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Biennale 2019

di Letizia Michielon - 3 Ottobre 2019

le introspezioni di Sir George Benjamin

Intervista a Ivan Fedele

Back to Europe è il titolo del 63. Festival Internazionale di Musica Contemporanea diretto da Ivan Fedele e organizzato dalla Biennale di Venezia, inaugurato in questi giorni a Venezia.
Dopo le edizioni dedicate al continente asiatico (2017) e a quello americano (2018), Fedele propone dunque un significativo ritorno al cuore della tradizione occidentale, punto di riferimento e motore propulsore della musica e della cultura del nostro tempo.

Quali le motivazioni che hanno portato a scegliere Sir George Benjamin come vincitore del Leone d’oro alla carriera?

Benjamin incarna lo spirito del continente europeo. La sua scrittura affonda le radici nella storia della musica occidentale e la sperimentazione del suo linguaggio rappresenta la continuità nella novità.
Lo possiamo considerare un “classico” nel senso più ampio e atemporale del termine, come dimostra anche l’opera Written on skin che verrà rappresentata in forma di concerto durante la cerimonia di premiazione.

Il Leone d’argento per la creatività verrà assegnato invece a Matteo Franceschini.

Sì, lo possiamo considerare tra i più promettenti talenti italiani, un autore su cui puntare per la sua capacità di estendere i confini della musica contemporanea colta interagendo con generi diversi. Le sue opere coniugano infatti scrittura tradizionale, spazi improvvisativi, elementi rock e un uso sapiente delle  nuove tecnologie. 

A proposito di tecnologie, nei giorni scorsi, presso il Centro civico della Bissuola, avete presentato al pubblico la mostra Electro – Elettronica: visioni e musica.

La mostra, organizzata dalla Biennale in collaborazione con la Philarmonie de Paris, mette in scena la musica elettronica e integra le attività di Educational e College concepite per il CIMM, il Centro di informatica musicale e multimediale avviato quest’anno dalla Biennale nelle due sedi dell’Arsenale e nella stessa Bissuola.
All’interno dei quattro studi si approfondiscono da una parte le tecniche di live e dj set, mentre dall’altra, all’Arsenale, si realizzano le sperimentazioni sul suono e la produzione di nuovi software, analogamente a quanto avviene all’Ircam e a Radio France.
Il successo riscosso finora è molto ampio.

Dando uno sguardo alla programmazione, potremmo dire che il tratto caratterizzante di questa Biennale Musica è rappresentato dall’interdisciplinarietà?

Certo, alla globalizzazione delle interazioni culturali corrisponde anche la globalizzazione delle discipline artistiche che vengono a fondersi in forme di spettacolo interessanti.
Penso alla matrice teatrale dei lavori ideati da Filippo Perocco e Lucia Ronchetti, che utilizzano i testi del poeta Eugene Ostashevsky, o alla drammaturgia strumentale di Aperghis, ma anche al percorso interculturale proposto dai Nomaden e al progetto dedicato alla musica spagnola del Plural ensemble. Di grande interesse mi sembra anche il concerto dell’Hermes Ensemble, in cui si intrecceranno musica e immagini.
Ci sono poi i quattro atti unici realizzati nell’ambito della Biennale College, che si gioveranno dell’apporto del CIMM.

Recensione di Written on skin

Rinuncia invece ai contributi tecnologici Written on Skin, il primo lavoro operistico di ampio respiro firmato da Benjamin, prescelto dallo stesso autore per essere eseguito in forma di concerto durante la cerimonia di premiazione dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Clemens Schuldt, attualmente alla guida  dell’Orchestra da Camera di Monaco di Baviera.
Riconosciuta unanimemente come un capolavoro, l’opera si avvale di un libretto ben congegnato da Martin Crimp, tra i più importanti autori di teatro inglesi.
Un connubio fortunato poiché dal 2012, quando alla prima esecuzione nel Festival Aix-en-Provence ottenne la standing ovation, Written on skin ha conosciuto oltre cento repliche e ben sei diversi allestimenti.
Storia di erotismo, potere e violenza, la vicenda si ispira alla leggenda di Guillem de Cabestany, poeta trobadorico e cavaliere, amante di Soremonde, moglie di Raimon de Roussillon. Venuto a conoscenza del tradimento, Raimon uccide il cavaliere e ne offre il cuore in pasto alla moglie che per la disperazione si uccide.
Nel libretto di Crimp la truce volontà di potenza è incarnata dal Protettore (l’eccellente baritono Christopher Purves) che affida a un angelo, trasformatosi nel Ragazzo, il compito di illustrare attraverso un manoscritto  le celebri gesta della propria famiglia.
Esplode però incontenibile l’attrazione tra il giovane (la cui parte è affidata all’abile contro tenore James Hall) e Agnès, moglie del Protettore, che sulla scena è interpretata dal seducente soprano Georgia Jarman.
La riproposizione in forma di concerto non toglie efficacia drammaturgica al lavoro di Benjamin che anzi si avvale di un’arma ancora più incisiva, ovvero la forza di immaginazione che il racconto riesce a evocare nell’ascoltatore, immerso all’interno di un teatro psicologico capace di scavare nei meandri più inquietanti dell’animo umano.
Il compositore inventa una scrittura vocale simile a tratti al declamato lirico del Pelléas debussyano, scorrevole e al tempo stesso ricco di sfumature espressive, in grado di tessere le fila di una trama sospesa tra gli abissi della purezza perduta e la violenza più cruda.
Luce e buio, bene e male, amore e odio innescano un ritmo narrativo incalzante ove tutto, anche la voce, scaturisce dall’interno della scrittura strumentale.
Perché se la parola e l’immagine giocano un ruolo decisivo, portando poco per volta al concreto realizzarsi della vicenda miniata dal Ragazzo sul libro fatale, al punto che la parola diventa  vita pulsante «scritta sulla pelle» (written on skin), alla musica è affidato invece l’arduo compito di esprimere il dramma umano dei tre protagonisti, che recitano e al tempo stesso si osservano recitare.
Questo distacco introspettivo consente di evitare l’eccesso di realismo e sgretola ulteriormente anime fragili e contraddittorie.
Il Protettore, che dovrebbe tutelare la purezza della sua famiglia, diventa invece vittima del suo stesso pensiero incapace di lasciare esistere il diverso; Agnès da moglie fedele si trasforma in amante appassionata, acquisendo finalmente identità di persona ma assumendo al contempo il tratto violento del consorte fino al punto di deturpare l’originaria innocenza del Ragazzo.
Nessuno è senza peccato e a tratti si ha la sensazione che tutta la vicenda sgorghi da un’allucinazione elaborata all’interno della mente sconvolta del Protettore, come se le sue paure si fossero pericolosamente materializzate.
L’apice tragico è raggiunto nell’ultima scena, quando il cataclisma si sospende tragicamente nel vuoto.
Dopo il suicidio di Agnès, il Ragazzo ritorna angelo e la vita si rinchiude nuovamente nelle immagini e nelle parole del libro.
Ma oltre la vita, che non sa essere «faultless» (senza colpa), oltre l’incapacità umana di amare veramente, qualcosa di eterno permane: la parola, il suono, l’immagine.
Cioè l’arte.
In questo silenzio astratto, ancestrale, ghiacciato dall’indifferenza dei tre angeli, Benjamin inventa forse le pagine timbricamente più interessanti dell’opera.
La musica evoca infatti il cielo notturno, una ragnatela di stelle in cui si innesta la voce astrale dell’angelo, quasi a suggerire un nuovo inizio da cui tutto potrebbe rinascere.
Buone le prove di Robert Murray e Victoria Simmonds, nelle vesti ora degli altri due angeli ora dei cognati John e Marie; convincente l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, guidata con magistrale precisione e raffinatezza da Schuldt.
Successo molto caloroso.

Letizia Michielon

Foto della Biennale di A. Avezzù

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