Ultimo aggiornamento 6 ottobre 2024, alle 11:51

Testimoni del presente: Luca Lombardi

di Valerio Sebastiani - 17 Aprile 2020

intervista a Luca Lombardi

Le voci dei compositori dentro e oltre la pandemia

Abbiamo stimolato diversi compositori a rispondere a tre questioni legate al presente, per indagare le caratteristiche, le contraddizioni e le peculiarità del fare (e pensare) musica in un momento di così radicale crisi globale.
Dopo esserci confrontati con Giorgio Battistelli, questa volta ad aver risposto alle nostre sollecitazioni è Luca Lombardi. Il Maestro Lombardi ci ha offerto una fotografia suggestiva della propria quotidianità, fatta di riflessioni che collegano la musica, soprattutto contemporanea, alle problematiche politiche e sociali del nostro tempo.

Maestro Lombardi, vorremmo partire dall’intimo rapporto con se stessi in questi giorni di forzata cattività casalinga: il compositore vive, per la natura stessa del proprio mestiere, una condizione di solitudine; tuttavia, a fronte della forzata reclusione, come cambia la percezione di questa solitudine, se cambia, e quali sono le riflessioni che emergono?

In verità non cambia molto. Normalmente cerco di comporre ogni giorno. Se non ho scadenze particolari dedico alla composizione 3-4 ore ogni mattina, riservando il pomeriggio ad altre attività (corrispondenza, scrittura di testi vari, in genere legati al mio lavoro compositivo, correzione di bozze ecc.). Questo avviene anche in questo periodo di isolamento forzato. Certo, avendo il lago e il bosco davanti agli occhi (abito sul Lago Albano, di fronte a Castel Gandolfo), mi pesa non potere ogni tanto andare a fare una passeggiata in riva al lago o nel bosco che lo circonda. Come non poter scendere una sera a Roma per incontrare amici o andare a vedere un film in lingua originale al Cinema Nuovo Olimpia. Ma queste sono le temporanee limitazioni che condivido con tutti.

Naturalmente questa inaspettata, inusitata e potenzialmente pericolosa situazione, dovuta alla pandemia da Covid-19, mi suscita molte e diverse riflessioni. Provo a formularne qualcuna. Per esempio sul rapporto con la morte. Non solo per la pandemia, ma anche perché quest’anno compirò 75 anni, è normale che io pensi alla morte, che potrebbe sopravvenire in ogni momento. Ma non si tratta di una riflessione nuova. Il pensiero della morte mi accompagna fin da quando ero giovane. Come per tutti i miei pensieri, le mie riflessioni, paure e speranze, in generale: per ogni esperienza esistenziale, se ne può trovare traccia nella mia musica. Senza andare troppo addietro nel tempo, penso a una mia composizione come E subito riprende il viaggio. Frammenti di Ungaretti per 5 voci del 1980. Tutti i bellissimi testi di Ungaretti hanno a che fare con la solitudine, col “Geworfensein”, per usare un felice termine di un filosofo che non amo affatto, con la fragilità, la caducità, la morte. Nel 1984, dopo la morte di mia sorella Giovanna, composi Nel tuo porto quiete. Un requiem italiano (su testo di Edoardo Sanguineti) per soli, coro e orchestra, e potrei continuare per gli anni seguenti, fino all’Opera in 3 atti alla quale sto attendendo da tempo e anche in questi giorni, Ofer (su libretto mio, da un libro di David Grossman: Una donna in fuga da una notizia, pubblicato in italiano col titolo A un cerbiatto somiglia il mio amore), che ha anch’essa a che fare con le questioni dell’abbandono, della separazione, della morte. Tuttavia, nonostante il tema della morte ricorra così spesso nella mia musica, non direi che essa sia fondamentalmente malinconica. Idealmente essa vuole riflettere i multiformi aspetti della vita. È espressione della mia volontà e della mia forza vitale, è il mio modo di esperire la vita, in tutti i suoi aspetti, di elaborarla, prendere posizione nei suoi confronti, fare i conti e venire a patti con essa.

Il pensiero della nostra fragilità e finitezza dovrebbe spingerci a distinguere tra ciò che è veramente importante, per noi e per i nostri simili. Lo facciamo? Quando la vita scorre normalmente, tendiamo a non pensare a quanto sia importante ogni singolo respiro che facciamo in condizioni di salute, di pace interna ed esterna (il mio pensiero va alla citazione posta da Beethoven nell’Agnus Dei della sua Missa Solemnis, all’inizio del Dona nobis pacem: «Bitte um innern und äusseren Frieden»). Un privilegio che non è di tutti. C’è chi, anche senza essere infettato da un nuovo e sconosciuto virus, respira a fatica. C’è chi, anche se in buona salute, deve difendersi, non da un microscopico virus, ma dai suoi simili, che, benché anch’essi in buona salute, gli fanno la guerra. Gli esseri umani sono veramente strani, per certi aspetti meravigliosi, per altri terribili; per certi aspetti intelligenti e creativi e, per quanto riguarda il nostro piccolo e modesto campo, la musica, capaci di creare capolavori mirabili, per altri stupidi e ottusi… Del resto, anche se facciamo cose straordinarie e usiamo quotidianamente strumenti straordinari (come il computer col quale sto scrivendo o il cellulare col quale ho appena risposto a una telefonata che veniva dall’altra parte del globo), siamo ancora gli esseri ignoranti e superstiziosi di secoli e millenni fa (che venerano, per esempio, un crocifisso in legno che nel Cinquecento avrebbe salvato Roma dalla peste). Il nostro cervello è fondamentalmente lo stesso dell’homo sapiens di 100.000 o 200.000 anni fa. Da allora abbiamo fatto tantissima strada, eppure siamo ancora al punto di partenza, perché ci comportiamo in maniera non essenzialmente diversa dall’uomo primitivo di allora. Non siamo infatti ancora usciti dalla “età della guerra”. Anche in questi giorni di “guerra” contro il virus, non si sono arrestate tante guerre che divampano in giro per il mondo, in cui uomini combattono altri uomini. Uomini per i quali altri uomini sono il “virus” da annientare. Così come uccidiamo – spesso in modo estremamente crudele – gli altri animali, per cibarcene o solo “per sport” (vedi la caccia e la pesca). E così come ci comportiamo verso i nostri simili e verso altri esseri viventi, ci comportiamo verso il pianeta sul quale viviamo, che rapiniamo e distruggiamo. Siamo consapevoli di questo? La maggioranza dei quasi 8 miliardi di uomini che popolano il nostro pianeta non lo è, e gran parte di chi lo è, tende, in condizioni “normali”, a rimuovere questa consapevolezza. Ma cosa significa condizioni normali? Le condizioni non sono più normali, e non da oggi, non certo da questa pandemia, che non è la prima né l’ultima ed è stata preceduta da tantissime altre pandemie, molte delle quali ben più perniciose (basti ricordare che, a causa della “febbre spagnola”, un secolo fa morirono 50.000.000 (cinquanta milioni) di persone (tra cui la gemella di mia mamma). Per il Covid-19 sono morti a oggi (11 aprile 2020) circa 86.000 persone. Premesso che ogni vita è santa (per la tradizione ebraica, chi salva una vita salva il mondo intero), i morti di questa pandemia sono, salvo errore, lo 0,17 % di quelli di allora. Perché dunque essa viene presa molto più sul serio di quella e di altre pandemie? Dipende certamente da vari fattori. Grazie all’informazione globale in tempo reale, siamo molto meglio informati su ciò che avviene in parti anche molto distanti da noi. Inoltre, grazie alla possibilità che abbiamo di spostarci a piacimento e rapidamente da una parte all’altra del globo, con noi si spostano anche gli agenti patogeni di tante malattie, conosciute e non. Ora, i progressi fatti nei solo cento anni trascorsi dalla “Spagnola” sono incomparabilmente maggiori rispetto a quelli fatti nel lasso di tempo che intercorre tra la Peste in Atene di 2500 anni fa, descritta da Tucidide e poi, alcuni secoli dopo, da Lucrezio (verso la fine degli anni Novanta chiesi a Edoardo Sanguineti di tradurmi alcuni testi del De Rerum Natura, nacque Lucrezio. Un oratorio materialistico, diviso in tre parti: Natura, Amore, Morte. Le prime due le ho composte rispettivamente nel 1998 e nel 2002, la terza, che descrive appunto la peste in Atene, attende ancora di essere musicata). Questi esempi dell’antichità mi fanno riflettere su una questione del presente: l’uomo ha sconfitto tantissime malattie una volta letali, tanto da sentirsi ormai pericolosamente vicino all’onnipotenza. Ma improvvisamente arriva un virus sconosciuto e il mondo sembra crollargli addosso. Eppure, non siamo mai stati in condizioni migliori per difenderci da una pandemia, sia pure provocata da un agente patogeno ancora sconosciuto. Ci si sta lavorando. È triste però vedere la mancanza di una vera e solidale cooperazione tra gli uomini – sia a livello nazionale che internazionale. Questa tragedia sarebbe invece un’opportunità di capire finalmente che, proprio perché il mondo è oggi tanto più piccolo di mille o anche solo cento anni fa, siamo tutti nella stessa barca e un’epidemia in un solo paese rischia di mettere a repentaglio, dal punto di vista della salute come da quello economico, il mondo intero. Altro che isolamento o “sovranismo” – questa potrebbe essere un’opportunità per un reale salto culturale: capire che, invece di inseguire salvezze individuali, dovremmo puntare a un governo mondiale, a una gestione comune delle questioni che riguardano tutti gli uomini. Ma quante pandemie e altre catastrofi ci vorranno ancora prima di capirlo?

Forse mi sono dilungato troppo su questioni che apparentemente non hanno attinenza col mio specifico lavoro, con la “solitudine” di cui parla la domanda. Eppure tutto è collegato. Come già accennavo, la consapevolezza della nostra fragilità non può non influire sul nostro agire, quale che sia il nostro lavoro.
Come compositori dobbiamo sforzarci di comporre una musica che abbia consistenza, valore, significato di fronte alla morte, o come direi meglio in tedesco: eine Musik, die vor dem Tod besteht.
C’è invece tanta frivolezza nel mondo della musica contemporanea. Invece di frivolezza, potrei usare altri termini: arroganza, cecità, hỳbris. Come lo è il fatto di attribuire giustificazione storica a una particolare corrente estetica piuttosto che a un’altra. Eppure, almeno dai Vier letzte Lieder di Richard Strauss in poi, dovremmo sapere che ciò che conta è la riuscita, la validità, il “peso specifico”, diciamo pure, soprattutto in questo caso: la bellezza di una composizione, e non un presunto “galateo storico”, secondo il quale in un certo momento storico sarebbero permesse solo determinate scelte e non altre. Se a suo tempo potevano sembrare inconciliabili, oggi vediamo che Strauss e Schönberg sono “compossibili”, così come lo sono, per esempio, Messiaen e Shostakowich, Prokofiev, Varèse e Respighi. Siamo immersi infatti in un “multiversum” (per dirla con Ernst Bloch) di mondi (musicali) differenti che scorrono a differente velocità. Ma qui comincerebbe un altro discorso, che meriterebbe comunque di essere affrontato.

Le strategie per il futuro prossimo: alla luce dello sconvolgimento globale attuale, con la consapevolezza di una possibile e ancor più profonda crisi economica all’orizzonte e i rischi e le paure di ritrovarsi in luoghi affollati, ora più che mai le sovrintendenze dei teatri e delle istituzioni concertistiche, dovranno mettere in campo strategie in grado di reagire alle difficoltà verso cui andremo incontro. Quali scenari si prospettano secondo Lei, Maestro Lombardi, e come riporteremo le persone nelle sale da concerto?

Non penso che cambierà molto. Epidemie e pandemie ci sono state lungo tutta la storia dell’umanità che, una volta passato il pericolo, è sempre tornata al suo solito comportamento. Nel bene e nel male (purtroppo soprattutto nel male). Ci sarà sicuramente una fase di passaggio finché non si saranno trovati gli antidoti, dopodiché conviveremo con il Covid-19, così come abbiamo imparato a convivere con i virus del vaiolo, della varicella, dell’influenza o, in tempi più recenti, dell’Aids. Personalmente, auspicherei una riflessione che, sebbene non abbia attinenza diretta con questa pandemia, possa essere da essa sollecitata. Mi riferisco a quanto dicevo più sulla frivolezza (o arroganza e via dicendo) del nostro comportamento musicale. Siamo nella condizione fortunata di potere ascoltare, dal vivo o in registrazione, tantissima musica dei secoli passati. Una ricchezza e un lusso immensi. Dovremmo però porre più attenzione alla produzione di oggi e di domani. I responsabili di teatri e istituzioni concertistiche dovrebbero essere molto più coraggiosi, audaci, inventivi. Dovrebbero porsi il problema della funzione della musica nella nostra società e dunque della committenza, incoraggiando i compositori a scrivere musica che interessi la gente, perché affronta questioni legate alla vita reale e non necessariamente alla cronaca. Tali questioni potrebbero essere anche quelle “eterne” e universali della vita, ma affrontate in modo inedito dai compositori di oggi. Se non lo fanno, non ci vengano a dire che è perché il pubblico non vuole ascoltare la musica contemporanea. Impariamo anche qui dalla Storia. Anche in passato serviva coraggio per presentare il nuovo. Ma quale dei nostri attuali direttori artistici commissionerebbe oggi un’opera di teatro musicale di dimensioni wagneriane, o un brano sinfonico di dimensioni mahleriane? Chi avrebbe oggi il coraggio di commissionare Le Sacre du Printemps, infischiandosene delle eventuali reazioni negative del pubblico? Servono naturalmente compositori in grado di creare opere che possano sfidare il tempo, ma serve anche chi, dotato di coraggio, immaginazione e fiducia nel futuro, gliele commissioni. 

Altra cosa che ritengo superata, e anzi dannosa, sono i festival dedicati esclusivamente alla musica contemporanea, soprattutto quando si privilegia un’unica tendenza estetica, operando una sorta di “apartheid” (di esclusione, appunto) nei confronti di determinati compositori e delle loro musiche (l’unico discrimine è la qualità; discriminare la poetica di un compositore significa non avere imparato nulla dalla storia – vedi quanto a questo proposto dicevo alla fine della prima risposta). Così facendo, non si colma il divario tra il pubblico “normale” e un pubblico di specialisti, perpetuando l’emarginazione, la ghettizzazione della musica del nostro tempo.

Il compositore: testimone del proprio tempo. Superata l’emergenza l’arte dovrà riuscire a essere un reale e necessario sostegno, se riconosciuta come “medicina dell’anima”, e il compositore una voce di riferimento; ma alla luce delle difficili condizioni di un mestiere non sempre riconosciuto, come riuscirà secondo lei, a farsi ascoltare?

La musica contemporanea, anche per colpa di tanti di noi, ha perso contatto con la gente, ha perso rappresentatività e viene percepita sempre meno come facente parte del tessuto culturale della società, di quel bagaglio culturale di base che ogni persona mediamente colta dovrebbe possedere. Nel corso della mia vita ho fatto sempre di nuovo un esperimento: ho chiesto a persone “di cultura” se conoscevano il compositore A o B o C, nominando loro compositori famosi che, nel nostro campo, ognuno conosce. Ebbene, non li conoscevano. Questo che cosa significa? Che queste persone “di cultura” sono ignoranti? Certo. Ma significa anche che la musica contemporanea, spesso anche nelle sue massime espressioni, non riesce a stimolare il loro interesse. E questa è responsabilità anche nostra. Nonché del nostro sistema scolastico, che fa poco o niente per avvicinare le nuove generazioni alla musica (cosiddetta classica) del loro stesso tempo. È evidentemente, vedi sopra, responsabilità anche dei direttori artistici. E lo è anche della maggior parte dei grandi solisti e direttori d’orchestra, oberati dal lavoro e sempre in giro per il mondo, con l’obiettivo principale di farsi un nome con l’ennesima interpretazione di un brano del passato. Cosa che scandalizzerebbe proprio gli autori di quelle grandi opere, che furono anch’essi una volta compositori contemporanei.
Tutto questo non c’entra nulla col corona virus? Può essere, ma ognuno di noi, confrontato improvvisamente con un tale pericolo potenzialmente mortale, potrebbe fare un esame di coscienza e interrogarsi su quale possa essere il suo ruolo qui e oggi: accettare pigramente, e diciamo pure vigliaccamente il solito andazzo, o cercare di fare qualcosa che abbia valore, dignità, consistenza, significato anche dinanzi alla morte.

Intervista a Luca Lombardi a cura di Michele Sarti e Valerio Sebastiani

Nota biografica: nato nel 1945 a Roma Luca Lombardi ha studiato nelle Università di Vienna e Roma, laureandosi con una tesi su Hans Eisler (pubblicata da Feltrinelli, Milano 1978). Per la composizione Lombardi è stato allievo di A. Renzi, R. Lupi e B. Porena, diplomandosi nel 1970 a Pesaro. Luca Lombardi ha vissuto a Colonia (1968-72), dove ha frequentato le lezioni di B. A. Zimmermann e Vinko Globokar e i “Kölner Kurse für Neue Musik” (1968-70) con Stockhausen, Pousseur, Kagel, Schnebel, Rzewski. Lombardi ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti, tra i quali il Premio SIAE per il Teatro Musicale nel 1993 (per l’opera Faust. Un travestimento) e il Premio “Goffredo Petrassi” nel 2006. Il Presidente della Repubblica tedesca Joachim Gauck ha conferito a Luca Lombardi nel 2015 la Croce al merito (Bundesverdienkreuz). È membro dell’“Akademie der Künste” di Berlino e della “Bayerische Akademie der Schönen Kunste” di Monaco di Baviera. Ha pubblicato per gli editori Schirmer, Moeck, Suvini-Zerboni e Ricordi. Attualmente i lavori di Lombardi sono pubblicati da Rai Com. Molti dei suoi scritti sono confluiti nel volume Construction of Freedom and Other Writings, a cura di Jürgen Thym (Baden-Baden, Valentin Koerner Verlag, 2006).

Articoli correlati

Classe 1992. Laureato in Musicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato Pianoforte presso il Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Ha frequentato i corsi del MaDAMM (Master in Direzione Artistica e Management Musicale) tenuti dall’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca. Attualmente è assistente alla direzione artistica dell'Accademia Filarmonica Romana e consulente scientifico della Treccani. Ha svolto attività di ricerca presso l’Akademie der Künste di Berlino e per conto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Milita in Quinte Parallele dal 2016.

tutti gli articoli di Valerio Sebastiani