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Silvia Colasanti e il suo Minotauro, fra solitudine e inganno

di Virginia Cirillo - 8 Luglio 2018

“Un Festival di nuovo genere dove s’incontra la gioventù dei due mondi.”

Così veniva presentato nel 1958 il Festival dei Due Mondi di Spoleto, ideato e fondato da Gian Carlo Menotti, destinato a mutare la storia di una città e a rivoluzionare l’idea di fare cultura a livello nazionale ed internazionale fra Europa e America. La manifestazione, anche detta Spoleto Festival, oggi sotto la direzione artistica di Giorgio Ferrara, è officina di produzioni originali e vetrina di artisti affermati ed emergenti; un continuo scambio interculturale fra i vari generi artistici-letterari in un dualismo tra spettacoli d’avanguardia e opere della tradizione classica.

All’alba della sua sessantunesima edizione, il Festival ha aperto il sipario con “Il Minotauro, opera lirica inedita in dieci scene di Silvia Colasanti, compositrice romana non estranea alla platea festivaliera.

“Ho avuto un colpo di cuore per Silvia Colasanti – afferma Giorgio Ferrara – che ha composto un Requiem meraviglioso di straordinario successo – eseguito in Piazza Duomo lo scorso anno – così le abbiamo commissionato un’opera nuova, per fare qualcosa di diverso dopo il successo della trilogia di Mozart che ha inaugurato le scorse tre edizioni.” Formatasi al Conservatorio di Musica Santa Cecilia (Roma), la Colasanti si è poi perfezionata all’Accademia Musicale Chigiana e all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ricevendo dal Presidente della Repubblica il Premio “Goffredo Petrassi” quale migliore diplomata in composizione. I suoi lavori vengono messi in scena nelle principali istituzioni musicali internazionali tra cui l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Roma), l’Orchestra Nazionale Rai (Torino), La Philharmonie e il Théâtre des Champs-Élysées (Parigi), il Konzerthaus (Berlino), la Biennale Musica (Venezia) e il Maggio Musicale Fiorentino (Firenze). Nel 2016, debutta con successo al Festival dei Due Mondi di Spoleto nei “Tre risvegli”, con la regia di Mario Martone. L’anno successivo è in Piazza Duomo, ancora in collaborazione con il Festival, per l’esecuzione del suo “Requiem. Stringeranno nei pugni una cometa”, oratorio per soli, coro e orchestra, in memoria delle vittime del sisma che colpì il centro Italia. Attualmente insegna composizione al Conservatorio statale di Musica “Nicola Sala” di Benevento e le sue opere sono pubblicate dalla casa editrice Ricordi. “Il Minotauro” è tratto da un’omonima ballata di Friedrich Dürrenmatt che ribalta il mito della mostruosa creatura mitologica, frutto dell’amore malsano fra Pasifae, moglie di Minosse, e un toro. La leggenda, più volte trattata e ripresa in letteratura, presente perfino nell’Inferno di Dante, si trasforma qui in un dramma umano: da carnefice a vittima, la bestia metà uomo e metà toro rappresenta la parte oscura presente in ognuno di noi.  Nel labirinto che la imprigiona si confronta con i veri mostri: gli esseri umani, ingannevoli e subdoli. Da personaggio muto e marginale del mito diviene quindi antieroe tormentato della ballata novecentesca così come nell’opera della Colasanti.

Da questo racconto Giorgio Ferrara e René de Ceccatty hanno tratto il libretto a cui la compositrice ha dato voce. La scena, stilizzata ed essenziale, si svolge in un’unica stanza, nucleo centrale del labirinto di specchi; quegli stessi specchi che ingannano il Minotauro facendogli credere di non essere il solo ad aggirarsi nei cunicoli alienanti. Alla solitudine si contrappongono le vittime a lui destinate (mimate dai giovani attori dell’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’amico” di Roma), che lo accerchiano minacciosamente prima di essere uccise. Il mostro ignora la propria ferocia e si innamora di una di loro senza essere consapevole dei propri sentimenti e della propria forza. In preda agli istinti, fra rabbia, fame ed erotismo, la uccide senza accorgersene. Un Torero, presagio di morte, lo ferisce: per la prima volta la creatura prova dolore ed intuisce la natura ostile degli esseri umani. Incapace di combattere le proprie pulsioni di morte, desidera legarsi a qualcuno e crede di aver trovato l’amicizia di Arianna e Teseo, ma la promessa di amore e fratellanza si rivela essere l’ennesima menzogna: Teseo lo trafigge mentre è di spalle e fugge dal Dedalo insieme alla sua amante. Il Minotauro, interpretato dal baritono Gianluca Margheri, è un “diverso” che guarda il mondo attraverso gli occhi di un bambino: è tutto nuovo per lui ed è in balia delle sue emozioni. Un ruolo, questo, di non facile interpretazione per il protagonista, che deve destreggiarsi fra una linea di canto morbida seppur intonatissima e momenti più aspri di vera e propria declamazione. Margheri, scenicamente molto nella parte, ha dimostrato un’ottima padronanza vocale ed interpretativa convincendo il pubblico, che si è sentito partecipe del suo tormento. Nell’appassionato “Canto di Arianna” il soprano Benedetta Torre, giovanissima e dal timbro caldo ed avvolgente, esplica gli intenti del personaggio: pur di uscire dal labirinto insieme al suo amato è pronta a sfidare gli Dei indicandogli la strada con un filo rosso. Teseo, l’emergente tenore Matteo Falcier, entra in scena indossando una testa di toro che utilizza per fingersi uno dei tanti riflessi del mostro: l’ennesimo inganno prima della stoccata finale. Ai tre protagonisti dell’opera si aggiunge il Coro di uccelli sistemato in buca, commento attivo e partecipe di tutto ciò che accade in scena; funzione che certamente ammicca al teatro greco. Come il Minotauro, anche il Coro muta e si evolve durante il corso dell’opera: da una danse macabre degli avvoltoi al sussurro dell’ombra stessa della creatura. Un vero e proprio personaggio in divenire che prende coscienza del suo ruolo man mano che il dramma del protagonista semi-uomo si consuma nel lento alternarsi di giorno e notte. Ed è a lui che è stato affidato il brano di chiusura dell’opera: il sipario cala sull’intonarsi di una preghiera scandita da cupi rintocchi di campana. L’ensemble di voci, l’International Opera Choir di Roma guidato dal Maestro Gea Garatti, ha emozionato e commosso la platea di questa prima mondiale. Ormai un habitué del Festival, il coro romano ha già inaugurato le ultime edizioni della manifestazione ed ha collaborato con Silvia Colasanti nel Requiem dello scorso anno.

Sul podio è Jonathan Webb a tenere le redini dell’Orchestra Giovanile Italiana, un organico ridotto in cui spiccano fra gli altri anche strumenti a percussione come l’incudine e il glockenspiel, echi di timbri e colori arcaici. Ma sono anche marimbe, campane tubolari, gong e bongos a raccontare la doppia anima del Minotauro, resa da sonorità materiche e dissonanti alternate ad attimi di sospensione che tendono al silenzio. Punto di forza della partitura è la sintesi tra ricerca stilistica e urgenza di comunicazione, con riferimenti alla musica madrigalistica di Monteverdi e al melodramma. I giovani strumentisti, sotto il gesto chiaro ed espressivo del M° Webb, per nulla estraneo alla musica contemporanea, portano a termine l’opera con grande attenzione e precisione, in un tappeto sonoro più che incisivo che esprime e rafforza il carattere deciso del testo. Giorgio Ferrara abbandona quindi con convinzione le geometrie mozartiane a favore dello sperimentalismo; questa scelta si riflette anche nella regia e nella scenografia da lui firmate, complici i costumi ad opera di Vincent Darré e le luci di Fiammetta Baldiserri. Quinte Parallele non è rimasta sorda al grido del Minotauro e, in un breve colloquio con la compositrice, ha deciso di svelare alcune curiosità in merito alla partitura e a questo dramma che, nonostante le antiche radici, sembra essere sempre attuale. “La vostra libertà la dovete alla menzogna.” Con questa citazione dal libretto è facile immaginare un parallelismo con ciò che sta accadendo in merito all’accoglienza dello straniero. Dramma del “diverso” che si scontra con la brutalità umana, “Il Minotauro” ben si presta a questa similitudine. Ma quanta attualità si nasconde davvero fra le note della composizione? L’attualità è presente poiché la troviamo già di per sé nel mito, nella leggenda. Dopotutto un mito cos’è? Un passato antichissimo che funge da monito nell’esperienza quotidiana. Questa, in particolare, è una rilettura della leggenda che ne genera una del tutto nuova e forte, che può facilmente sposarsi con la realtà dei nostri giorni. L’opera non nasce come commento a ciò che sta accadendo nel mondo, ma è bello che si presti a fare da “specchio” ad una certa situazione che va verificandosi proprio ora, come per un’altra che potrebbe nascere successivamente o è già accaduta in passato. E’ una duttilità che trova fondamento nel testo di origine e che la composizione rafforza. L’attualità cambia, l’opera d’arte è sempre quella ma sarà sempre riconducibile al quotidiano. Quanto c’è del Requiem festivaliero dello scorso anno ne “Il Minotauro”? Fra passaggi tonali e strappate di orchestra quasi identiche viene da pensare che, come per il Torero, quelle stesse sonorità siano presagio di morte e della fine incombente della creatura. Ma è davvero così?” “La sacralità del mito indubbiamente si lega alle sonorità un po’ arcaiche ed evocative del Requiem. Esiste un collegamento musicale ed interpretativo fra le due composizioni, ma anche qui non è propriamente voluto, ed è bello che la musica e le varie composizioni si leghino in un continuum spontaneo di cui lo stesso compositore, talvolta, è inconsapevole e si accorge successivamente.

In un’intervista rilasciata a Rai3, Silvia Colasanti riflette sull’importanza di puntare sulle nuove composizioni: “Il patrimonio artistico che ci è stato consegnato dalla storia dell’arte e della musica è arrivato a noi perché qualcuno, in passato, ha investito nei suoi contemporanei. Riproponendo solo lavori di secoli fa, come in un museo, non andiamo ad arricchire questo patrimonio. Operazioni come quella messa in atto dal Festival sono quindi importantissime.” Accolto da pubblico e critica con grande emozione, “Il Minotauro” vince il pregiudizio sulla contemporaneità. Aprendo i battenti con un’opera che guarda al classicismo con sonorità del tutto nuove, lo Spoleto Festival, con lungimiranza, si fa promotore di modernità e innovazione. Un segnale di coraggio che ci fa capire quanto gli artisti odierni possano ancora dialogare ed incuriosire il pubblico che si mostra più che mai aperto e recettivo alle novità.

Virginia Cirillo

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