauto magico, lo spettatore poteva ricevere pienamente impressioni musicali e goderne, questo non avviene in Wagner che, viceversa, non fa nulla di diverso rispetto ad un versificatore che provasse a mettere in versi una Ballata di Chopin o una Sonata di Beethoven, trovandosi a incastrare parole in fila senza nessuna concordanza e sensibilità.

Tolstòj si scaglia contro l’idea della Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, e rivendica, quale caratteristica essenziale dell’opera d’arte, la semplicità da intendere in senso strettamente etimologico: sin-plicas, senza pieghe, una totalità esplosa ed unitaria. L’arte deve comunicare i sentimenti intimi dell’artista, ma come possono mai comunicare e incastrarsi perfettamente le interiorità del musicista e dello scrittore? Ciò è impossibile, poiché se anche due opere d’arte coincidessero perfettamente almeno una delle due risulterebbe una contraffazione.

Così Tolstòj passa in rassegna tutta la serie di grotteschi elementi cui assiste nella rappresentazione del Siegfried, tra finti nani inginocchiati, martelli usati in modo grottesco, strani suoni prodotti dalle bocche dei cantanti, travestimenti di orsi ma, soprattutto, una musica per lui inconcludente, che partiva senza sapere dove andare e senza mai arrivare da nessuna parte, insomma, una tortura che lo porta a scappare di corsa dal teatro.

A chi potrebbe contestargli che per apprezzare Wagner dovrebbe assistere ad uno spettacolo al Bayreuth, dove l’orchestra è nascosta nel buio e l’esecuzione è condotta alla perfezione, Tolstòj risponde che questa non è musica, ma ipnotismo, e anche chi si rende conto dell’abominio timidamente tace come un sobrio tra ubriachi.

Eppure Wagner ebbe successo, un successo epocale, ma questo non scompone Tolstoj che se lo spiega così:

«Mi spiego questo successo ricordando che Wagner, grazie alla posizione esclusiva nella quale si trovava e avendo a disposizione i mezzi di un re, sfruttò con grande abilità tutte le maniere di contraffare l’arte, elaborate nella lunga pratica con l’arte falsa e mise insieme un’esemplare opera d’arte contraffatta. Ho preso come esempio questa opera proprio perchè in nessuna delle contraffazioni dell’arte che io conosca sono uniti con tale maestria e forza tutti i metodi con i quali si contraffà l’arte, cioè il prendere a prestito, l’imitare la ricerca dell’effetto e la curiosità».

Wagner non è l’unico bersaglio di Tolstòj, dal momento che lo diventano anche gli stessi Mozart, Haydn o Chopin quando riempiono di abbellimenti e armonie le loro opere, ma nessuno di loro viene criticato aspramente come invece accadrà con Beethoven, ancora lui, l’autore della famigerata Sonata a Kreutzer.

Tolstòj racconta di un pomeriggio in cui, trovandosi a rincasare, aveva potuto udire un coro femminile dedicare ad una sua figlia da poco sposata un canto che lo riempì d’entusiasmo e gioia, e così anche tutta la sua famiglia, contagiati tutti dallo stesso sentimento. La sera stessa, un brillante musicista si prodigò nell’esecuzione di alcune opere di Beethoven, tra cui la Sonata op.101 che parve lasciare tutti visibilmente annoiati, lesti però ad ammettere che l’ultimo periodo beethoveniano, anche se non lo capivano, era certamente il migliore. Tolstòj confrontò l’impressione ricevuta dal coro delle donne poche ore prima e fu oggetto di ironia da parte degli astanti. Per lui, tuttavia, è evidente che il canto del coro è arte vera, mentre la Sonata no.

«Per un lungo periodo mi suggestionavo in modo da ammirare queste improvvisazioni amorfe che costituiscono il contenuto delle opere dell’ultimo periodo beethoveniano, ma poi è bastato che prendessi un atteggiamento serio verso la questione dell’arte e confrontassi l’impressione ricevuta dalle opere dell’ultimo periodo di Beethoven con una gradevole, chiara e forte impressione poetica (come quella ad esempio che si riceve dalle melodie di Bach – le sue Arie – di Haydn, di Mozart, di Chopin – quando le loro melodie non sono ingombre di complicazioni e abbellimenti – e dello stesso Beethoven del primo periodo) e le confrontassi soprattutto con le impressioni ricevute dalle canzoni popolari italiane, norvegesi, russe, dal czardasz ungherese e con altre cose semplici, chiare e forti perché scomparisse quell’incerto e quasi morboso eccitamento artificiale che io stesso suscitavo in me stesso per mezzo delle opere dell’ultimo Beethoven. […] Il canto delle donne era arte vera, che trasmetteva un preciso e forte sentimento. La Sonata op.101 di Beethoven era solamente un tentativo d’arte fallito, che non conteneva alcun sentimento determinato e quindi era incapace di contagiare».

Se il giudizio di Tolstòj sull’ultimo Beethoven può lasciare interdetti, non può non scandalizzare che per Tolstoj un esempio di falsa arte sia nientedimeno che la Nona Sinfonia.

« “Come, la nona Sinfonia appartiene alla categoria dell’arte cattiva?!” sento dire da voci indignate. Senza dubbio, rispondo io».

Assieme a Beethoven segue il giudizio negativo per Liszt, Brahms, Berlioz, Richard Strauss, Schumann, ma, al di là degli esempi specifici, Tolstòj se la prende con tutto l’edificio creato dalla musica del tempo, dove gli strumentisti dedicano ore e ore ad esercizi per rendere agili le mani, ma davanti al pubblico comunicano la volontà di suonare per sé, e non per trasmettere loro un contenuto spirituale. Questo si riverbera su chi ascolta, creando freddezza e distanza, una spirale di indifferenze egoistiche tra un ascoltatore che giudica invece di ascoltare e un interprete che si isola invece di donarsi.

Quale avvenire?

Le parole di Tolstoj potrebbero essere classificate subito come vaneggiamenti di un idealista, ma non si otterrebbe nulla dal mettersi a condannare una mente dalla sua levatura. È necessario andare oltre e ascoltare i timori di un uomo anziano che ama la musica e l’umanità, soffrendo dell’abbandono cui l’umanità stava destinando la musica e l’arte. È quanto mai attuale il tragico problema della distanza della musica colta dalle masse che ora più che non sentirsene all’altezza considerano semplicemente come una cosa vecchia e vuota d’ interesse.

Chiarire le responsabilità di questa distanza sarebbe dovere non solo di chiunque si dedichi alla musica, ma di chiunque la ami. Tolstòj la ama e il suo è un grido disperato, forse inascoltato.

La musica deve appartenere alle persone, nel senso di una comunione spirituale con essa, ed è vero che è necessario comunicare qualcosa in ogni concerto, ogni singola esecuzione. Una musica a libero uso di sé stessi col tempo non sarà vitale per nessuno, tanto meno per sé stessa, rischiando di deperire sola o tra pochi intimi.

Che la coscienza possa essere religiosa o meno attiene alla singola persona, ma oltre la bellezza dell’armonia, la purezza della linea melodica, un trillo ben eseguito ci dev’essere un donarsi per sentirsi insieme parte dell’umanità, qualcosa che Tolstòj chiamerebbe volontà di contagio.

Tolstòj desiderava solo questo, che la musica fosse il mezzo privilegiato per trasmettere la vitalità del nostro intero essere senza corruzione ed egoismo, dove ognuno sia libero di conoscersi e viversi abbandonato a qualcosa che fosse realmente positiva comunione spirituale, una nuova e rinnovata Sobornost.

Lorenzo Pompeo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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