Contemporanea VS elettronica: davvero così distanti?

“Cercare di definire la musica – che in ogni caso non è un oggetto ma un processo –  è un po’ come cercare di definire la poesia: si tratta cioè di un’operazione felicemente impossibile […] Forse la musica è proprio questo: la ricerca di un confine che viene continuamente rimosso. […] La musica è tutto quello che si ascolta con l’intenzione di ascoltare musica:” (Luciano Berio – Intervista sulla musica – 1981)

Autore: Gabriele Toma

17 Luglio 2017
In questo terzo capitolo cercherò di mettere a confronto quanto emerso nelle interviste a Daniele Ciminiello (compositore strumentale) e Francesco Rizzo (compositore elettronico), ammesso che un confronto tra singoli rappresentanti dei due generi possa essere esteso agli interi universi musicali, che, abbiamo appreso, sono di una vastità tale che la vita umana stessa non ha durata sufficiente per assimilarne il 100%. Ritenendo più importante evidenziare le analogie tra le due visioni che le differenze, che potranno sempre essere analizzate in un prossimo futuro (cercavate sangue eh?), proverò ad analizzare i molti punti di contatto, senza la pretesa di stabilire alcun tipo di linea-guida o principio, se non quelli che derivano dall’analisi della situazione musicale attuale sotto gli occhi di tutti, analisi che, è doveroso dirlo, è pur sempre una mia modesta visione personale, condivisa però anche dai due compositori intervistati, la cui autorevolezza è certamente superiore a quella dello scrivente, come potete constatare apprezzando la loro competenza nelle interviste precedenti e ascoltando la loro musica. Anche in questo capitolo attingerò alle acute quanto lungimiranti osservazioni del maestro Luciano Berio.

Etichette

Il primo principio che sembra essere condiviso è il rifiuto delle cosiddette “etichette”: esse sarebbero le definizioni di comodo adoperate per circoscrivere sommariamente un genere musicale da parte di chi, in fondo, non vuole conoscerlo.

“Rinchiudere tutto ciò che mi circonda in categorie e appiccicare un’etichetta a ciascuna di loro è un atteggiamento che non mi appartiene.”

Come sappiamo infatti la musica è un sapere dinamico quanto impalpabile, e occorre praticarla o almeno esperirla con la dovuta consapevolezza prima di potersi pronunciare con cognizione di causa, onde evitare il rischio di semplificare, banalizzare o addirittura distorcere le informazioni.

“In una sua lezione Lacan dice che per studiare un oggetto bisogna snaturarlo, è necessario ergersi al di sopra di esso e definirne una fotografia statica da analizzare con facilità, e ciò lo considero un processo inevitabile ai fini del mero studio ma, per definizione, decisamente meno utile ai fini della ricerca, lì dove è necessaria la consapevolezza di un mondo che ci circonda sempre in movimento, in continua mutazione, pieno di micro-strutture: il mercato musicale, le accademie, le tecnologie, i linguaggi (o l’assenza di linguaggi), tutti aspetti impossibili da analizzare staticamente.

L’assunzione di un atteggiamento mentale meno giudicante e categorizzante, in favore di un approccio intellettualmente onesto e approfondito, nonché aperto ed elastico, favorisce dunque una più completa comprensione dell’arte musicale (e della vita) nella sua complessità, oltre ad evitare situazioni spiacevoli ed avvilenti per i musicisti, come quelle raccontate da Daniele e Francesco e quelle purtroppo taciute da tanti altri giovani e meno giovani musicisti.

Quest’insana abitudine di appiccicare etichette ci deriva forse involontariamente dalla mentalità di mercato e dal mondo della pubblicità, da cui siamo pesantemente invasi: ai fini del profitto è necessario “piazzare” un prodotto, renderlo più facilmente possibile riconoscibile, curarne più l’apparenza che l’essenza, in altre parole: etichettarlo. Proprio il considerare la musica un “prodotto” da etichettare ha suscitato in Berio una veemente critica alla conseguente dicotomia tra “produttori” e “fruitori” della musica già negli anni ’80:

“Posso solo confessarti che quei due termini non mi piacciono perché suggeriscono l’idea di una fabbrica che produce beni di consumo musicale e di gente che li compra e se li mangia. La mia avversione per questi termini è forse eccessivamente istintiva e viscerale; come la mia avversione per un altro termine di uso frequente: operatore culturale. Un termine sociologicamente, antropologicamente e culturalmente demente. Mi piace pensare che gli uomini facciano delle cose e dei mestieri precisi e mi piace pensare che un pescatore o un contadino siano produttori di cultura almeno quanto un burocrate o un mezzobusto televisivo. Il musicista e l’ascoltatore non appartengono a due diverse categorie socio-culturali.”

Carmina non dant panem

Quando poi la politica si presta ad asservire, anche solo per passività o incoscienza, l’ideologia di mercato in tutto e per tutto, anche in ambiti che, per definizione, sono oltre la materialità come la cultura e la ricerca, e che per loro natura non sono finalizzati produrre utili ma al contrario necessitano di investimenti, ecco che un tristemente noto ministro dell’economia arriva a sentenziare: “Con la cultura non si mangia”.

Questa offesa al mondo culturale, oltre ad essere una pura e semplice falsità (basta informarsi sui posti di lavoro creati da teatri, concerti e spettacoli fuori dall’Italia), degrada la Cultura di un Popolo alla stregua di un oggetto di consumo, e crea una scissione artificiosa, ponendoli implicitamente in antitesi, tra il nutrimento fisico e quello mentale-spirituale, come se uno impossibilitasse l’altro. L’autore di tale sproloquio è probabilmente digiuno del secondo.

Musica “colta”

Una delle principali etichette, parimenti criticata tanto da Daniele quanto da Francesco, di cui sono vittima purtroppo anche molti tra i più benintenzionati melomani e addetti ai lavori, è proprio quella della “musica colta”.

“Detto francamente, è un termine che detesto. Fa pensare che la musica di chi ha studiato in conservatorio sia migliore di quella di chi non ha studi accademici. Ma non è vero, la storia è piena di geniali autodidatti. Non esistono una musica colta e una musica ignorante. La musica è sempre una, semplicemente vive in contesti diversi che richiedono approcci differenti.”

“…definire un universo musicale facendolo corrispondere ad una cerchia ristretta di persone che si suppone facciano parte di una sorta di “aristocrazia musicale” rende il contesto accademico difficilmente approcciabile dai più, impedendo inoltre di riconoscere il valore artistico anche in altri universi musicali che sembrano lontani dalla definizione in sé di “musica colta”.

Nel repertorio oggi chiamato “colto” esistono brani semanticamente “monodimensionali” come ad esempio “Sul bel Danubio blu”, nati con intento dichiaratamente “pop” anche nella loro epoca, così come al di fuori di questo repertorio esistono brani la cui potenza semantica è chiaro segno di genialità, come ad esempio le composizioni di Amon Tobin o dei Pink Floyd. A questo proposito il buon Berio ci dice che:

“La maggior parte delle canzoni commerciali, così come le tappezzerie sonore che si autoproclamano d’avanguardia e la traduzione in musica del gioco della tombola, hanno un solo livello d’ascolto: ma c’è la musica che ha molti livelli d’ascolto e che è produttrice continua di senso musicale. Più semplice e monodimensionale è il discorso musicale e più diffuso e immediato è il suo rapporto con la realtà quotidiana. Più concentrata e complessa è la struttura musicale, più concentrato e selettivo è il suo rapporto sociale, mentre molteplici sono i suoi significati.”

L’ “immediatezza” della diffusione dei brani “monodimensionali” spiegherebbe quindi perché le canzoni commerciali vedono un successo effimero, un improvviso boom di ascolti che dura al massimo una stagione, per poi cadere nell’oblio di un mercato che ha sempre qualche prodotto nuovo da vendere. Al contrario i brani il cui spessore semantico è maggiore, che per coerenza chiamerò “multidimensionali”, hanno forse maggiori difficoltà iniziali ad attecchire nel pubblico, ma diventano poi degli evergreen, dei brani al di fuori del tempo e sempre attuali: pensiamo al successo di band come i già citati Pink Floyd o i Queen, che hanno fatto una lenta gavetta musicale, ma le cui vendite continuano ad aumentare anche dopo la morte di alcuni dei loro componenti, ad una generazione di distanza. Tra quarant’anni, chi si ricorderà di Andiamo a comandare?

Possiamo senz’altro dire che la distinzione tra musica “colta” e “non colta” è quantomeno ingannevole poiché, come ogni discriminazione, comporta sempre la produzione di una qualche zona d’ombra. I parametri per valutare la “validità” di un brano sono poi talmente tanti e complessi che è assai semplicistico operare distinguo come quello sopracitato: dall’efficacia espressiva all’innovazione tecnica, dalla compiutezza formale allo spessore semantico. Stabilire quale sia una musica valida e quale no è qualcosa di così complesso da rasentare il mistero. Resterebbe da dire che la “validità” di un brano possa solo essere esperita durante l’ascolto, ma anche in questo modo si resterebbe nel campo del soggettivo. Ma quindi come risolvono il dilemma i nostri due compositori?

Ebbene sì, non se lo pongono affatto! Innanzitutto occorre partire dal fatto che la fruizione musicale è un fatto privato, intimo, talvolta terapeutico, e anche nel caso di concerti pubblici in fondo ciascuno decide cosa ascoltare, a seconda delle proprie necessità, curiosità, capacità di fruizione, e in base al proprio gusto personale che, si auspica, sia formato comunque nel modo più consapevole e critico possibile. Per questo motivo nessuno ha il diritto di dirci quale musica sia universalmente “valida” e quale no. Molto spesso gli insegnamenti più profondi appaiono di una semplicità disarmante: banalmente, i nostri compositori compongono ciò che amerebbero ascoltare, senza preoccuparsi a priori di giudicare se ciò che siano in procinto di scrivere sia “valido” o meno. Compongono e basta. Ciò non vuol dire assolutamente ignorare il passato, dal momento che è il loro gusto, formato spontaneamente dai loro studi e dai loro ascolti, quindi dal loro amore per altri musicisti, a guidare il loro operato. Vuol dire semplicemente rimuovere quelle insicurezze che derivano da un’istruzione eccessivamente dogmatica e lasciare umilmente il giudizio all’unica entità cui quest’ultimo compete: l’ascoltatore, il quale, sia chiaro, sceglierà sempre e solo per se stesso.

Musica sperimentale e musica commerciale

Da quanto detto risulta evidente che l’unica distinzione sensata da fare è quella tra musica sperimentale, volta alla ricerca di nuove modalità espressive, e musica puramente commerciale, finalizzata alla produzione di profitto. Lungi dall’idolatrare la prima e criminalizzare la seconda, estremismi altrettanto insensati, sia Daniele Ciminiello che Francesco Rizzo intendono porre l’accento su questa distinzione poiché presuppone almeno una certa consapevolezza storica della musica, consapevolezza di cui l’antinomia “colta-non colta” fa spesso a meno. Non intendiamo dire tanto che musica composta da persone di alto livello culturale non possa essere definita “colta”, quanto piuttosto che questa categoria, nella nostra società, non è più utilizzabile, poiché purtroppo causa inevitabili fraintendimenti. Per molte persone è infatti sufficiente vedere un’orchestra schierata per sostenere che si stia suonando musica “colta”, vedi “Il volo”, ai cui costosissimi concerti (ricordo un listino prezzi visto per caso su facebook: prima fila 1500 euro) il pubblico è convinto di ascoltare musica “di un certo livello” mentre in realtà assiste ad un fenomeno commerciale puro in cui tre ragazzini hanno la pretesa di atteggiarsi a cantanti lirici senza averne né la preparazione né l’umiltà forgiate da anni di studio e sacrificio. Grazie a Dio i soldi non fanno necessariamente il buongusto.

Ovviamente la distinzione tra musica sperimentale e musica puramente commerciale non è categorica, o produrrebbe anch’essa delle “zone d’ombra”:

“…non è la differenza tra musica colta e non-colta che salta all’occhio ma quello tra musica sperimentale e musica puramente commerciale, tutt’altro discorso. Se però queste due antinomie fossero tra loro equivalenti, anche un disco che personalmente reputo di stampo colto quanto sperimentale come Switched on Bach di Wendy Carlos (il disco più venduto della storia in ambito elettronico) sarebbe da considerarsi puramente commerciale, se ci basassimo solo sulle vendite; può quindi esistere eccome, a mio parere, musica sperimentale, d’intento o d’ispirazione filo-avanguardista, che vende parecchie copie ed è composta da persone d’alto livello culturale, così come esiste musica propagandata come colta il cui spessore semantico è prossimo alla monodimensionalità.”

Colere

La critica mossa tanto da Francesco Rizzo quanto da Daniele Ciminiello al sistema della formazione musicale muove proprio dalle distorsioni finora studiate: categorizzazione in etichette, mentalità del profitto e concetto di “musica colta”, dietro il quale si arroccano molti “dinosauri”. L’aggettivo “colta” deriva infatti dal latino “colere”, che vuoldire coltivare, prendersi cura, mentre in un senso più ampio “venerare”. Secondo i nostri intervistati l’errore che l’attuale “classe dirigente” nell’ambito delle istituzioni musicali sta facendo è quello di considerare la musica non come un sapere da coltivare e su cui investire, ma come un oggetto di culto dalla cui bellezza ormai generalmente data per scontata è possibile trarre profitto. Tale errore, dettato in molti casi anche dalla necessità amministrativa delle istituzioni musicali di “tirare avanti” in condizioni economiche sfavorevoli come quelle italiane, è il segnale di un meccanismo di autoconservazione secondo cui, per forza di cose, è necessario tenere in piedi dei dogmi e delle false certezze:

“…Tutto questo porta a sradicare la musica classica dal proprio contesto storico, culturale e sociale e a renderla in un certo senso un oggetto di “culto”, da ammirare nella sua bellezza ormai universalmente accettata. […] quest’”apartheid” nei confronti della musica e dell’arte contemporanea è radicato nell’élite di coloro che si ritengono detentori di un sapere senza comprenderlo veramente, e in un paese in cui quest’élite arriva ad insegnare convincendo le generazioni successive che “cultura” non vuol dire “coltivare” il sapere, vedendolo crescere ed evolversi, ma renderlo semplicemente un oggetto di culto da venerare con spirito assolutistico e dogmatico, un’affermazione del genere da parte di un ministro mi sembra una triste ma naturale conseguenza.”

Ovviamente ciò produce delle ripercussioni nell’ambito della ricerca musicale, che in Italia stenta:

“Credo che oggigiorno i manifesti delle avanguardie moderne siano i piani di studio dei conservatori, ed è così che l’avanguardia come concetto muore del tutto. […] invece di fare ricerca si studia la ricerca passata e si dà il nome di ricerca a questo processo, proponendo raramente qualcosa di realmente innovativo.”

Musica “contemporanea”

Un’altra affinità è riscontrabile nella concezione dell’aggettivo “contemporanea”: esso non indica un “genere musicale”, come spesso vuole il gergo, non fa riferimento a precisi stilemi:

“molte composizioni di musica elettronica considerata contemporanea assomigliano strutturalmente al canto gregoriano, anche in ambito meno accademico, come nel caso della “drone music”: dov’è allora, da questo punto di vista, la contemporaneità?”

Ebbene l’aggettivo ha una connotazione puramente e banalmente cronologica:

“Ogni musica è o è stata contemporanea al suo tempo. È semplicemente una definizione cronologica, che diventa poi un termine di comodo per chi vuole semplicemente riconoscerla per evitarla, non per capirla veramente.”

In molti casi spesso la parola “contemporanea” diventa essa stessa un’etichetta riduttiva, una categoria fuorviante ai fini di una profonda comprensione della musica.

“Tra qualche anno i critici si divertiranno a riordinare tutto quello che stiamo facendo in categorie e inventeranno nuove definizioni, e il termine contemporanea definirà la musica del futuro.”

Proprio la distinzione tra i due piani, quello delle mere definizioni verbali e quello della musica per così dire “schietta”, arte ineffabile che per manifestarsi, guardacaso, necessita dell’ascolto e non della parola, ci porta ad apprezzare un nuovo significato dell’aggettivo in questione:

“Credo che sia contemporaneo a noi tutto ciò che decidiamo di ascoltare oggi, anche se si trattasse di musica pervenutaci dalla prima glaciazione, a prescindere dal momento della sua composizione; se questa musica fosse presente nelle nostre giornate, sì, sarebbe contemporanea a noi, sarebbe sopravvissuta molto più a lungo dei suoi compositori e quindi sarebbe ancora viva, musica nostra contemporanea.”

Se una composizione ha dunque forza sufficiente per spezzare la dimensione temporale, e inscriversi una volta per tutte nell’etere, allora essa diventa un “evergreen”, una musica “sempre attuale”, “intramontabile”. “Contemporanea”, intesa in questo senso più profondo, coinciderebbe dunque con “a-temporanea” o meglio, “sovra-temporanea”.

Brevissimo confronto stilistico

Parlando di elementi stilistici, sicuramente un certo eclettismo accomuna tanto le composizioni di Daniele Ciminiello quanto quelle di Francesco Rizzo: come loro stessi hanno dichiarato infatti i loro ascolti spaziano dai grandi classici alla musica leggera, passando per le varie sperimentazioni, con totale apertura mentale. L’attenzione per le macrostrutture e per il timbro è poi la priorità di entrambi i compositori.

“A mio parere questi aspetti avvicinano molto la musica contemporanea strumentale alla musica elettronica, alcuni esempi sono sicuramente l’uso dei cluster e delle dissonanze, di strutture quali accumulazioni e dissipazioni, la ricerca del microsound, della tensione percettiva e della rottura delle aspettative sonore tradizionali.”

Nel brano acusmatico Per aspera ad astra di Rizzo, ad esempio, riscontriamo dei crescendo concitati che, dal punto di vista del gioco di aspettative suscitate nell’ascoltatore, non differiscono molto da strutture orchestrali di stampo espressionista: attraverso progressivi addensamenti di accenti e saturazioni dello spettro armonico, attraverso quindi accumulazioni, vengono create tensioni che ora trovano appagamento culminando in una nuova atmosfera, ora vengono eluse da bruschi svuotamenti dello spettro e repentini abbassamenti dinamici. Dal punto di vista della ricerca timbrica il riferimento alla tradizione è quello della musique concrète francesce, mentre a tratti le atmosfere suggestionano in maniera quasi filmica l’ascoltatore.

Un analogo gioco di aspettative si ritrova nel Trio per violino, violoncello e pianoforte di Ciminiello, in cui però è presente una direzionalità: da un’iniziale atmosfera di indeterminatezza si approda ad una personalissima interpretazione del jazz. Con sottilissima gradualità metamorfica tutti i parametri concorrono a creare quel sound jazzistico verso cui tende l’intera composizione: il ritmo, inizialmente indeterminato, vede gli accenti addensarsi sempre più temporalmente, fino a formare un tessuto sincopato dal sapore swing; da una serie di cluster si passa ad aree armoniche più definite; il timbro muta grazie ad espedienti tecnici e dialettici: gli strumenti passano da un utilizzo orchestrale (trattati cioè come unica entità timbrica) ad uno dialogico, in cui, riacquistata la loro piena sonorità, “cantano” come in un vero concerto jazz

Conclusione

In questo tris di articoli spero di aver dato saggio degli universi musicali della composizione strumentale e di quella elettronica contemporanee a chi ancora non li conoscesse, e di fornire un nuovo punto di vista a tutti gli altri. La volontà alla base di questi articoli è stata quella di evidenziare maggiormente ciò che unisce anziché ciò che divide i due generi perché, come è stato detto, “la musica è una”. Sono inoltre convinto che l’intero mondo dei musicisti si trovi oggi, perlomeno in Italia, in un ambiente assai sfavorevole (non c’è bisogno di ricordare tutte le orchestre e i conservatori che stanno chiudendo i battenti), e che per questo sia necessario unirsi nel reciproco rispetto per costruire il cambiamento.

 

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Articoli correlati