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Petrenko e i Berliner Philharmoniker a Roma

di Filippo Simonelli - 22 Novembre 2021

Da diciassette anni i Berliner Philharmoniker non venivano in Italia. L’ultima volta, l’Accademia di Santa Cecilia si era da poco spostata dall’Auditorium della Conciliazione all’attuale Parco della Musica, Roma aveva da poco superato la sbornia del Giubileo e degli scudetti delle due compagini calcistiche capitoline e la LG iniziava a lanciare i primi modelli di smartphone. Qual è la relazione di questi eventi l’uno con l’altro e soprattutto con la venuta dei Berliner Philharmoniker in città? Nessuna, ma visti insieme rendono l’idea di quanto tempo sia effettivamente passato dall’ultima volta nella Sala Santa Cecilia era passata la compagine berlinese, guidata all’epoca da Simon Rattle, in due serate primaverili che chi c’era ricorda come memorabili.

Ovviamente anche il concerto del 21 novembre è stato un concerto memorabile, ma questo è ovvio. Quando si parla di concerti all’Accademia, è scontato che il livello degli interpreti sia altissimo, e non è piaggeria: l’Orchestra di casa è stabilmente tra le migliori dieci del mondo, i direttori fanno a gara per conquistarsi il suo podio e le altre orchestre sue pari non possono che essere all’altezza.

I Berliner fanno ancora più storia a sé: vuoi per l’aura leggendaria che avvolge quel nome, vuoi perché scorrendo l’elenco dei professori d’orchestra si trovano solisti del calibro di Emmanuel Pahud, Andreas Ottensamer, Sarah Willis e non solo tra le prime parti. Del direttore Petrenko è quasi superfluo dire altrettanto; ma più in generale, la critica di un evento del genere prescinde da un giudizio di valore sull’esecuzione, per quanto possibile, cercando invece di indagare le motivazioni delle scelte interpretative che, pur essendo intimamente soggettive e racchiuse nel gesto direttoriale, rimangono comunque l’unico possibile oggetto di dibattito.

Ruscelli scozzesi: Mendelssohn in controluce

Il programma della serata prevedeva “solo” due pezzi: la Sinfonia Scozzese in la minore di Mendelssohn e la Decima di Shostakovic, in mi minore, senza pezzo di bravura con un solista. Poco male, visto il livello delle prime parti e l’abbondanza di soli in entrambe le composizioni. La Scozzese, terza del corpus sinfonico mendelssohniano, ha rischiato di ricoprire un po’ il ruolo di antipasto al piatto forte del sinfonismo sovietico. Invece c’è tanto da dire, non solo perché si tratta di un pezzo di musica pregevole, ma anche perché le scelte interpretative di Petrenko sono estremamente rivelatorie del modo in cui il direttore si approccia a tutti i repertori. Anzitutto, il tempo: la pulsazione scelta da Petrenko è stata veloce, scorrevole, fin dal primo movimento. Si tratta di una scelta naturale, condivisibile e quasi obbligata per assecondare un modo di sentire Mendelssohn che va per la maggiore e a ragione – almeno a giudizio di chi scrive. Mendelssohn come compositore dei grandi flussi, archi di frasi che si sviluppano in un sistema di incastri talmente ben sviluppato che non si vedono più i contorni dei pezzi che costituiscono il suo puzzle sinfonico perfetto. L’interpretazione affidata ai singoli nei passaggi più esposti è stata luminosa ma senza essere “leggera”, lieve semmai; non impeccabile – a memoria ricordo una, forse due leggere sbavature che possono essere attribuite a svariati fattori, ma in definitiva insignificanti per la tenuta dell’insieme, utili semmai a ricordarci che la macchina perfetta dei Berliner è composta da esseri umani che respirano il nostro stesso ossigeno. La potenza di suono dell’orchestra era avvolgente, forse in alcuni tratti anche troppo prorompente per le caratteristiche della sala disegnata da Renzo Piano che per certi versi non fa sconti, ma qui si va nel soggettivo. L’arco disegnato nel corso di tutti i quattro movimenti da Petrenko è scorrevole e cristallino, come è legittimo credere fosse nelle intenzioni del compositore stesso che ha disegnato questa sinfonia sì in quattro tempi come voleva il canone, ma congegnati senza soluzione di continuità in modo da formare un affresco unico del suo viaggio scozzese.

La decima di Shostakovic e l’anima russa di Petrenko

C’è un libro molto interessante che mi è capitato tra le mani di recente: Come Shostakovic mi ha salvato la vita, di Stephen Johnson, saggista e musicista britannico. Di tante prospettiva da cui la musica di Shostakovic è stata analizzata, studiata, dissezionata, Johnson ne sceglie una di taglio psicologico, andando ad approfondire il modo in cui una “musica cupa” – espressione ricorrente nel suo testo – possa aiutare le persone ad affrontare le difficoltà. Ora, che le emozioni forti causate dall’arte possano avere un effetto catartico non è nulla di sorprendente fin dai tempi di Aristotele, quindi è piuttosto superfluo soffermarcisi; è invece interessante, per andare poi a osservare le scelte interpretative di chi propone la musica del russo, ragionare sull’autenticità delle emozioni che questa musica contiene, nel perenne dualismo tra un compositore “di regime” e un artista in cerca di un mezzo di espressione dei propri tormenti più sotterranei, tra un giubilo forzato e un’esplosione prorompente e sincera.

Nell’affrontare la Decima Sinfonia non si può non tenere conto di queste ambiguità. La Sinfonia ha avuto una genesi tormentata, che potrebbe essere durata quasi sette anni secondo varie fonti, ma ha raggiunto la forma compiuta con cui la conosciamo oggi solo alla fine del 1953, ovvero dopo la morte di Stalin, imprescindibile convitato di pietra di gran parte della produzione artistica sovietica fino a quel periodo.

Ora, per un musicista russo di oggi può essere complesso rivivere gli stati d’animo che i suoi connazionali vivevano sotto la cappa di Stalin; certamente però alle orecchie di un ascoltatore occidentale c’è quella comunione ideale che abbraccia un po’ tutti quelli che hanno l’anima russa, qualsiasi cosa intendiamo per tale, che sembra più adatta a veicolare una musica del genere anche a decenni di distanza dalla sua composizione e alle irripetibili condizioni che la generarono. Effettivamente l’orchestra, dopo aver fatto un “riscaldamento” di lusso con Mendelssohn è rientrata a pieno organico con l’intenzione di lasciare il segno. L’aria era visibilmente elettrica, le aspettative del pubblico in sala erano di quelle dei grandissimi eventi. Lo spettacolo più impressionante, oltre a vedere una sala traboccante a dispetto di prezzi dei biglietti tutt’altro che popolari, era vedere il compassato pubblico della musica classica iniziare a vibrare come un tutt’uno con il corpo orchestrale. Mai in tanti anni di frequentazione delle sale da concerto ho visto tante persone muoversi, scomporsi dall’abituale aplomb che richiederebbe la solennità del luogo, per assecondare lo scorrere della musica.

Cosa dire sull’interpretazione? Se su Mendelssohn qualche piccola stortura si poteva riscontrare – ma torno a ripetere, assolutamente insignificante – Shostakovic sembrava uscito direttamente da un incisione discografica: everything in its right place, avrebbe detto Thom Yorke. Alla perfezione un po’ asettica del disco, su cui aleggiano sempre i dubbi e le perplessità di qualche possibile ritocchino (ah, i prodigi della tecnica!) i Berliner e il loro prometeico direttore opponevano lo spettacolo vitale di un capolavoro nel momento della sua ri-creazione: che poi è quello che rende la musica unica tra tutte le arti: la perenne possibilità dell’interprete di generare istantaneamente e in maniera irripetibile un’opera che vive già da decenni di vita propria eppure non tornerà mai più in quella forma. Petrenko sul podio alternava momenti in cui sembrava proteso verso l’infinito ed oltre, ad attimi in cui era quasi travolto dalla potenza della sua stessa creatura, con una gestualità chiara e comprensibile ma che al tempo stesso raccoglie i segreti di una comunicazione intima e diretta tra musicisti che si trattano con la stessa confidenza di amanti consumati. L’orchestra dava l’impressione di rinascere al termine di ogni movimento: ogni dettaglio, curato fino al punto immediatamente precedente all’esasperazione, era vivido e scintillante, in una sorta di 4K auditivo in cui gli ascoltatori più attenti avrebbero potuto percepire ogni movimento dell’aria negli strumenti a fiato. Fino a che punto si può parlare di miracolo per un concerto, senza scadere nella retorica?

Stephan Rabold – Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Filippo Simonelli

Direttore

Non ho mai deciso se preferisco Brahms, Shostakovic o Palestrina, così quasi dieci anni fa ho aperto Quinte Parallele per dare spazio a chiunque volesse provare a farmi prendere una decisione tra uno di questi tre - e tanti altri.

Nel frattempo mi sono laureato e ho fatto tutt'altro, ma la musica e il giornalismo mi garbano ancora assai.

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