L’Opera di Roma chiude con “Ballo in maschera”
di Lorenzo Papacci - 18 Ottobre 2016
Il Teatro Costanzi di Roma ha scelto di chiudere la stagione 2016 con “Un ballo in maschera” di Verdi, in coproduzione con il Teatro dell’Opera di Malmö. La prima del 16 Ottobre è risultata essere una rappresentazione di buon livello, però con delle problematiche che inevitabilmente hanno fatto nascere qualche perplessità.
Si è voluto riportare la scena all’ambientazione originale che aveva concepito Verdi, ossia la Svezia come il libretto di Scribe esigeva. La regia di questo allestimento è stata affidata a Leo Muscato di cui è stato sin da subito chiaro il lavoro per riduzione degli elementi scenici.
Le scene viste infatti, avevano pochi elementi caratterizzanti ed erano più che altro evocative di un ambiente, quasi tutte le scene rappresentavano l’angolo di una stanza e solo l’ “orrido campo” e il salone da ballo erano basate su una prospettiva centrale, una scelta dopotutto interessante.
La prima scena è un salone del palazzo di Gustavo. Qui gli elementi erano molto pochi, su una scena angolare da una parte vi era una porta bianca e dall’altra parte un lungo divano, le pareti alla base avevano delle boiseries bianche consunte, annerite e una carta da parati blu molto elegante ma anch’essa consunta. Sicuramente c’era un rimando del regista su cui dovremmo interrogarci, forse la corruzione degli arredi che rimanda alla corruzione dell’animo, non possiamo dirlo con certezza.
Nella seconda scena dovremmo essere nell’antro della maga Ulrica, invece si è scelto di ambientare la scena in quella che sembrava una zona portuale, anche qui una scena angolata, delimitata ai lati da due porte di metallo che ricordavano molto quelle della stiva di una nave. La maga Ulrica era seduta ad un banchetto che si animava e cominciava a muoversi a causa delle presenze demoniache. Questa era divisa dai popolani che erano esaltati per le sue profezie da una vetrata opaca come la parete dietro Ulrica, che sembrava corrosa dalla ruggine. Anche qui vediamo la scelta di creare un ambiente vissuto, consumato. L’ “orrido campo” del II atto era costruito invece con una scena centrata e non più angolata dove si stagliavano esili tronchi di alberi senza rami al centro e dalla base delle pareti del fondale fuoriusciva continuo del fumo, che faceva pensare a un ambiente paludoso, con una fitta nebbia. Ci spostiamo poi nella casa di Renato, nel suo studio. Qui, la scena era quasi identica alla prima, angolata, le stesse porte, carta e boiseries, ma troviamo qui il quadro di un duello, un divano e una scrivania con poltrona. Anche gli arredi del successivo studio di Gustavo erano essenziali: una poltrona e uno scrittoio anche per lui, ma le pareti di questo erano costellate da moltissimi ritratti che erano quasi un secondo pubblico per Meli che cantava. Poi si è puntato sull’effetto scenico e siamo entrati nel ballo attraverso una piattaforma girevole, che ci ha aperto una sala su due livelli uniti da dei scalini, in alto il coro che dietro di sé aveva pareti con specchi opachi e una grande porta. Invece, più in basso troviamo i cantanti, che così creavano due azioni parallele (anche contrastanti fra loro, come dopo si vedrà). Alla fine dopo la morte di Gustavo, con il sipario che cala, nel riquadro della porta vediamo Ulrica che appare a rappresentare l’immutabilità del destino da cui non si può fuggire.
Riguardo i costumi possiamo dire che questi sono stati sempre classici ma con elementi straniati rispetto all’epoca. Nella scena del ballo dove trionfavano costumi con motivi bianchi e neri ma molto stravaganti, il colore era dato dai ballerini che avevano costumi molto vivaci e, in questo modo, spiccavano particolarmente nella scena. Per il resto si sono viste ovviamente uniformi, mantelli, Ulrica vestita con una lunga tunica e scialli sulle spalle. Nel complesso sono risultati molto armoniosi anche con i loro elementi stravaganti.
Una grande lode va fatta a Francesco Meli che ha interpretato Gustavo. Meli ha saputo incarnare bene il personaggio di questo re che schernisce il pregiudizio e la superstizione, pur provando inizialmente paura per la profezia e si è potuto assistere a una bellissima interpretazione di “E’ scherzo od è follia”, dove il tenore ha dato prova di una grande attorialità. Performance che ha superato poco dopo con una splendida e accorata interpretazione di “Ma se m’è forza a perderti”. Meli ha interpretato questo ruolo con il grande calore e l’intensità che la parte di Gustavo richiede, tecnicamente impeccabile e rispettoso del fraseggio verdiano, in poche parole splendido.
Ulrica è stata interpretata da Dolora Zajick che ha valorizzato al massimo il timbro scuro su cui è pensata la parte dell’indovina, anche lei molto brava e coinvolgente è riuscita a rendere bene il momento ieratico di “Re dell’abisso, affrettati”.
Hui He ci ha regalato una discreta Amelia, a livello attoriale indubbiamente la sua interpretazione è stata molto valida e ha mostrato quello che Amelia rappresenta in quest’opera: una donna distrutta che non ha via di scampo. Purtroppo il discorso cambia se parliamo del canto infatti, seppure riuscendo sempre a mantenere un’intensità apprezzabile, a tratti la sua interpretazione è stata approssimativa nella resa delle ornamentazioni e dei fraseggi, tra gli applausi (comunque meritati) persino un chiaro fischio ha “osato” levarsi.
Nel ruolo di Renato abbiamo visto Simone Piazzolla: se considerassimo solo la parte tecnica è stato un buon interprete, preciso e accurato. Purtroppo sarà stata una “serata no” per lui, perché a livello di intensità va detto che a volte bisognava tendere l’orecchio per poterlo ascoltare e per di più, nella scena nel suo studio, nei movimenti scenici per alcuni brevi tratti era voltato, cosa che ovviamente non ha giovato affatto. Comunque anche lui dopotutto ha avuto dei buoni momenti e ci ha regalato una bella interpretazione di “Alla vita che t’arride”, peccato per la discontinuità.
Il grazioso paggio Oscar è stato interpretato da Serena Gamberoni. Premettiamo una cosa: questo personaggio è il brioso simbolo della vezzosità e vocalmente rispecchia questo infatti, Verdi lo ha chiaramente pensato basandosi sul modello francese, con una vocalità agile, brillante, ricca di ornamenti e con una strumentazione fresca e vivace ad accompagnarlo. Detto questo, è chiaro che si sta per dire qualcosa di non positivo, però qui il dubbio sale e la responsabilità della cantante potrebbe non essere totale. Parliamo dell’esecuzione di “Volta la terrea”, che è stata quasi scandita dal metronomo, con una lentezza che non rispecchia né il personaggio né la melodia di Verdi che è invece ricca di fioriture e giocosa. A parte ciò, la Gamberoni è stata tecnicamente impeccabile a dirla tutta, e si è riscossa nel quintetto “Di che fulgor le musiche”, dove ha potuto fare finalmente sfoggio della sua bella vocalità nei passaggi di agilità. Anche nella recitazione si è sempre dimostrata molto valida nel portare in scena la leggerezza di Oscar. Anche qui, quindi, la discontinuità di una bella interpretazione da un lato e una molto discutibile dall’altro, anche se la marcata lentezza di “Volta la terrea” potrebbe essere stata una scelta del direttore, scelta che non ha pagato.
Il coro del maestro Gabbiani è stato sempre impeccabile, vigoroso e vivace, com’è poi quello che è rappresentato in quest’opera: un coro di nobili frivoli e, nella seconda scena del I atto, di popolo esaltato dalla magia. I movimenti del coro sono stati pensati nel rispetto della musica e nel primo atto lo vediamo gioire in “Ogni cura si doni al diletto”, battendo le mani a tempo di musica e facendo dei movimenti sempre a tempo di musica. Questo si è ripetuto nella scena del ballo dove il coro ballava rispettando la musica di Verdi, ma con movimenti che erano un misto di discoteca anni ’70, balli gruppo, minuetto. Questo è stato un elemento soddisfacente che ha creato un forte stridore con la recitazione dei cantanti che invece era sempre molto classica, il coro risultava quindi come un contorno con movenze a metà tra la marionetta e il robot. L’orchestra è stata diretta dal maestro Jesús López-Cobos che, a parte il già citato caso di “Volta la terrea”, tutto sommato ha dato una discreta interpretazione ma in alcuni tratti si è sentita veramente poco la loro presenza. L’orchestra del teatro dell’Opera ci ha abituato a un buon livello e speriamo che questo sia solo il prodotto di un periodo di lavoro per loro un po’ burrascoso, perché la qualità c’è, ma questa direzione lascia un poco con l’amaro in bocca.
Complessivamente, ci si sente un poco come quei professori che di fronte a bravi alunni sonnecchianti dicono: “potrebbe fare di più”. Infatti, la qualità dell’orchestra non si discute, come pure si è già detto che anche i cantanti che hanno avuto dei problemi comunque a livello tecnico hanno tutti, chi più chi meno, fatto una buona prova. Forse bastava raffinare maggiormente alcuni elementi, perché questo spettacolo e questo cast hanno dimostrato grandi potenzialità, a volte inespresse.
Lorenzo Papacci
Immagini tratte dalla pagina Facebook “Teatro Dell’Opera di Roma” © Yasuko Kageyama / TOR