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Thomas Mann: scrivere un romanzo come una sinfonia

di Francesco Bianchi - 7 Novembre 2017

La musica l’ho sempre amata con passione e la considero in un certo senso il paradigma di ogni arte. Ho sempre ritenuto il mio talento un talento musicale trasposto e sento la forma del romanzo come una specie di sinfonia, come un tessuto di idee e una costruzione musicale.

Parlando in questi termini, Thomas Mann si inserisce all’interno di quella foltissima schiera di artisti che, pur non essendo musicisti, considerano la musica l’arte massima e dichiarano di ispirarsi ad essa nel loro processo creativo. C’è tuttavia un tratto particolare che distingue Mann: l’atto di desumere analiticamente dei concetti dalle forme musicali, per poi riproporli all’interno del romanzo. Egli cioè studia le peculiarità del linguaggio musicale e le usa come criteri architettonici delle proprie opere.  In particolare questi concetti sono principalmente due: la durata e l’organizzazione delle voci.

Forse il tema più presente nell’opera di Mann è il Tempo: l’enigma del divenire e della sua percezione nella durata attraversa trasversalmente tutta la sua produzione. In questo scenario di approfondimento di tale problematica, Mann mutua dalla musica il concetto del “tempo musicale dell’opera” che userà nella Montagna incantata.

In questo romanzo è messo a tema il tempo, nella sua differenza di tempo “puro”, come autentica apertura di possibilità, esperito dall’uomo nel momento della vacanza, in cui ogni attività lavorativa è sospesa; e di tempo del “lavoro” scandito invece dalle occupazioni del mondo economico e sociale, in cui la percezione del tempo è filtrata dalla progettualità. A questo riguardo Mann riprende dalla musica il concetto di “esecuzione” che è strettamente legato alla concezione temporale dell’opera. Innanzitutto vediamo cos’è questo “tempo musicale”.

A fini esplicativi possiamo fare riferimento a Giovanni Piana, che compirà, ovviamente molti anni più tardi, una distinzione particolarmente chiara, che può esemplificare con chiarezza i concetti in questione. Egli sostiene che quando pensiamo al tempo relativamente ad un oggetto fisico, lo immaginiamo come un concetto negativo, cioè come qualcosa che consuma l’oggetto, per cui la durata di questo oggetto è in sostanza la sua agonia, quanto esso riesce a resistere nel tempo; se parliamo invece di musica, il rapporto si inverte ed è il tempo a essere consumato dal suono che crea la propria durata: quando finisce un brano è la musica che è finita, non è il tempo che ha eroso e consumato il suono.

Se ora leggiamo le parole di Mann sul suo stesso romanzo, capiamo immediatamente cosa c’è di musicale in quest’opera:

«La narrazione [della Montagna incantata] somiglia alla musica in quanto “riempie” il tempo, lo “riempie decorosamente”, lo suddivide e fa sì che “contenga e significhi” qualcosa […]. Il tempo è l’elemento del racconto come è l’elemento della vita… ad essa indissolubilmente legato, come ai corpi nello spazio. E’ anche l’elemento della musica, come quella che misura e articola il tempo, e lo rende dilettevole e prezioso: affine in ciò, ripetiamo, alla narrazione […].»

E ancora:

«Il libro stesso è ciò che narra; mentre infatti descrive l’ermetico incantamento del suo giovane eroe verso un mondo fuori del tempo, aspira a sua volta, con i suoi mezzi artistici, all’annullamento del tempo, mediante il tentativo di conferire, in ogni istante, piena presenza al mondo ideale e musicale che esso abbraccia e di stabilire un magico nunc stans»

Il tempo della lettura del romanzo deve essere inteso, secondo l’autore, come il tempo di un ascolto musicale: l’esperienza della lettura, il gesto di immergersi nella narrazione è capitale così come l’estasi auditiva nel caso della musica. Quel tempo puro di cui si parla all’interno del romanzo, il tempo non scandito dalle scadenze e dal lavoro, di cui si fa esperienza nel momento della sospensione di tutte queste occupazioni, è anche il tempo che il lettore esperisce quando legge il romanzo; la lettura è equiparata all’ “esecuzione” di un brano musicale per cui non è importante solo cosa si ascolta, ma l’esperienza fisica dell’ascolto (in questo caso lettura).

Il secondo concetto importante che Mann mutua dalla musica è quello dell’organizzazione delle voci. Innanzitutto vediamo da dove viene desunta questa interpretazione della struttura armonica della musica e poi qual è il romanzo in cui la applica.

Prevedibilmente è Schopenhauer l’autore dove incontra questa interpretazione della architettura delle voci. Tra i passi che più hanno segnato la produzione di Mann, c’è infatti la parte in cui il filosofo di Danzica parla di come la musica riesca ad esprimere la libertà umana e il suo rapporto con la Volontà. Il cuore concettuale di questo passo è la citazione che riporto:

«Io riconosco nei gradi più suoni dell’armonia, nel abisso fondamentale, i gradi più bassi di oggettivazione della volontà, la natura inorganica, la massa del nostro pianeta. Tutti i suoni acuti, più agili e fuggevoli, vanno considerati, come è noto, come suoni resi possibili dalle variazioni concomitanti del suono fondamentale profondo, al cui risuonare essi sempre riecheggiano lievemente a loro volta. […] Più pesantemente di tutte si muove il basso profondo, il rappresentante della massa bruta: il suo salire e scendere si realizza solo per grandi intervalli di terza, di quarta, di quinta, mai di un solo tono, perché in questo caso sarebbe un basso trasportato. […] Più rapide ma ancora senza una connessione melodica e prive di una progressione capace di esprimere un senso, si muovono le voci di accompagnamento più alte, che corrono in parallelo al mondo animale. […] Infine, nella melodia, nella voce principale che rappresenta il tutto, che si leva alta che guida l’insieme e che procede dall’inizio alla fine a propria libera discrezione, con la coerenza ininterrotta densa di significato di un unico pensiero, io riconosco il grado più alto di oggettivazione della volontà, ossia la vita e le aspirazioni consapevoli dell’uomo.»

In questo passo Schopenhauer individua nelle voci dell’armonizzazione classica i diversi livelli di sottomissione-emancipazione alla Volontà: il basso essendo l’espressione dell’armonia, è il pilastro su cui si basano le altre voci e in base al quale vengono interpretate, ma non gode di libertà, così come non ne gode la materia o il mondo vegetale, perché costretto a muoversi su quelle note che sono la struttura portante dell’intera partitura; le due voci intermedie sono capaci di maggior libertà, avendo meno vincoli nell’intonazione delle note: per questo Schopenhauer le associa al mondo animale, in cui c’è un maggior affrancamento dalla Volontà, che rimane però parziale, dato che gli animali non giungono ad avere coscienza. Infine il soprano, la voce che esprime la melodia, è l’uomo con la sua libertà: così come ognuno di noi è capace di lasciarsi andare alla Volontà oppure di resisterle e prendere altre vie, allo stesso modo la peculiarità della melodia è il suo gioco con l’armonia espressa dalle voci sottostanti, alle quali a volte si adegua a volte si allontana.

Il romanzo in cui usa questa architettonica relazionale è Giuseppe e i suoi fratelli, in cui il tema stesso si presta a questa operazione. In quest’opera Mann tratta del mito, inteso come racconto sulla base del quale gli uomini modellano la propria personalità e orientano le proprie scelte.

Il mito agisce su due livelli nel romanzo: la storia narrata è un mito, cioè l’episodio biblico di “Giuseppe e i suoi fratelli”; e i personaggi stessi vivono immersi nel mito, in quanto la loro soggettivazione passa per l’identificazione in un racconto a loro antecedente (anch’esso biblico in quanto ebrei). Dal punto di vista dei personaggi il mito è ciò in base a cui i personaggi agiscono, in base a cui fanno le loro scelte. L’assunto di base del romanzo è infatti quell’atteggiamento dell’uomo antico che, con una espressione di Ernst Kris, si può chiamare coscienza mitica per la quale l’uomo antico “prima di prendere una decisione compiva sempre un passo indietro, ossia affondava nel mito per ritrovare un modello a cui ispirarsi”.

Questo lo si vede chiaramente nelle figure più anziane, come ad esempio Giacobbe: egli vive immerso nel mito, si rifà direttamente alle scelte di Abramo e cerca di conformarvisi il più possibile. Eliezer addirittura, il primo schiavo di Giacobbe, si chiama così perché questo era il nome del primo schiavo di Abramo e finisce con il narrare eventi della vita del personaggio del mito come se fossero accaduti a lui: l’identificazione è totale. Ci sono poi altri personaggi come Mont-Kaw o il Faraone che hanno un rapporto più libero nei confronti del mito, cioè vivono in base ad esso, ma sono aperti a delle eccezioni e si lasciano andare a delle deviazioni dal cammino già segnato del mito. Infine c’è il protagonista, Giuseppe, che è colui che vive il mito, ne apprezza tutta la sua profondità, ma è libero e gioca liberamente con i vincoli del racconto creando così qualcosa di nuovo, altri spazi di possibilità. Dice a questo proposito Mann stesso:

«Il Giuseppe del romanzo è un artista in quanto gioca, gioca cioè sul piano dell’inconscio con la propria imitatio di Dio – e io non so quale sentimento presago, quale gioia del futuro m’invade quando rifletto su questo schiarirsi dell’inconscio nel gioco, su questo suo rendersi fecondo per produrre solennemente la vita, su questo incontrarsi nel racconto, di psicologia e mito, che è nello stesso tempo un festoso incontrarsi di poesia e psicoanalisi.»

Il romanzo è dunque costruito su una struttura in cui i personaggi si caratterizzano in base a come si relazionano con il mito, da quello che più si immedesima nei racconti della tradizione (Giacobbe o Eliezer), fino al più libero (Giuseppe). E’ importante notare come la libertà di Giuseppe non venga descritta come un mero allontanamento dal mito: il protagonista non fugge, ma ci si relaziona con la libertà e la creatività tipica del gioco. Egli è davvero libero e “produce vita” proprio perché dialoga con il mito creando il nuovo, generando spazi di possibilità che la pedissequa ripetizione del mito non permettono.

Se si ritorna al modo in cui Schopenhauer parla della musica, sono evidenti le somiglianze fra l’architettonica dei personaggi di Giuseppe e i suoi fratelli e la struttura delle voci, così come descritte ne Il mondo come volontà e rappresentazione. Giacobbe è come un basso che non è libero perché limitato nei movimenti dalle prescrizioni armoniche. I personaggi secondari sono come le voci intermedie che possono muoversi con maggiore libertà, ma non lo fanno con la coscienza di creare qualcosa di nuovo, né con la coscienza di intervenire dialogicamente sul mito. Infine Giuseppe è la melodia del romanzo, colui che gioca liberamente con l’armonia espressa dalle voci sottostanti, che crea qualcosa di bello e di nuovo, proprio perché, come una melodia, segue l’impianto che tutti gli altri hanno creato, ma allontanandosene e ritornando arricchisce l’esperienza e i significati esprimibili, generando così nuove possibilità espressive e semantiche.

Si spiega così più chiaramente la citazione iniziale in cui Mann si definiva un talento musicale e affermava di concepire un romanzo come una sinfonia. Invece di seguire la strada di improbabili tentativi di riprodurre in un altro contesto gli esiti del linguaggio musicale, Thomas Mann ha preso quello che della musica è direttamente traducibile e trasportabile, ossia da una parte il suo carattere gestuale, dall’altra la geometricità dei suoi rapporti. Ne deriva una coscienza della molteplicità dei livelli esperienziali dell’opera, dalla semplice tematicità alla performatività, che rendono i suoi romanzi delle monumentali sfingi di fronte alle quali, per il lettore, si spalancano abissi ad ogni pagina. Infatti la pluridimensionalità di queste opere è la loro bellezza, ma è anche un enigma (αίνιγμα) in senso greco: un oggetto contraddittorio, ma in sé conchiuso e per questo ermeneuticamente aperto.

Francesco Bianchi

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