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Il pensiero musicale secondo Wittgenstein

di Francesco Bianchi - 6 Aprile 2017

“Quando ascolto la cavalcata delle Valchirie mi viene voglia di invadere la Polonia” diceva Woody Allen in Crimini e Misfatti. Una battuta riuscita, perché effettivamente il tono marziale e impetuoso di questo brano di Wagner suggerisce l’idea di una forza travolgente, che investe e distrugge tutto ciò che incontra. Ma come è possibile che una cosa così astratta come la musica comunichi a tutti lo stesso significato?

“La logica è nemica dell’arte. Ma l’arte non può essere

la nemica della logica. L’arte deve aver assaggiato

una volta la logica e averla poi perfettamente

 digerita. Per affermare che due per due fa cinque occorre sapere

che due per due fa quattro. Chi sa soltanto questa

seconda cosa dirà senz’altro che la prima è falsa.” [K.K.]

Come è possibile che tutti ascoltando lo stesso pezzo proviamo la stessa emozione? Dato che non ci sono parole, da dove nasce questa possibilità? A queste domande non ci sono risposte scientificamente provate, ma delle proposte di spiegazione che sono state date da filosofi e musicologi negli ultimi due secoli. Wittgenstein, filosofo tedesco della prima metà del Novecento, è tra questi, avendo indagato a lungo la relazione fra il linguaggio e il mondo e anche fra musica e realtà.

          Per Wittgenstein la musica è un linguaggio, proprio come le parole, e il meccanismo che ci permette di comprendere il senso di una composizione è lo stesso che ci permettere di capire una proposizione. Cos’è dunque ciò che ci permette di comprendere il discorso di un’altra persona? Per il filosofo la risposta è la struttura razionale che viene espressa all’interno della frase. Il contenuto di una proposizione non sono le cose enunciate, come se fossero elementi indipendenti tra loro che vengono catalogati e descritti dal discorso, ma sempre il legame logico che sussiste fra di loro. In termini filosofici “il mondo non è fatto di cose, bensì di fatti”, cioè l’uomo non viene mai a contatto con qualcosa per come questo è in sé, ma sempre per come esso è all’interno di una relazione logica che lo lega agli altri oggetti circostanti. Prendiamo un esempio fatto da Wittgenstein stesso, il disegno di un cubo:

         L’oggetto che percepiamo varia in base a come interpretiamo la figura (se la faccia del cubo che pensiamo avanti è la “a” o la “b”). Soprattutto non riusciamo a pensare quelle linee indipendentemente dal significato che le attribuiamo, come se non esistesse la forma “cubo”. Allo stesso modo quando pronunciamo una proposizione esprimiamo un rapporto logico che esiste fra le cose, che è poi ciò che viene compreso nella comunicazione e permette all’altro di comprenderci. Wittgenstein chiama legge di proiezione questa capacità del linguaggio di esprimere tramite le relazioni fra le parole i rapporti logici che esistono tra gli oggetti: è come se il linguaggio fosse uno specchio di questa struttura razionale che dà forma e significato alla realtà.

            Dal punto di vista logico la frase è uno schema nel quale si inseriscono degli elementi, nomi e verbi sostanzialmente, che cambiano di significato in base a dove vengono posizionati. Ogni proposizione può essere immaginata come un luogo in cui in base a dove si mettono le cose queste assumono un significato diverso.

‹‹Chiarissima diviene l’essenza del segno proposizionale se lo concepiamo composto, invece che di segni grafici, d’oggetti spaziali (come tavoli, sedie, libri). La posizione spaziale reciproca di queste cose esprime allora il senso della proposizione.››

           Ad esempio se dico “Mario uccide Paolo”, oppure “Paolo uccide Mario” il significato è molto diverso, ma la relazione logica rimane la stessa. Ma il variare di nomi e verbi all’interno della frase può cambiare anche la stessa struttura logica che invece nell’esempio precedente era costante. Se infatti dico “Paolo uccide la morale” cambia anche il senso generale della frase, perché in questo caso non si tratta più della precedente azione di togliere la vita ad un essere umano, ma si è passati a un ambito metaforico in cui la relazione logica espressa dalla frase è totalmente diversa. Quindi le parole cambiano di senso in base a dove queste vengono posizionate all’interno della struttura logica espressa dalla frase, ma anche questa stessa struttura logica dipende da quelle variabili, cioè i nomi e i verbi, che essa manipola.

Pertanto le parole diventano fatti, ossia proposizioni munite di senso, nel momento in cui assumono una struttura spaziale che esprime un senso. La fonte prima del significato non è dunque la parola, il fatto che un suono sia legato ad un oggetto, ma è la disposizione delle parole secondo una struttura che esprime in questo modo una forma logica. La musica viene citata spesso da Wittgenstein, ad esempio in questo passo:

[4.014] Il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione musicale, le onde sonore stanno tutti l’uno con l’altro in quella interna relazione di raffigurazione che sussiste tra linguaggio e mondo. Ad essi tutti è comune la struttura logica. (Come nella fiaba, i due adolescenti, i loro due cavalli e i loro gigli. In un certo senso, essi sono tutt’uno)

            In questa citazione viene messo in risalto come tra notazione musicale e musica, tra pensiero musicale e onde sonore ci sia la stessa relazione che esiste fra linguaggio e mondo, cioè condividano tutti la stessa struttura logica. Si è detto sopra che il nucleo gnoseologico del linguaggio è il suo essere un modello del mondo, un rispecchiamento di quelle struttura logiche che ritroviamo nel reale, per cui il significato non emerge dalle singole parole ma dalla loro relazione. Come ritroviamo tutto ciò in musica? Nel fatto che anche in musica ciò che permette di esprimere un pensiero sono le relazioni che si istituiscono tra i suoni che rispecchiano delle strutture razionali della realtà. Rispetto alle parole ciò in musica è ancora più evidente, perché non esiste un oggetto esterno a cui si riferiscono le note, ma solamente suoni, il cui unico loro punto di riferimento sono gli altri suoni della composizione. Per questo motivo quello che permette alla musica di sostanziarsi sono i rapporti differenziali interni fra i suoni, declinati secondo i parametri di ritmo, armonia, melodia e timbro: ogni suono non ha significato di per sé, ma ne assume uno a seconda dei suoni che lo precedono e che lo succedono.

            Si può prendere come esempio il Tristan-Akkord, l’accordo in cui culmina il Leitmotiv di Tristano, in Tristano e Isotta di Wagner. Perché è un accordo così importante da aver impegnato schiere di critici in un dibattito ancora oggi aperto? Con questo passaggio musicale Wagner segna un punto cruciale nella storia della musica perché apre alla possibilità di comporre musica in modo non tonale, slegandosi cioè dai legami armonici che avevano costituito le fondamenta di ogni musica composta fino a quel momento. Il motivo per cui si è citato questo momento musicale è che l’elemento innovativo non è nell’accordo in sé, perché si tratta di un accordo semidiminuito, che possiamo ritrovare anche in altre composizioni precedenti al Tristano e Isotta, ma nel luogo in cui è posto e dunque per ciò che esso esprime a causa della sua posizione.

        L’aspetto rivoluzionario è che quelle quattro note non è possibile interpretarle in maniera univoca secondo i criteri di analisi classici, in quanto può assumere diversi significati in base a ruolo che si decide che quell’accordo abbia. Nei modi in cui si era presentato questo accordo nelle composizioni precedenti aveva sempre un significato univoco, chiaro, per cui anche se dissonante rientrava negli schemi dell’armonia classica. In questo luogo non è possibile ancorarlo ad una funzione specifica all’interno dell’armonia tonale, per cui, essendo comunque l’accordo uno e molti i suoi possibili sensi, questo passaggio musicale prelude e indica la via alla possibilità di comporre trascendendo le strutture tonali. Infatti è questo il caso in cui, come nell’esempio “Paolo uccide Mario- Paolo uccide la morale” il variare di una variabile della frase cambia anche la struttura logica generale della frase: così come nel momento in cui diciamo che Paolo uccide la morale e non più un altro essere umano stiamo cambiando il senso espresso dalla struttura logica su cui si regge la frase, perché dalla descrizione di una azione fisica si passa ad un piano metaforico, allo stesso modo posizionare un accordo semidiminuito in quella posizione come fa Wagner, non esprime solamente qualcosa di nuovo all’interno del discorso musicale, ma lo modifica nella sua essenza, cambiando radicalmente il senso generale della frase musicale, perché non è più interpretabile secondo i canoni che definivano gli accordi nei brani degli autori precedenti a Wagner.

            Si è citato questo esempio per evidenziare come dunque l’elemento significante in musica è la differenza fra le note e non il riferimento ad una cosa esterna. Il gesto innovativo di Wagner è nel luogo in cui quelle particolari note vengono messe. Si può concludere che per Wittgenstein un brano musicale è come un microcosmo in cui la disposizione dei suoni costituisce una architettura di tensioni e risoluzioni sulla base delle quali si creano dei rapporti logici che permettono di esprimere delle narrazioni.[1]

         Ritornando alla citazione in cui venivano accomunati i suoni di un brano musicale, il disco in cui è inciso e le note dello spartito, è chiaro come la cosa comune sia la struttura logica e espressa dai rapporti fra le diverse note, che vengono mantenuti e riprodotti sia dal disco fonografico che dalle note sulla pagina. “Conoscere l’essenza della logica porterà a conoscere l’essenza della musica” scrive Wittgenstein nei Quaderni. Questa affermazione però non va assolutamente letta come una dichiarazione di una possibile spiegazione totale della musica, perché la logica di cui si parla in questo caso è la forma logica reale che incontriamo nel mondo. Se infatti ci si ricollega al Tractatus logico-philosophicus leggiamo che: “La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che essa ha in comune con la realtà per poterla rappresentare: la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica, noi dovremmo poter situare noi stessi fuori della logica, ossia fuori del mondo”. Questo significa che la forma logica in questo senso non è una mera formula matematica, ma ciò da cui le formule matematiche stesse dipendono, ossia la struttura razionale intrinseca al mondo, la quale, come tale, è a fondamento tanto degli oggetti che incontriamo nel mondo, quanto della nostra stessa rappresentazione di quegli oggetti. Rappresentarla è dunque impossibile perché significherebbe trascendere i nostri stessi strumenti cognitivi.

            Il compito di giungere a conoscenza della logica per riuscire a conoscere l’essenza della musica è dunque un compito impossibile, ma a cui è altrettanto impossibile sottrarsi. Tentare di comprendere la musica significa, per Wittgenstein, cogliere i rapporti che si creano fra i suoni, a cui poi si aggiunge il momento propriamente estetico che consiste nell’immergersi nel microcosmo plasmato dall’artista, cercando di giungere ad una unità estetica. Questo secondo momento però non fa parte più della logica ma sconfina in quello che sempre il filosofo aveva definito come il Mistico, cioè il “senso del mondo come una totalità limitata”. A questo proposito Karl Kraus, uno dei maestri di Wittgenstein, ha dipinto questa dinamica gnoseologica in uno dei suoi aforismi, tanto metaforico quanto scientifico: “Il linguaggio va a tentoni come l’amore nell’oscurità del mondo, alla ricerca di una perduta immagine primordiale”.

            Ma già questo speculare sulla natura dell’estetica sconfina oltre i limiti di ciò che può essere detto sul linguaggio, perché l’estetica, come l’etica, sono al di là delle possibilità della grammatica e delle nostre capacità linguistiche. Pertanto secondo Wittgenstein ci si deve limitare a dibattere solo su ciò che è invece ben definibile all’interno delle possibilità del linguaggio, cioè su quegli oggetti per i quali c’è possibilità di esattezza logica. Se infatti si chiedesse alla filosofia di Wittgenstein cosa è la bellezza la risposta la si troverebbe in fondo al Tractatus logico-philosophicus, in quella proposizione conclusiva, quasi ascetica e asciuttamente prescrittiva, che recita: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.

[1] E’ necessario fare due precisazioni. La prima è che che questa analisi di Wittgenstein non ha l’intenzione di spiegare esteticamente un’opera. Precisazione necessaria perché alcuni critici hanno visto infatti in questa posizione una ripresa del formalismo musicale, cosa invece erronea perché questa tesi è volta a spiegare la struttura logica che permette alla musica di essere compresa da tutti allo stesso modo, senza avere la pretesa di individuare criteri per definire l’artisticità o la bellezza di una composizione. Inoltre Wittgenstein quando parla di segni (musicali, verbali, grafici) non li intende in senso formale, in quanto sono sempre sia forma che contenuto, dato che l’uno non può darsi senza l’altro. La seconda precisazione riguarda il fatto che il parallelismo con il linguaggio è da prendere con cautela. Infatti la musica anche se esprime delle strutture logiche, tuttavia non rimanda ad oggetti, cosa che invece fa il linguaggio. Alcuni critici hanno sostenuto che l’analogia sarebbe più stringente con il linguaggio logico, in cui ci sono solamente variabili e non nomi, così come nella musica non c’è un referente.

Francesco Bianchi

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