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Testimoni del presente: Marco Stroppa

di Michele Sarti - 26 Giugno 2020

Le voci dei compositori dentro e oltre la pandemia.

Una rubrica di interviste e colloqui con i compositori europei, per indagare le caratteristiche, le contraddizioni e le peculiarità del fare musica in un momento di così radicale cambiamento globale. Dei dialoghi riguardanti un presente profondamente segnato dagli effetti della pandemia e i possibili (e necessari) sviluppi dell’arte musicale in un panorama futuro.
Abbiamo raccolto fino ad ora testimonianze molto ricche ed eterogenee (le conversazioni con Giorgio BattistelliLuca LombardiGiorgio Colombo TaccaniVittorio MontaltiFrancesco FilideiFabio Massimo CapogrossoFabio VacchiLucia RonchettiMarco Tutino e Orazio Sciortino sono consultabili ai link qui riportati).

L’intimo rapporto con se stessi: il compositore vive, per la natura stessa del proprio mestiere, una condizione di solitudine; tuttavia, a fronte della forzata reclusione, come cambia la percezione di questa solitudine, se cambia, e quali sono le riflessioni che emergono?

Anche se gli esempi contrari non mancano, non credo molto al compositore recluso e solitario. La musica è un’arte sociale per eccellenza! L’antropologo e etnomusicologo John Blacking in un bellissimo libro (“How musical is man”) scrisse che la musica è “a humanly organised sound”, nel senso che i processi essenziali che la costituiscono sottolineano le interazioni fra gli esseri umani in una società. Sono queste interazioni che le procurano il senso profondo di quello che è. Certo, una parte del nostro lavoro richiede una fase di isolamento, quando dobbiamo scrivere, ma, per quanto mi riguarda, non mi sembra che sia il momento di recludermi nella mia arte e mantenere un contatto minimo con il mondo esterno. Al contrario, per quanto questo possa essere scomodo, difficile da gestire, e, talvolta, destabilizzante, è sempre stato importante, per me, riflettere al mio ruolo in questa società e in questi tempi di grandi tensioni socio-politiche e ambientali. Cerco anche di trasmettere questi valori attraverso il mio lavoro creativo e l’insegnamento.

A Berlino, dove ho vissuto quest’anno (sono stato in residenza al prestigioso Wissenschaftskolleg), la crisi sanitaria non è stata trattata in modo così estremo come in Italia, Francia o Spagna. Alla reclusione forzata, il governo tedesco ha privilegiato la responsabilizzazione della popolazione nel mantenimento della distanza fisica; abbiamo sempre potuto uscire, purché fossimo soli o, al massimo, in due. Però, la straordinaria vita culturale di questa città, purtroppo, è stata improvvisamente pietrificata e lo sarà almeno sino alla fine dell’estate. Visto dall’esterno, si potrebbe pensare che abbiamo passato un momento ideale: senza concerti, corsi, insegnamento, viaggi, si può, finalmente, passare tutto il tempo a comporre.

Eppure, ho sofferto molto in questo periodo e non ho lavorato così bene come avrei voluto, per tante ragioni. La crisi che abbiamo subito non è stata soltanto una crisi sanitaria con gravissime conseguenze per le popolazioni e l’economia, ma, soprattutto, una crisi ambientale, prevedibile e prevista. Basta leggere quello che tanti scienziati negli ultimi decenni hanno pubblicato per rendersene conto. Ma le loro riflessioni furono totalmente ignorate da una classe politica, per la maggior parte eletta e rieletta in modo democratico, che è totalmente incapace di immaginare un modello di vita sociale al di fuori di un’ideologia neo-liberale e finanziaria letale e di un sistema produttivistico obsoleto e perverso. Fra tanti nomi possibili, mi permetto di citare il biologo francese, specialista della biodiversità, Gilles Bœuf, o l’avvocata e politica statunitense Kate Brown (si veda un articolo che scrisse per il New Yorker il 13 aprile scorso, https://www.newyorker.com/culture/annals-of-inquiry/the-pandemic-is-not-a-natural-disaster). Rendersi conto dell’estensione di questa crisi all’insieme delle attività umane, del rischio di totalitarismo implicito nei vari stati di emergenza decretati qua e là, comprendere, come scrive il filosofo Michael Fœssel, che l’evoluzione autoritaria degli stati dove regna una deregolamentazione economica senza limiti è un fatto incontestabile, osservare il trattamento infantile dei cittadini da parte di troppi dirigenti politici, apparentemente accettato con una docilità straordinaria, riscontrare che il pianeta terra non è mai stato così bene come da quando la vita economica e sociale è stata sospesa, mi ha portato a riflettere sul modello di società nel quale viviamo, un modello che non ho scelto, ma nel quale sono ben obbligato a vivere, e sulle conseguenze per la nostra attività di compositori. È come se questa situazione abbia risuonato in me.

Che musica uscirà da questa fase critica, che il filosofo Heiner Mühlman chiama “Maximum Stress Cooperation”? Sarebbe troppo cinico pensare che, ormai, non si possa fare più nulla, che la musica che scriviamo è morta, perché ho sempre sentito l’esperienza musicale, dalla composizione al concerto, come uno strumento di rivolta e una sorgente di speranza.

Percepisce che la sua musica, a livello di scrittura, stia cambiando in qualche modo?

 Se fossi soltanto un riflesso del mio tempo, scriverei, ora, una musica della distruzione e del tracollo, oppure delle odi al personale che ha magnificamente lottato contro la pandemia, naturalmente per un’esperienza online! D’altra parte, se volessi soltanto “esprimermi”, non farei che proiettare il mio stato interno verso l’esterno. Ma vale veramente la pena di ascoltarlo? Non sono mai stato troppo dotato per scrivere lavori di circostanza, ma quando le condizioni per sperimentare qualcosa di nuovo diventano stimolanti, allora non esito ad accettarne la sfida. Ad esempio, Geoffroy Jourdain, direttore del coro “Les Cris de Paris”, con il quale avevo già cooperato a vari progetti artistici, mi chiese un brano che potesse essere eseguito in uno stato di confinamento sociale, ciascuno a casa sua, oppure a debita distanza l’uno dall’altro. Ho così composto, in poco tempo, “A 8 voix/es qui bifurquent”, un lavoro ispirato da una novella di Borges nel quale ho sperimentato un processo compositivo nuovo per me e che volevo provare: delle cellule semi-autonome, vagamente coordinate da un direttore, generano delle “voci” (voix) o delle “vie” (voies) che si incrociano e biforcano. E ho spinto l’interpretazione della distanza sino a lasciare la scelta del testo totalmente libera!
È stato l’interesse musicale della richiesta che mi ha spinto a scrivere un ennesimo “corona-piece”! Disponibile online all’inizio di luglio, spero che vivrà un po’ più a lungo del famoso virus!

Le strategie per il futuro prossimo: alla luce dello sconvolgimento globale attuale, con la consapevolezza di una possibile e ancor più profonda crisi economica all’orizzonte e i rischi e le paure di ritrovarsi in luoghi affollati, ora più che mai le sovrintendenze dei teatri e delle istituzioni concertistiche, dovranno mettere in campo strategie in grado di reagire alle difficoltà verso cui andremo incontro. Quali scenari si prospettano secondo Lei e come riporteremo le persone nelle sale da concerto?

Ho letto troppe analisi su quello che il futuro di riserverà, dalle più pessimiste alle più ottimiste, per permettermi di elaborare io stesso delle previsioni. Mi sembra, però, che l’esplosione recente di concerti diffusi sui social, da quelli a casa propria a quelli eseguiti in vere sale da concerto totalmente vuote, abbia mostrato allo stesso tempo l’enorme facilità tecnologica di questo tipo di contatti virtuali (che né i giovani confinati del Boccaccio, né noi stessi, soltanto vent’anni orsono, avremmo mai potuto immaginare), ma anche i limiti profondi, direi, quasi, esistenziali, di questo tipo di comunicazione. Anzi, non si tratta persino di comunicazione, ma di una messa a disposizione, in modo univoco e non interattivo, di un materiale online, spesso di mediocre qualità acustica o visiva. Vorrei sperare che, dopo aver provato e trovato quasi di tutto sui social, l’importanza fondamentale dell’esperienza sociale della musica ne esca rinforzata, che la gente abbia voglia di uscire di nuovo e ritrovare l’atmosfera del concerto dal vivo che nessun social potrà mai sostituire.
Per il compositore, però, il compito non cambia: scrivere i brani più belli possibili, anche se sarà forzato, forse, a dare la priorità a organici più limitati, data la difficoltà di accesso, almeno in un futuro immediato, a gruppi più grandi.

Quale dovrebbe essere il ruolo del teatro musicale, in questa situazione?

 Ho imparato molto sul ruolo del teatro musicale negli anni 90, grazie ad appassionanti discussioni con Gerard Mortier. Un teatro che si limiti a proporre quello che si potrebbe già vedere alla televisione o leggere sui giornali, manca di afflato. Ma perché la gente continua ad andare al teatro? Per esplorare, credo, attraverso la mediazione della scena, dei mondi sconosciuti, immaginari, virtuali, ma non meno importanti o vitali, per vivere un’emozione e un’avventura estetica che la realtà quotidiana non potrà mai generare.
Quando scrissi la mia unica opera lirica (Re Orso), volevo scegliere un soggetto socialmente impegnato, centrato sul rapporto fra un potere assoluto e autoritario e degli esseri umani che vi si oppongano, anche al costo della loro vita. Se avessi acceso la televisione, avrei trovato decine di esempi del genere, probabilmente effimeri. Invece, grazie al suggerimento di Giordano Ferrari, ho preferito la visione di Arrigo Boito, che, nell’omonimo poema, aveva immaginato gli stessi rapporti che volevo mettere in scena, ma con una forza artistica e una carica di protesta sociale che ci provocano ancora oggi, a oltre 150 anni dalla scrittura, e, probabilmente, continueranno a stimolarci.
Questo aspetto catartico del teatro, d’altronde, non è limitato alla teorizzazione dei greci antichi, ma si ritrova anche in altre tradizioni culturali. Già nel passato ci furono lavori sperimentali, ad esempio, per un solo spettatore alla volta, ma furono casi isolati. Spero che, poco a poco, la situazione attuale ritroverà una specie di “normalità” che ci permetterà di praticare la nostra immaginazione senza vincoli straordinari da rispettare.

 Come questa grande massa di documenti sonori e di materiali musicali estremamente eterogenei disponibili in rete, hanno influenzato il modo di comporre, dal suo punto di vista di compositrice occidentale? Già negli anni Ottanta Petrassi, partendo dal presupposto che l’esistenza di un linguaggio musicale unitario era già da tempo stata messa in discussione, in una conversazione con un altro compositore rifletteva sul fatto che i compositori di allora erano disturbati da troppi segnali.

 Ma nessuno ci obbliga ad essere disturbati da troppi segnali! Per ora, è sempre possibile scegliere che cosa consultare, come e quando!
È vero che la pressione sociale produce una proliferazione di segnali di tutti i generi, che studi psicologici recenti hanno mostrato un’evoluzione dell’intelligenza umana, soprattutto dei giovani, da un’intelligenza che abbordava poche cose in profondità, a un’intelligenza più superficiale, ma estesa ed interconnessa, è anche chiaro che sempre maggiori idee, mode o comportamenti sociali saranno propagati e controllati da algoritmi senza che ce ne rendiamo veramente conto, ma noi, noi siamo ancora liberi di scegliere di quali segnali occuparci, no?
L’accesso in rete a una quantità sempre più incredibile di documenti permette un’espansione enorme delle informazioni disponibili, ma sta a noi capire quali siano veramente importanti ed utilizzarle per quello di cui abbiamo bisogno.
Il problema principale, però, è che alle straordinarie innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni non è stata associata un’equivalente innovazione sociale. La tecnologia si è già proiettata nel XXIº secolo, ma la società è rimasta sempre ancorata al secolo precedente. E così, non ci siamo ben resi conto, che la “guerra dell’informazione”, al giorno d’oggi, è molto più importante e feroce di qualunque altro conflitto, come scrisse Dirk Helbing, un ricercatore che fu quest’anno, un fellow del Wissenschaftskolleg. L’artista dovrebbe contribuire, attraverso la sua esperienza e le sue proposte estetiche, a far emergere une visione diversa e più umana dei rapporti sociali..

Il compositore: testimone del proprio tempo. Superata l’emergenza l’arte dovrà riuscire a essere un reale e necessario sostegno, se riconosciuta come “medicina dell’anima”, e il compositore una voce di riferimento; ma alla luce delle difficili condizioni di un mestiere non sempre riconosciuto, come riuscirà a farsi ascoltare?

Il compositore, e, più in generale l’artista, ma, spesso, anche l’intellettuale fanno fatica a farsi ascoltare e a incidere nella società attuale strapiena di sollecitazioni. Chi, oggi, sembra avere più voce sono delle stars (della pop, del cinema, della reality, del football, ecc.), che hanno, naturalmente, il diritto di esprimersi, ma che non rappresentano l’insieme delle voci analitiche odierne.
In passato e in altre culture, la musica aveva un ruolo molto più importante nello sviluppo della società e dell’essere umano, ed era anche collegata al lato invisibile del mondo, ma percepibile attraverso l’ascolto. Oggi, però, il suo ruolo è troppo spesso degradato a prodotto di intrattenimento, piuttosto snob, se si tratta di musica classica. Eppure, ogni atteggiamento veramente creativo mette continuamente in discussione le nostre abitudini di routine e sfida i nostri stereotipi mentali, in altre parole, ci stimola ad uscire da un atteggiamento di conforto e a scoprire altri aspetti di noi stessi.
Non credo, però, che lo scopo principale di un artista sia quello di farsi ascoltare “ad ogni costo”, ma di inventare ed esplorare un mondo personale, anche a costo, all’inizio, di non incontrare subito un pubblico immediato. Non vorrei fare l’apologia della mancanza di pubblico, naturalmente, ma porre l’attenzione sull’importanza della dimensione estetica dell’avventura artistica. Se è forte e bella, troverà sicuramente un suo pubblico.

Quali strategie dovrebbero adottare i direttori artistici, gli organizzatori musicali e i divulgatori per cercare di far sopravvivere la produzione e l’esecuzione di nuova musica in Italia (a fronte della sua già precaria condizione)?

 Siamo, purtroppo, sempre più vittime di un approccio quantitativo dell’arte. Il successo si misura in cifre, in spettatori paganti, in quantità di “likes” o “followers”. Non è, in se stesso, un “male”, naturalmente. Ma mi viene in mente un pensiero di Stravinsky che dice: “To listen is an effort, and just to hear is no merit. A duck hears too”! Credo che l’opera d’arte abbia la facoltà potenziale di diventare “immortale”, cioè di continuare a emozionarci anche secoli dopo la sua nascita, in un contesto totalmente diverso; ma per essere, dapprima concepita e realizzata, poi scoperta ed apprezzata, questa facoltà richiede tempo e un certo impegno, Stravinski scrive “sforzo”, ma io penso a un’attitudine attiva (listen) piuttosto che passiva (hear). Neurologicamente, è un processo simile al circuito della ricompensa (reward): più l’attività è importante, più il sentimento di ricompensa è intenso. Inoltre, ci sono anche conoscenze e informazioni complementari che possono essere acquisite e arricchiscono così un’esperienza artistica, anche se l’esperienza non può essere ridotta a tali conoscenze.

È impossibile far coincidere queste esigenze con una politica di “likes” immediati, ma ci si può ispirare da altre discipline. Se ho sempre trovato l’esperienza del concerto insostituibile, mi è spesso sembrata troppo autarchica. Quali altre possibilità può avere una persona curiosa che non può andare al concerto, per fare un’esperienza artistica un po’ più vitale di un video su youtube, Facebook o instagram?
In Germania, e, probabilmente, anche in tanti altri paesi, ci sono sempre più progetti di mediazione (Vermittlung) culturale, che mirano a introdurre l’esperienza artistica a realtà e pubblici molto diversi, dagli studenti della scuola dell’obbligo agli adulti, e non soltanto come fruitori, ma, spesso, anche come attori. Perché un festival, un teatro dell’opera o una grande sala da concerti si occupano quasi esclusivamente delle proprie rappresentazioni e non riflettono su altri tipi di accesso vitale all’esperienza musicale? C’è, naturalmente, qualche eccezione, ma si tratta, per l’appunto, di eccezioni, spesso di portata molto limitata.

Manca, nella musica, la capacità di presentare il nostro lavoro in modo semplice e conciso, ma non banale. Nel 2002 cominciò in Francia un’emissione televisiva che fu trasmessa subito prima del film delle ore 21 di fronte a 6 milioni di spettatori, dal titolo “d’Art d’Art” (letteralmente, “d’Arte d’Arte”, è un’assonanza con l’espressione “dare-dare”, che si pronuncia nello stesso modo e che significa: molto rapidamente, di fretta). In poco più di un minuto, il presentatore analizzava gli elementi essenziali di un quadro importante in modo estremamente accessibile e profondo. Mi sono sempre domandato perché non sia ancora possibile parlare di musica nello stesso modo? Non può essere soltanto un problema tecnico, legato al fatto che la musica, a differenza di un quadro, è un’arte del tempo.
È anche interessante studiare come il pensiero scientifico contemporaneo, non sempre facile da capire e destinato ai pochi specialisti che hanno fatto anni di studi universitari, abbia creato delle passerelle verso un pubblico più generale per comunicarne i concetti essenziali. Attraverso una divulgazione intelligente, divertente, delle giornate introduttive in laboratori universitari, il pubblico riesce ad avvicinarsi a questo pensiero difficile, talvolta controintuitivo, senza complessi di inferiorità.

Oggi, molte persone hanno sentito parlare, ad esempio, della teoria della relatività o di quella delle corde (strings), di deep learning o intelligenza artificiale, del CRISPR (il coltellino svizzero per i geni) o di neuroni a specchio. Perché le stesse persone non hanno, forse, mai sentito parlare di Mauricio Kagel, Dieter Schnebel o Brian Ferneyhough (evito apposta di menzionare nomi, forse, più mediatizzati)? È un compito sicuramente nuovo per un organizzatore culturale, ma che diventerà sempre più indispensabile e che potrà anche trovare una sinergia efficace con i socials.
Penso che elargire le “vie” della creazione artistica ad altri mondi, eseguire non soltanto prime assolute, ma, al contrario, proporre e riproporre brani importanti recenti in tanti contesti diversi, capire che la curiosità non è una caratteristica di classe, ma fa parte delle più sublimi capacità di ogni essere umano, permetterà alla musica che facciamo di incontrare un pubblico che, forse, non è neppure cosciente che la sta aspettando e che questo incontro potrà emozionare.

Intervista a cura di Michele Sarti e Valerio Sebastiani

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