Ultimo aggiornamento15 ottobre 2024, alle 10:50

“L’empio punito” di Alessandro Melani

di Enrico Truffi - 30 Settembre 2019

il primo Don Giovanni in musica

Quali sono le caratteristiche distintive di quelli che vengono considerati i “miti della modernità” nella storia culturale dell’Occidente? Cosa rende personaggi come Amleto o Faust delle figure così paradigmatiche dello Zeitgeist e della sensibilità sociologica del tempo in cui essi si manifestano? Sono domande a cui è difficile rispondere con sistematicità, a causa delle diverse conformazioni stilistiche a cui questi miti si adeguano e per via della vastità del sistema di riferimenti intertestuali che ne conferiscono il peso “mitico”. Se però i cosiddetti miti letterari consolidano la loro statura e il loro successo in base al numero di volte in cui il récit viene ripetuto, pochi altri possono aspirare al titolo come il mito di Don Giovanni. All’epoca della prima rappresentazione della versione di Mozart e Da Ponte, nel 1787, il racconto era probabilmente fissato nella memoria degli spettatori anche meno navigati, secondo le varie declinazioni alle quali avrebbero potuto assistere. Nella nostra esperienza nell’anno del Signore 2019, invece, assistere al Dramma in musica “L’empio punito” rappresenta un vano esercizio di distacco da un bagaglio culturale imponente che ci portiamo appresso nel seguire il canovaccio codificato per la prima volta da Tirso De Molina, e riproposto ieri al Teatro di Villa Torlonia nella versione musicata da Alessandro Melani nel 1669 per il Reate Festival 2019.

Considerata la prima opera in musica dedicata alla vicenda, “L’empio punito” di Melani, venne rappresentata per la prima volta il 17 febbraio 1669 a Palazzo Colonna a Roma davanti a Cristina di Svezia, e fu ricevuta con una benevola indifferenza dovuta principalmente alla lunghezza e allo spirito “melanconico” del dramma. É anche possibile che l’accoglienza tiepida fosse dovuta alla notorietà della vicenda già nel 1669; un aneddoto riporta che la stessa regina di Svezia, interrogata sul suo gradimento dell’opera di Melani, avesse semplicemente risposto con un laconico: “E’ il convitato di pietra.”.

Il dramma segue infatti le vicende di Acrimante (il corrispettivo di Don Giovanni) e dei suoi tentativi di conquista della bella Ipomene tramite inganni e congiure, mentre viene assistito dal servo Bibi e assediato dall’amore non richiesto di Atamira (Elvira nell’opera mozartiana). Ovviamente l’intrigo viene declinato secondo variazioni riprese forse dalla commedia dell’arte o da altre versioni del racconto, ma si concluderà inevitabilmente con il famosissimo invito a cena della statua e con la conseguente disfatta di Acrimante, trascinato all’inferno.

L’opera nella sua forma originaria probabilmente si adagiava comodamente nella filosofia degli eccessi e nei barocchismi della realizzazione scenica seicentesca, con numerosissime e complicate mutationi di scena volte a stupire lo spettatore; il libretto indicava persino la presenza di “sei statue” che ballano oltre al tradizionale convitato eponimo. L’origine di questa rappresentazione movimentata è da rintracciarsi nella figura di Filippo Acciaiuoli, che nonostante sia accreditato come autore letterario del libretto era principalmente un uomo di spettacolo, organizzatore e artigiano teatrale. La rappresentazione del regista Cesare Scarton invece è volta a una resa scenografica semplificata e tematicamente pregnante; l’arrivo di Acrimante rappresenta la fine dell’ordine, “l’arrivo di un meteorite” che frammenta la realtà in mille pezzi, incrina ogni superficie.

La conseguenza, e questa matrice rimase invariata anche nel capolavoro mozartiano, è un alternarsi quasi incoerente di dramma e commedia, di malinconia e buffonerie assortite, qui però volte a esemplificare la “giostra della vita”, la moltitudine di sfaccettature associate alla cultura seicentesca, in cui il gusto per l’eccesso e l’attenzione per i dettagli erano sintomi della volontà di rappresentare nella loro globalità delle gioie e dei dolori spartiti in egual misura nel corso di una vita, rappresentati qui da un susseguirsi di topoi della letteratura seicentesca, le sfere metaforiche della conquista romantica come caccia fra predatore e preda, e dell’innamoramento come prigione. Nella musica del Melani tutto questo è reso con efficacia tramite delicati madrigalismi tesi a una resa mimetica delle immagini evocate.

Anche a questo è dovuta la melanconia di cui molti commentatori all’epoca si lamentarono; lungi dal coincidere con gli slanci vitalistici e libertari del Don Juan che ci è stato tramandato, Acrimante risulta al confronto come percorso da numerose pulsioni di morte, visioni dell’oltretomba seppur lievemente dissacranti. Tuttavia è anche e soprattutto questa una delle dimensioni fondatrici del mito Don Giovanni, la sua attrazione per il trascendente, il suo legame con il sovrannaturale e il metafisico; ed è questa dimensione che continua a colpirci dopo tanti anni in ogni rilettura, il brivido inevitabile che ci attraversa quando sentiamo la statua accettare l’invito a cena, quando la sentiamo ricordarci di un’altra mensa che attende tutti noi alla fine del nostro ultimo pasto.

La conclusione della rappresentazione, senza rovinarvi la sorpresa, è però pervasa da uno spirito di simpatia verso Acrimante, tanto che possiamo quasi percepire un sorriso ironico nella ripetizione finale dell’adagio Da Pontiano: “Questo è il fin di chi fa mal”.

Enrico Truffi

Foto dello spettacolo prese dalla pagina Facebook del Reate Festival

Articoli correlati

tutti gli articoli di Enrico Truffi