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Elogio della sconfitta

di Carlo Emilio Tortarolo - 20 Ottobre 2025

Il rifiuto come materia prima della creatività

Nel mondo della cultura contemporanea esistono oggi più opportunità che mai. 

Residenze, call internazionali, borse di studio, masterclass, concorsi: la rete ne pubblica a centinaia ogni settimana, tanto che cercare quelli più adatti è diventato quasi un lavoro all’interno del lavoro. 

L’evoluzione digitale ha abbattuto costi e distanze, la mobilità è diventata semplice e i criteri d’accesso si sono fatti sempre più inclusivi. 

Mai come ora, almeno in apparenza, la cultura sembra accessibile a tutti. 

Più occasioni per tutti significano anche più esclusioni per ciascuno. 

Eppure questa democratizzazione, così celebrata nei convegni e nei bandi istituzionali, nasconde un effetto collaterale: più occasioni per tutti significano anche più esclusioni per ciascuno

La sconfitta, quella minuscola e impersonale che arriva via mail con oggetto esito della selezione, è diventata la vera lingua comune della contemporaneità culturale.

Il rituale del rifiuto e i suoi effetti

Di solito quella mail comincia sempre allo stesso modo: 

“Caro candidato, grazie per aver partecipato. Nonostante l’alto livello delle proposte ricevute, la commissione ha deciso di non selezionarla” e tutte le variazioni sul tema più o meno delicate. 

Una formula che nel settore è conosciuta a memoria e che serve a liquidare in pochi secondi settimane o mesi di lavoro, ore di scrittura, budget, speranze. Dietro a un linguaggio burocratico, senza autore e senza voce, ma proprio per questo potentissimo, in quelle poche righe impersonali c’è altro rispetto a un no: c’è il segno di un sistema che ha smesso di pensare alla crescita degli artisti e si limita a selezionare, a filtrare, a escludere senza restituire nulla

Perché la sconfitta, per poter insegnare qualcosa, deve almeno essere spiegata; e invece è diventata una pratica muta, automatica, quanto più meccanica possibile perché difficile da spiegare così come lo è da accettare.

Le ragioni pratiche esistono e sono legittime. 

Le candidature si contano ormai a centinaia, le commissioni spesso lavorano gratuitamente, le scadenze si accavallano. Ma dietro la giustificazione organizzativa si nasconde un problema più profondo: il modo in cui la cultura contemporanea concepisce il fallimento

In un’epoca in cui ogni passaggio avviene per via digitale, senza incontro né dialogo, la sconfitta smette di essere un momento di confronto e diventa una constatazione fredda. Non si sa perché si è stati scartati: se per ragioni tecniche, per il taglio del progetto, per motivi di budget o di appartenenza. 

E quando la sconfitta non insegna, non costruisce ma, anzi, al contrario, genera sfiducia, sospetto, e una rassegnazione silenziosa che finisce per uniformare tutto

Gli artisti cominciano a inviare dossier ‘a tappeto’, sperando nel colpo di fortuna, senza più credere che un rifiuto possa contenere un messaggio.

Nel 2019, negli Stati Uniti, una dottoranda della Michigan State University, Caitlin Kirby, ha deciso di trasformare in gesto artistico la propria collezione di fallimenti. 

Si è presentata alla discussione della sua tesi indossando una gonna cucita con diciassette lettere di rigetto ricevute negli anni: borse respinte, articoli rifiutati, selezioni mancate

Un atto ironico e lucidissimo, con cui ha reso visibile ciò che normalmente resta nascosto. “Ho difeso la mia tesi indossando una gonna fatta di lettere di rifiuto”, ha scritto su X. 

In poche ore il suo gesto è diventato virale. Perché in quella stoffa ricavata c’era una verità universale: il successo non racconta niente, è il fallimento che ci rivela

La gonna di Caitlin non era un costume, era un atto politico e diceva che ogni no ricevuto è parte del lavoro, che l’esperienza del rifiuto appartiene a tutti e che condividerla pubblicamente toglie al fallimento il potere della vergogna.

L’esperienza del rifiuto appartiene a tutti e condividerla pubblicamente toglie al fallimento il potere della vergogna.

Un gesto simile, ma in forma di documento, lo aveva compiuto qualche anno prima Johannes Haushofer, professore di psicologia a Princeton, pubblicando il suo CV of Failures: un curriculum parallelo in cui elencava concorsi persi, borse non ottenute, riviste che avevano rifiutato i suoi articoli. Lo fece per mostrare ai suoi studenti che dietro ogni biografia di successo esiste un archivio di no molto più corposo, solo che nessuno lo mostra. Quel curriculum, tanto semplice quanto radicale, scardinava l’immagine monolitica della carriera e restituiva una dimensione umana: sbagliare, fallire, essere esclusi è parte integrante del cammino

Eppure, culturalmente, continuiamo a fingere che non lo sia.

In Italia la sconfitta resta un tabù. 

Chi organizza bandi teme i ricorsi e preferisce tacere, chi partecipa vive il silenzio come un’umiliazione. È un cortocircuito che alimenta l’idea che tutto sia pilotato, che a vincere siano sempre gli allievi di qualcuno, che il merito sia un concetto elastico. La mancanza di trasparenza diventa terreno fertile per la sfiducia, e la sfiducia per il cinismo. Alla lunga, la posta in gioco non è solo la frustrazione dei singoli, ma la qualità stessa della proposta artistica. Se non so dove ho sbagliato, tenderò a replicare ciò che credo funzioni; e se tutti facciamo lo stesso, il sistema si appiattisce. 

È la versione culturale dell’entropia: tutto si ripete, nulla evolve.

Raccontare la sconfitta per farne conoscenza

Eppure, la sconfitta può essere una scuola. Un luogo da cui ripartire, non da nascondere. 

In un sistema dove i sì sono statisticamente sempre meno probabili, il no può diventare un’occasione di lucidità, un tempo e un tempio di ascolto

Lo è quando smette di coincidere con la vergogna e diventa racconto. 

Lo è quando qualcuno ha il coraggio di renderlo pubblico, di farne materia d’arte, di esporlo come un trofeo di esperienza

Lo è, forse, ogni volta che accettiamo di restare dentro al silenzio senza scappare subito alla prossima candidatura. Perché l’unica maniera per sopravvivere in un mondo saturo di occasioni è imparare a convivere con la perdita, a trasformarla in prospettiva. 

La sconfitta, in fondo, è l’unico momento in cui ci fermiamo davvero a chiederci chi siamo e dove stiamo andando.

La sconfitta, in fondo, è l’unico momento in cui ci fermiamo davvero a chiederci chi siamo e dove stiamo andando.

Viviamo in un tempo che esalta la velocità e la visibilità, dove tutto deve arrivare subito, essere condiviso e soprattutto ricevere consenso. Ma forse la parte più autentica della creatività sta ancora nei luoghi invisibili, nei momenti in cui non siamo scelti, in cui qualcosa non passa, non convince, non arriva. Forse la cultura del futuro non sarà quella che elimina la sconfitta, ma quella che saprà raccontarla, darle dignità, trasformarla in sapere collettivo. Perché ogni no, se ascoltato, può diventare una forma di conoscenza. E forse la vera rivoluzione, in un mondo che corre, non sarà accelerare, ma fermarsi un istante, guardare quel rifiuto nella casella di posta e chiedersi, semplicemente: cosa mi insegna questo no?



Carlo Emilio Tortarolo

Autore

Direttore d'orchestra, pianista e manager culturale veneziano, Carlo Emilio è presidente di Juvenice - Giovani Amici della Fenice, associazione dai giovani per i giovani per la condivisione e la promozione degli spettacoli musicali, ed è segretario del Festival Pianistico ‘B. Cristofori’ di Padova.

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