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Gardiner incanta S.Cecilia

di Lorenzo Papacci - 11 Maggio 2019

con Semele

John Eliot Gardiner torna per la seconda volta, quest’anno, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con Semele, oratorio profano di G.F. Haendel. Il direttore inglese ha diretto in Semele gli English Baroque Soloists e il Monteverdi Choir di cui è direttore artistico e fondatore. Semele è un lavoro di Haendel, che possiamo definire, con una certa sicurezza, a metà tra un’opera e un oratorio: tema mitologico, un’orchestra estremamente evocativa (specie nei recitativi accompagnati), ben 10 momenti corali e un impegno massiccio dal punto di vista della recitazione, collocano questo lavoro a metà tra i due generi, prendendo elementi da entrambi. Una musica, quella di Semele, ricca da un lato di imprestiti: da autoimprestiti haendeliani, passando per prestiti da Telemann e Scarlatti. Dall’altro lato il “caro Sassone” ci ha regalato qui pagine eccelse di musica, specialmente nei recitativi accompagnati, così ricchi di figure che evocano in musica il discorso verbale del cantante. Semele fu composta in un momento in cui l’opera italiana a Londra subiva un forte calo di popolarità e di conseguenza Haendel si trovava nella situazione di veder compromessa la sua prima fonte di guadagno. Appare chiaro, quindi, il perché Semele sia stata concepita come un oratorio, ma sia ricca di aspetti che ci riportano al teatro d’opera. Questo soggetto, già da questo semplice quadro preliminare, si configura come un lavoro cui non è così semplice approcciarsi. Possiamo anticipare sin da subito che Gardiner e i “suoi” interpreti hanno saputo valorizzare gli elementi di Semele che sono propri dei due generi, imboccando una strada vincente.

Partiamo dal Monteverdi Choir, proprio perché, probabilmente, da loro si può prendere spunto per una riflessione anche sulla prassi musicale del nostro paese: questo coro ha portato, come pure il direttore e l’orchestra, un angolo di Regno Unito in Italia e bisogna dire che la loro impressione sul pubblico è stata veramente forte. I Monteverdi sono stati sempre pronti, curati, estremamente espressivi, con un suono sempre nuovo a seconda che interpretassero Sacerdoti, popolo, Zefiri. Quello, però, che è stato veramente apprezzabile della loro esecuzione è stato l’aspetto della recitazione: i Monteverdi non sono stati mai un gruppo immobile di spettatori dell’azione, se non quando alcune scene richiedevano una stasi generale per delle arie di riflessione configurabili come degli a parte; perfino nelle parti più impervie, come i tanti fugati che li vedono coinvolti, hanno sempre recitato. Dal mimo continuo e vivacissimo tra di loro, alle espressioni del viso, fino ai continui movimenti che investivano continuamente tutto il palco, i Monteverdi sono sempre stati sia coro che attori in questa Semele. Basti pensare a come hanno saputo valorizzare un elemento “povero” come uno sgabello nell’azione: ognuno aveva un piccolo sgabello, che ha usato sia per sedersi, che per proteggersi dai fulmini di Giove, e anche per abbandonarlo alla rinfusa sul palco creando un’atmosfera di caos e distruzione. Potremmo e dovremmo imparare molto dalla professionalità di questi artisti.

Louise Alder è stata Semele: la sua è stata una prova veramente notevole, rare le scene in cui non era coinvolta sul palco, mai un momento di incertezza nelle interminabili colorature che costituivano la sua parte, frivola all’occorrenza ed estremamente drammatica la scena dopo. La palma per la recitazione, però, la ottiene Lucile Richardot, che ha interpretato la sorella Ino e Giunone. La Richardot ha saputo sostenere due personaggi utilizzando sapientemente la sua vocalità, un’Ino inizialmente gelosa e poi gioiosa e poi una Giunone furibonda con una voce intensissima e aggressiva. La Richardot era una delizia sul palco, estremamente comica e musicalmente convincente con una voce veemente e acuti poderosi. Parlando degli uomini va senz’altro lodata la tecnica Hugo Hymas, che ha interpretato Giove: la sua coloratura è stata sempre limpida ed estremamente vivace, un susseguirsi di terzinati che avrebbero messo a dura prova qualsiasi diaframma. Però spesso Giove è stato un poco uno spettatore dell’azione, anche se ha dimostrato episodi di coinvolgimento recitativo molto accesi. Carlo Vistoli è stato uno splendido Atamante: la sua voce si è inerpicata tra volute musicali estremamente complesse, anche le dinamiche da parte sua sono state estremamente curate, con dei crescendo che partivano da pianissimo appena percettibili e pian piano riuscivano a risuonare forte. Di Gianluca Buratto, che è stato Cadmo e Somnus, è stato molto apprezzabile il timbro avvolgente e caldo, con Somnus ha potuto sfoggiare la sua vena comica destando il riso a tutta la Sala Santa Cecilia, mentre purtroppo il padre severo Cadmo che ci ha offerto è stato piuttosto statico.

Un Gardiner in stato di grazia ha condotto gli English Baroque Soloists in maniera eccelsa: questi sono stati un corpo unico che, sotto la bacchetta di Gardiner, dialogava continuamente coi cantanti con una musica che era sempre commento e non solo sostegno dell’azione. Gardiner, con un gesto estremamente attento e chiaro, non dà semplicemente il tempo o regola le entrate, ma continuamente “gestisce” la forza dinamica dell’esecuzione orchestrale, il suo è quasi un gesto fisico, che esalta la pulsione musicale. Questa Semele è stata la dimostrazione di come un oratorio si possa completamente spogliare della staticità e divenire puro teatro, che continuamente cattura il pubblico ed esalta una musica che è continuamente evocazione di emozioni umane.

Lorenzo Papacci

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