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La rivoluzione asiatica della musica classica

di Carlo Emilio Tortarolo - 26 Ottobre 2025

Dai concorsi Chopin e Paganini, una lezione all’Europa

C’è un suono nuovo, anche se a portarlo sono strumenti antichi.

Un suono che arriva da lontano, addirittura dall’altra parte del mondo, ma che parla la lingua della nostra tradizione.

Lo abbiamo sentito, in queste settimane, nelle finali dei grandi concorsi internazionali: il XIX Concorso Chopin di Varsavia (pianoforte) e il 58° Premio Paganini di Genova (violino).

Se il repertorio è sempre quello, ovvero la grande tradizione europea, da Chopin a Liszt passando da Paganini, stupisce, ma non sorprende del tutto, che i nomi di chi li interpreta non lo siano più: giapponesi, cinesi, coreani, di origine o di nazionalità.

È un trend che va avanti da almeno vent’anni, ma oggi è diventato più visibile che mai, perché la cornice che circonda questi grandi concorsi è cambiata.

L’Europa, che per secoli ha prodotto il suono e imposto il ritmo, non è più il centro del mondo, e la cultura, come sempre, non fa che rifletterlo.

Se guardiamo ai finalisti di questi concorsi, tutto ciò appare lampante.

Al Premio Chopin, quest’anno, il primo posto è andato all’americano Eric Lu, seguito dal canadese Kevin Chen e dalla cinese Zitong Wang, per poi proseguire con il quarto premio di Tianyao Lyu (Cina) e Shiori Kuwahara (Giappone), il quinto premio di Piotr Alexewicz (Polonia) e Vincent Ong (Malasia) e, infine, il sesto premio di William Yang (USA).

A Genova, nel Paganini, la finale è stata una partita tutta asiatica: Rino Yoshimoto (Giappone), Aozhe Zhang (Cina) e Hyun Seo Kim (Corea del Sud).

Non sono episodi isolati né una moda passeggera, ma l’immagine concreta di dove sta andando il baricentro della musica classica: fuori dall’Europa, o meglio, oltre l’Europa.

Non sono episodi isolati né una moda passeggera, ma l’immagine concreta di dove sta andando il baricentro della musica classica: fuori dall’Europa, o meglio, oltre l’Europa.

Questo non significa che l’Europa sia sparita.

Può darsi che alla prossima edizione di un grande concorso spunti un talento generazionale europeo, uno di quelli destinati a restare nella storia. Può succedere.

Ma anche se dovesse accadere, non cambierà la traiettoria ormai sempre più definita.

Una rondine non fa la primavera, e un primo premio non sposta un continente.

L’Europa, che ha inventato una tradizione, non riesce più a garantirne l’esclusività.

Nel frattempo, altri Paesi l’hanno studiata con pazienza, l’hanno interiorizzata e ci hanno costruito sopra un sistema educativo feroce, organizzato e competitivo, guardando all’Europa e cercando di replicare un modello che qui sopravvive più per inerzia che per convinzione.

Conservatori, accademie, orchestre giovanili, concorsi nazionali: una filiera che comincia a sei anni e arriva sul palco internazionale a diciannove.

Conservatori, accademie, orchestre giovanili, concorsi nazionali: una filiera che comincia a sei anni e arriva sul palco internazionale a diciannove.

Metodo, formazione, ma soprattutto investimento pubblico e privato.

Gli stessi conservatori europei che un tempo formavano l’élite mondiale oggi accolgono, in larga parte, studenti asiatici che provengono da sistemi educativi rigidissimi, con orari infiniti di studio e una disciplina che da noi si è quasi dissolta (ma non scadiamo nella becera generalizzazione perché non è solo questo).

L’Europa resta un magnete per la formazione, ma non è più l’unico magnete, e soprattutto non è più l’unico luogo dove quella formazione può tradursi in potere artistico.

L’ombra della politica e l’ipocrisia del “senza frontiere”

C’è poi un altro livello, meno musicale e più scomodo: la politica internazionale è entrata nei concorsi molto più di quanto gli stessi concorsi vorrebbero ammettere.

Nel 2025 i pianisti russi sono stati ammessi al Chopin soltanto sotto bandiera neutrale e a condizione di firmare una dichiarazione di condanna dell’invasione dell’Ucraina.

Non è un dettaglio tecnico: è una clausola morale che ha spaccato l’opinione pubblica.

Da una parte c’è chi la interpreta come una scelta di responsabilità; dall’altra chi fa notare quanto sia facile pretendere una dichiarazione contro il proprio governo quando si vive in democrazia, e quanto invece questa stessa richiesta diventi rischiosa se a casa hai una famiglia e un passaporto che può revocarti tutto.

È il punto cieco dell’Occidente: chiedere coraggio morale agli altri, dandolo per scontato come se fosse gratuito.

Per poi peccare di grande ipocrisia quando la questione passa al versante israeliano.

Negli stessi concorsi non risultano atti simili nei confronti degli interpreti israeliani, nonostante in sede ONU, la Commissione dedicata alla guerra fra Israele e Gaza, abbia riconosciuto che la condotta del Paese occupante possa essere qualificata come «genocidio».

Perché in un caso la musica deve farsi tribunale morale e nell’altro no?

Chi decide quando l’arte è davvero “senza frontiere” e quando invece deve presentarsi ai nastri di partenza con una dichiarazione politica firmata?

È un doppio standard, un’ipocrisia che non nasce nella musica, ma che la musica rende impossibile ignorare. E dimostra il fallimento europeo nel riuscire a tenere un punto, che sia uno solo.

Europa, tradizione e formazione

Mentre i Paesi si misurano con le proprie contraddizioni, le aule di studio e i palcoscenici continuano a riempirsi di interpreti che arrivano da lontano. Non solo per i concorsi, ma per restare.

L’Europa rimane un riferimento simbolico e istituzionale, sì, ma sempre meno un monopolio e a questo punto la questione smette di essere solo geopolitica e diventa anche civile.

Perché molti dei ragazzi che arrivano in finale nei concorsi europei, e spesso li vincono, sono cresciuti nelle città europee. Hanno frequentato le scuole qui, i licei musicali qui, sostenuto gli esami di teoria in inglese, tedesco o italiano. Hanno suonato nelle orchestre giovanili e nelle rassegne di quartiere, hanno formato il proprio orecchio, il proprio fraseggio e la propria idea di suono qui.

Eppure, giuridicamente, in Europa ma soprattutto in Italia, restano stranieri. Restano “di passaggio” nei luoghi dove in realtà sono diventati musicisti.

L’Europa, e l’Italia in particolare, continua ad ancorare la cittadinanza all’idea di sangue, discendenza e origine, molto più che alla realtà della scuola (dimostrando forse di non credere fino in fondo nel proprio modello scolastico e civile).

Lo ius scholae, cioè il riconoscimento della cittadinanza a chi ha completato un ciclo di studi nel Paese, è ancora fermo allo stadio di proposta. Ma in ambito musicale questa non è una bandierina ideologica: è semplice coerenza.

Chi studia qui, chi cresce qui, chi porta in giro per il mondo il nome delle nostre istituzioni culturali, è già parte di noi nei fatti.

Chi studia qui, chi cresce qui, chi porta in giro per il mondo il nome delle nostre istituzioni culturali, è già parte di noi nei fatti.

Siamo noi a essere in ritardo nel dirlo chiaramente. Anche perché questo ritardo ha un effetto concreto.

Finché tratti questi ragazzi come ospiti e non come parte della comunità artistica, li costringi a vivere in una condizione di provvisorietà permanente: provvisori nei documenti, nelle borse di studio, nei bandi, nelle tournée.

E se li costringi alla provvisorietà, alla fine se ne vanno. Non perché non vogliano restare, ma perché altrove qualcuno li considera già una risorsa strutturale, non una presenza temporanea.

E qui torniamo all’inizio. Il suono che sentiamo oggi nei concorsi non è la vittoria di “altri” contro “noi”.

È il risultato di una tradizione europea che è stata studiata, assorbita e rilanciata da altre parti del mondo con una devozione che, forse, noi non abbiamo più la forza o la volontà di chiedere a noi stessi. Non è un sorpasso violento: è quasi una restituzione.

È come se il mondo ci stesse riportando la nostra stessa musica, ma filtrata, raffinata, allenata con una severità che abbiamo smesso di praticare e una fame che facciamo fatica a ricordare.

La vera domanda, davanti a tutto questo, non è “come facciamo a tornare primi?”, perché l’idea stessa di “tornare primi” suona vecchia, e più sportiva che artistica.

La vera domanda è un’altra: siamo ancora in grado di riconoscere come nostro chi la nostra musica la suona meglio di chiunque altro, anche quando quel cognome non è europeo?





Carlo Emilio Tortarolo

Autore

Direttore d'orchestra, pianista e manager culturale veneziano, Carlo Emilio è presidente di Juvenice - Giovani Amici della Fenice, associazione dai giovani per i giovani per la condivisione e la promozione degli spettacoli musicali, ed è segretario del Festival Pianistico ‘B. Cristofori’ di Padova.

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