Testimoni del presente
di Michele Sarti - 16 Maggio 2020
dialogo con Marco Tutino
Le voci dei compositori dentro e oltre la pandemia
Abbiamo stimolato diversi compositori a rispondere a tre questioni legate al presente, per indagare le caratteristiche, le contraddizioni e le peculiarità del fare (e pensare) musica in un momento di così radicale crisi globale. In molti hanno risposto: Giorgio Battistelli, Luca Lombardi, Giorgio Colombo Taccani, Vittorio Montalti, Francesco Filidei, Fabio Massimo Capogrosso, Fabio Vacchi e Lucia Ronchetti.
Questa volta il dialogo si è svolto con il compositore milanese Marco Tutino, col quale si è parlato dell’importanza dello scambio, della condivisione e della comunicazione, senza tralasciare un appello ai giovani compositori: non lasciatevi sedurre dalla comodità!
L’intimo rapporto con se stessi: il compositore vive, per la natura stessa del proprio mestiere, una condizione di solitudine; tuttavia, a fronte della forzata reclusione, come cambia la percezione di questa solitudine, se cambia, e quali sono le riflessioni che emergono?
Il compositore, lo sappiamo, è abituato a lavorare da solo, per forza di cose il suo è un mestiere solitario; è l’esecuzione della sua musica che apre allo scambio, alla relazione con altri individui. Se poi parliamo ad esempio del teatro, è evidente in quanti condividano la preparazione di un’opera: artisti, tecnici, amministrativi…Ma l’atto creativo è condotto in solitudine per definizione.
In questo periodo, direi è pressoché impossibile ignorare quanto accade fuori dalla finestra, anche se viviamo isolati. La situazione in generale, come sempre d’altronde, ci influenza, e quindi di conseguenza può influenzare la nostra arte.
Non esistono artisti impermeabili al loro tempo. Tutti gli artisti, tutti i compositori, tutti i creativi, hanno subito, anche inconsapevolmente, le influenze della società in cui operavano, seppur chiusi in casa nel loro salotto a scrivere musica. E il risultato, in tutti i suoi linguaggi, tradisce quest’influenza. E’ magari difficile poterne individuare gli effetti senza il tempo necessario per metabolizzare un processo: serve distanza.
Personalmente non posso dire come questa situazione abbia influenzato il mio lavoro, nello specifico i due pezzi che ho portato avanti: la mia prima Sinfonia (per un organico abbastanza ridotto) e poi una composizione per organo e orchestra. Posso solo dire di ritenermi piuttosto soddisfatto, e poco altro, anche perché ho sempre molta difficoltà ad ascoltarmi, a giudicare… Preferisco sempre parlarne poco e mantenermi distante, per quanto possibile. Oltretutto, una volta finito un pezzo ho la sensazione che non mi appartenga più.
Il ruolo del compositore di “musica contemporanea” o “colta” – termine triste ma che ci aiuta a individuare meglio di chi parliamo – è molto marginale. Con il suo lavoro però, Maestro Tutino, sembra proprio che lei voglia ritrovare una forma di contatto tra uomo e società…
Questo tema è per me fondamentale costituendo il problema di fondo della mia relazione con la musica e con il mio tempo, perché per me è sempre stato impensabile concepirmi isolato, distaccato da un ambito sociale in cui si opera. L’idea del compositore lontano dalla società non mi appartiene per carattere, per indole, o magari per ragioni psicologiche o di educazione. Per me l’arte è un mezzo di comunicazione, e vorrei coinvolgesse una rete di persone il più ampia possibile; in questo senso ho scelto specificatamente di occuparmi di teatro musicale.
Oggi la musica “colta” è sempre più separata dalla realtà, è sempre più un’enclave semi-privato, un circolo all’interno del quale si svolgono dibattiti estetici condivisi molto spesso dalle stesse persone. Questo aspetto diventa ancora più esplicito nell’ambito della fruizione. Questi due ambienti, che possono coincidere o meno, danno vita a uno spazio anch’esso estremamente limitato e limitante. Per me è impensabile condividere musica così, non mi interessa. Capisco che ci si possa sentire protetti, come in una famiglia allargata di organizzatori, critici, direttori artistici e ascoltatori, come in una sorta di comunità in cui si parla una lingua comune. Ma l’intera storia e sviluppo linguistico resta un fatto per pochi, e all’interno di questo circuito tutto si esaurisce facilmente. Solo all’idea sento mancarmi l’aria. E quindi, ogni giorno tento di ampliare il mio agire musicale e la mia concezione, pur combattendo una battaglia probabilmente del tutto inutile, perché persa in partenza (però le battaglie perdenti hanno un fascino assolutamente irresistibile!).
Cercare un atteggiamento di apertura mi ha portato però anche delle esperienze significative: ho un ricordo del Requiem per le vittime della mafia quale evento enorme e condiviso con persone che di musica magari conoscevano ben poco, ma che emotivamente si sentivano, e si sono sentite coinvolte. Penso che ancora oggi ci sia lo spazio per simili esperienze, ma bisogna lottare molto.
Sarebbe un errore incolpare il virus dell’attuale crisi: ha probabilmente accelerato dei processi in atto, compreso la morte di alcune forme già destinate al declino. Sono certo che dovremo sopportare delle conseguenze molto pesanti, ma d’altra parte dalle situazioni di difficoltà possono nascere opportunità favorevoli. Non faccio altro che dire ai giovani compositori di combattere per non rimanere in questo mondo autoreferenziale – che poi è larga parte della musica contemporanea – perché la chiusura non fa bene alla musica, non fa bene all’arte. Tutte le barriere sono negative.
Se il secolo scorso ha dato luogo a tantissime e molto diverse forme di sperimentazione musicale, oggi forse dovremmo dedicarci a sintetizzare i linguaggi: per andare avanti sarebbe importante, contemporaneamente, fare alcuni passi indietro…
Il compositore ha da sempre avuto una funzione di sintesi di tanti linguaggi preesistenti, perlomeno fino al disastro politico, sociale e culturale provocato dalla Seconda Guerra Mondiale. Poi, negli anni Cinquanta, è avvenuta una frattura ancora oggi non totalmente ricucita, nonostante i vari tentativi di ricostruzione. Frattura che ha provocato contraccolpi pesantissimi, in particolare nel ventennio tra gli anni Sessanta e Ottanta in cui alcuni compositori erano letteralmente proibiti in determinati ambienti; inoltre la circolazione delle partiture era molto limitata, questione oggi impensabile: basta aprire YouTube per avere a disposizione qualunque tipo di musica, o fare una ricerca online e poter accedere a centinaia di migliaia di partiture. Trenta o quarant’anni fa però, circolando solo pochi linguaggi, si poteva pensare che fossero anche gli unici. Ma la realtà era ben diversa. Per conoscere dovevamo veramente fare salti mortali.
Quello che oggi manca è più che altro una direzione, un senso di condivisione tra i compositori, la volontà di cooperare e non di chiudersi in piccoli gruppi. Non è più sufficiente concepire l’artista nella sua totale individualità; questa immagine è piuttosto anacronistica. Piuttosto sarebbe fondamentale lavorare fianco a fianco, cosa che difficilmente avviene: noto spesso la tendenza tra compositori a discriminarsi, a farsi la guerra. Quante energie sprecate in questi atteggiamenti… Fossero impiegate diversamente, potremmo andare molto avanti.
Si parla spesso del costruirsi un’identità, un’individualità di linguaggio, ma senza una realtà che permetta al compositore di confrontarsi è molto difficile…
Credo che il problema dell’identità individuale non debba essere anteposto a quello dell’assimilazione delle tecniche. L’eccesso di autoconsapevolezza non può che bloccare, inibire chi vuole condurre una ricerca sulla propria individualità compositiva. Si rischia di rallentare i processi creativi se si opera interrogandosi ogni giorno sulla propria identità. Se un compositore ha talento, e qualcosa di individuale da esprimere, riuscirà a delineare una propria personalità musicale. Bisogna pensare a come dotarsi delle giuste tecniche per incanalare le proprie capacità.
Sarebbe il momento giusto per immaginare luoghi collettivi in cui parlare di queste cose, dove scambiare esperienze, idee, sensazioni: seminari, scuole, corsi finalizzati all’espressione e la comunicazione tra compositori, musicisti e pubblico. In Italia non esistono realtà stabili come queste, ed è curioso che in quest’epoca di eccessiva comunicazione, proprio gli artisti abbiano smesso di comunicare. Potrà sembrare un paradosso, ma una volta quando era più difficile, dal punto di vista artistico c’era più scambio; in questi tempi l’ago della bilancia si è spostato: comunichiamo molto e rapidamente ma si tende a perdere aspetti forse più sostanziali della condivisione umana ed artistica.
Questo è qualcosa su cui riflettere, a partire dal teatro musicale: nonostante sia un’enorme fucina di idee, è necessario individuare la giusta alchimia per comunicarle.
Comunicazione, una parola spesso fraintesa: perché si rischia di associarla a una “facilità” di espressione per raggiungere i molti. Eppure è il senso di ogni linguaggio: trasmettere un qualcosa, e quello del teatro in particolare, raccontare una storia…
Credo che oggi la fruizione classica delle opere di teatro musicale stia vivendo una crisi: è fondamentale riorganizzarsi ripensando nuovi spazi, e nuove modalità di fruizione. D’altronde, i luoghi adibiti al teatro sono sempre cambiati a seconda adattandosi al contesto sociale, non dimentichiamolo… Quando il teatro da privato divenne pubblico, i linguaggi musicali si adeguarono di conseguenza cambiando.
Il teatro musicale in questo è molto utile, perché ti obbliga al compromesso con la scena e con parametri diversi da quelli puramente musicali. Non ho mai creduto in assoluto in una musica priva di un narrare, di un racconto. Scrivendo si subisce comunque l’influenza di elementi extra-musicali che dirigono il comporre, alle volte anche non in modo manifesto o consapevole. Direi anche che è difficile immaginare di astrarsi da un racconto, semmai può esistere un modo astratto di raccontare: il come fa la differenza. Il linguaggio musicale allora diventa il pretesto e non il fine. Io non scrivo musica per dimostrarti quanto sono bravo a maneggiare il suono, ma scrivo musica perché ti voglio accompagnare in una narrazione; al termine di questo viaggio entrambi, compositore e ascoltatore, avremo fatto un’esperienza.
Il soggetto della creazione dell’opera diventa allora il fare esperienza insieme. Non è più tutto concentrato sulla “feticizzazione” del linguaggio musicale. A questo punto la domanda da porsi risulta: verso quale fine adopero determinati linguaggi e tecniche? Così il comporre apre una finestra su un immenso panorama espressivo, dove l’entusiasmo è dato dall’impiego di numerosi idiomi per comunicare. Ma la cosa più affascianante è scoprire che attraverso questo procedimento una musica si arricchisce, ed è così che si inventano cose nuove.
In questo senso è diventato necessario porsi con un atteggiamento “laico” e aprirsi al campo sterminato delle possibilità odierne. Possiamo piegare alle nostre esigenze questa argilla e farne quello che vogliamo; un processo che adesso racconto per forza di cose in maniera sintetica, però da un punto di vista didattico e propedeutico è interessantissimo e ovviamente molto esteso.
Però a livello didattico, Maestro Tutino, sicuramente avrà riscontrato che purtroppo questo Paese non coltiva più una direzione. È fondamentale creare delle strutture che ora non ci sono.
Sarebbe fondamentale. Io nella mia vita ho avuto due esperienze importanti in questo senso. Tra il ‘98 e il 2002 realizzammo una serie di seminari a Verona, PrimaVerona, duranti i quali invitavo giovani compositori per intraprendere un mese circa di laboratorio insieme, discutendo, confrontandosi. Alla fine del mese, le composizioni elaborate andavano poi in scena. Un’esperienza meravigliosa dalla quale sono emersi compositori che hanno poi fatto bei percorsi professionali.
Un altro fatto per me molto significativo è stato fondare e portare avanti per alcuni anni la Scuola dell’Opera italiana a Bologna, che ancora esiste. Il senso dell’accademia era di affrontare tutte quelle figure professionali che ruotano attorno al teatro. Una bellissima iniziativa della quale vado ancora molto fiero. Però non basta: questi sono solo due esempi che dimostrano quante altre situazioni potrebbero nascere se le istituzioni avessero più attenzione e sensibilità per la cultura, e in particolare per la nuova musica – nemmeno lontanamente sfiorata nelle scuole pubbliche italiane o nei conservatori…
Le strategie per il futuro prossimo: alla luce dello sconvolgimento globale attuale, con la consapevolezza di una possibile e ancor più profonda crisi economica all’orizzonte e i rischi e le paure di ritrovarsi in luoghi affollati, ora più che mai le sovrintendenze dei teatri e delle istituzioni concertistiche, dovranno mettere in campo strategie in grado di reagire alle difficoltà verso cui andremo incontro. Quali scenari si prospettano secondo Lei, Maestro Tutino, e come riporteremo le persone nelle sale da concerto?
I teatri italiani avevano tanti di quei problemi prima, irrisolti e lasciati incancrenire per decenni che si troveranno in una situazione davvero difficile. Nonostante ciò, preferirei guardare alle opportunità che la situazione può offrire e speriamo di non dover assistere, nella peggiore delle ipotesi, alla chiusura di un teatro dopo l’altro. Sono certo che si farà di tutto per tenerli aperti e che si dovranno inventare nuove modalità di produzione.
Questo potrebbe essere positivo per i giovani compositori, perché è evidente che sarà difficile immaginare grandi produzioni, mancando i fondi e i parametri per realizzarle. Allora bisognerà inventare oggetti nuovi, concepiti proprio a partire dai cambiamenti sociali. E quindi: opere più piccole, con meno artisti coinvolti, meno vicinanza, meno assembramento, e probabilmente con drammaturgie che presuppongano la possibilità di non essere continuamente in scena a cantare l’uno accanto all’altro.
Ritiene davvero che il contesto musicale italiano sia pronto a reinventarsi?
In questi anni si sta aprendo, secondo me, una nuova fase del teatro musicale, nella quale quella tendenza alla sperimentazione per la sperimentazione, o all’arte per l’arte, così radicata in passato, sta perdendo radicalmente terreno. Il teatro musicale, per come lo conosciamo noi, si regge su un sistema troppo costoso per essere confinato in una dimensione di mera sperimentazione. Nel momento in cui devi proporre una tua visione al pubblico, devi anche preoccuparti delle modalità attraverso cui comunicarla.
Ovviamente non c’è mai la garanzia di essere graditi e di convincere. Oggi un atteggiamento di ostilità o indifferenza verso il pubblico non ha più senso.
Alla luce delle difficili condizioni di un mestiere non sempre riconosciuto, come riuscirà il compositore a farsi ascoltare? Dovrà essere critico, rischiando così di chiudersi alla società, oppure deve crearsi uno spazio nella società di massa e diminuire così la soglia critica della sua voce? I due poli della calamita non possono continuare a opporsi (o ad attrarsi), ci deve essere un’altra via…
Assolutamente vero. Chi scrive musica dovrebbe, intanto, cercare di non rapportarsi al ruolo del compositore nel passato perché i ruoli cambiano. Non c’è niente da fare, dobbiamo accettarlo. Oggi la mitizzazione del compositore è stata sostituita dalla quella dell’interprete, forse perché ritengono che chi compone musica sia già morto. Il risultato è esattamente la crisi di collocazione di cui parlate: o nel nichilismo assoluto, dove l’opposizione totale crea isolamento; oppure nell’assimilazione, dove il tentativo di esserci a tutti i costi produce una perdita di identità. Io penso che chi scriva oggi debba fare in modo di non cedere a queste “tentazioni” estreme, impegnandosi nella ricerca di un ruolo attivo, sincero, non arrogante. L’imperativo categorico è trovare una strada nuova che sia adatti al tempo in cui stiamo vivendo oggi. Ma si potrà incidere forse attraverso un’azione collettiva, radicale. Ciascuno di noi, da solo nella sua stanza, può far ben poco, se poi non esce e si confronta con il mondo.
Che consigli darebbe ai giovani compositori, in questo senso?
La prima cosa che mi verrebbe da dire ai giovani è questa: non lasciatevi sedurre dalla comodità! Perché la comodità, banale e tautologico dirlo, è comoda, e quindi pericolosissima dal punto di vista mentale. La zona di conforto va evitata come il diavolo, perché crea una sensazione di sicurezza, di forza nella quale ci si adagia e si finisce col limitarci, col fermarci. Quando si è giovani improvvisamente si riconosce in certi ambienti sociali un’altra famiglia allargata; questa famiglia a sua volta riconosce quello che fai, ti insegna che cosa devi fare, quali sono le regole. Tutto ciò è bello, comodo e rassicurante, ma non conduce a niente di davvero importante, se non a replicare quello che già esiste. I giovani devono avere il coraggio di emanciparsi, perché non è nella loro natura avere dei binari. In quell’età si può avere la spinta e le energie per farlo, dopo diventa sempre più difficile. E’ fondamentale rischiare e mettere in discussione le certezze acquisite. Ed è triste vedere invece come i giovani artisti, soprattutto nella musica, si lascino sedurre dal bisogno di certezze. Questa è il primo suggerimento: fate saltare i binari, createvi i vostri a costo di deragliare. Se vi dicono di fare una cosa, valutate, e se necessario fate l’opposto! E cercate di non avere tabù: siate anche immorali nell’arte. Con le proibizioni, con le regole, la vita dell’artista è un deserto. E poi incontrate persone. Comunicate, scambiate confronti con chi ha fatto esperienze e scelte diverse.
Intervista a cura di Michele Sarti e Valerio Sebastiani