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Matteo D’Amico

di Valerio Sebastiani - 15 Novembre 2019

comporre è introspezione

Matteo D’Amico (classe 1955) è un compositore cresciuto artisticamente nel contesto romano, dove ha assorbito per osmosi la musica di Goffredo Petrassi. Decisivo sarà per lui la frequentazione della classe di Donatoni alla Chigiana, esperienza che lascerà importanti e sostanziali tracce nella sua estetica musicale. Fortemente attratto dai testi letterari, e dalle potenzialità espressive che possono maturare nel rapporto tra testo poetico e musica, D’Amico non ha mai messo in discussione la possibilità che musica e parola possano lavorare in sinergia dirette verso un livello di estrema comunicabilità. La musica di D’Amico ha sempre rivelato per queste ragioni un perfetto connubio tra controllo formale ed espressività (mutuata da un forte senso di connessione con le avanguardie storiche). Nella lunga conversazione svoltasi nelle stanze dell’Accademia Filarmonica Romana in occasione del 56° Festival di Nuova Consonanza, abbiamo affrontato moltissime questioni, dalla sua visione personale della composizione, ai rapporti con i maestri, per approdare al suo ultimo lavoro: un melologo composto sui testi di Claudio Gregori, in arte Greg (esattamente, quel Greg, il chitarrista rockabilly, fondatore dei Latte e i suoi derivati e delle primissime Iene).

COMPORRE OGGI – FUNZIONE E DESTINAZIONE

Maestro D’Amico, inizierei questa nostra conversazione partendo da una panoramica sulla musica del nostro tempo. Come giudica la situazione a livello nazionale e internazionale della musica oggi, paragonata a quando lei iniziava a comporre?

Quando mi affacciavo al mondo della composizione nei primi anni Ottanta, sentivo intorno a me le persone che erano state protagoniste delle grandi stagioni degli anni Sessanta e Settanta, descrivere gli anni delle Neo-avanguardie come gli anni del vero rinnovamento del linguaggio, della sperimentazione. Anni in cui c’era nella società e nel pubblico un grande bisogno di questo tipo di ricerca musicale e artistica in generale, sulla scia del grande momento innovativo che era iniziato negli anni Cinquanta, sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale. È tutto partito da lì, i famosi anni di Darmstadt, e dall’arrivo subito dopo, negli anni 60, di John Cage. Da tutto ciò è nato un grande fermento che ha coinvolto la generazione precedente la mia. In quegli stessi anni già si vedevano le prime avvisaglie della controtendenza a questa lunga stagione di sperimentazione, cioè la nascita del Postmoderno e dei cosiddetti Neo-romanticismi. Al di là di ogni facile categorizzazione, era fortemente reale il problema della moltiplicazione dei linguaggi e delle tendenze (se pensiamo a un autore come Wolfgang Rihm che è uno dei fondatori del movimento Neo-romantico in Germania, ha poco a che vedere con i cosiddetti Neo-romantici che appartengono più o meno alla mia generazione, che si sono affermati nel corso degli anni ’80-90 come Lorenzo Ferrero o Marco Tutino). C’era inoltre chi proseguiva con grande baldanza e grande fiducia sulla scia del percorso tracciato dai cosiddetti maestri dell’avanguardia italiana, cioè quella generazione che partiva da Maderna, in seguito da Nono e poi i vari Donatoni, Manzoni, Togni, Clementi, qui a Roma soprattutto. Negli anni Ottanta e Novanta è venuta poi fuori una generazione come la mia, dove c’erano dei talenti altrettanto importanti, come quelli di Luca Francesconi, Ivan Fedele o lo stesso Battistelli e se ne potrebbero citare altri, persone che hanno fatto poi una carriera internazionale, ma che non hanno goduto di una sufficiente considerazione critica e quindi della stessa attenzione che era stata data alla generazione precedente.

Quindi il problema delle molteplici tendenze si lega alla loro ricezione da parte della musicologia e della critica, che devono aiutare il pubblico a comprenderle…

Assolutamente, è uno dei vari problemi. Mario Bortolotto, per esempio, il quale non ha mai preso in considerazione l’idea di scrivere qualcosa sulla generazione successiva a quella da lui studiata e in qualche modo categorizzata dal punto di vista critico, pure essendo negli anni Novanta una persona pienamente attiva e capace. La mia generazione si è insomma trovata ad operare, a crescere e ad affermarsi all’ombra del ricordo o dell’ancora presenza in certi casi di forti personalità come Berio, Donatoni o Manzoni. Credo che questo abbia avuto un’influenza anche sui risultati artistici che poi la nostra generazione ha cercato di perseguire, non avendo un forte appoggio, un seguito e un’azione di accompagnamento sotto tutti i punti di vista (organizzativo, critico, interpretativo, eccetera). Diciamo pure che solo oggi nel 2019 cominciano ad esserci dei festival monografici, degli eventi dedicati a persone come Fedele o Francesconi. Cosa ha portato tutto ciò dal punto di vista strettamente musicale? La nostra generazione, forse, non è riuscita a guadagnare a proprio vantaggio un’affermazione chiara di autonomia e di personalità rispetto al linguaggio della generazione dei maestri che l’avevano preceduta. Questa crescita all’ombra non è solo constatabile a livello di fortuna critica o di espansione comunicativa, ma è forse constatabile a livello strettamente musicale. Si possono tracciare cioè delle linee di continuità tra alcuni grandi della generazione precedente e alcuni grandi della generazione successiva. Penso per esempio alla linea Berio-Francesconi, penso alla linea Donatoni-Fedele. Il discorso musicale portato avanti dalla mia generazione si è quindi molto sviluppato, almeno nei suoi esponenti più accreditati, in continuità con il lavoro dei maestri e non è riuscito a imporre una propria personalità, basta pensare quello che è oggi l’immaginario del pubblico che ama la musica contemporanea, che è e rimane un pubblico di nicchia, degli organizzatori musicali, degli operatori culturali. Parlando più strettamente di musica direi che oggi, rispetto a quando ho cominciato io, è una situazione, e questo lo riconoscono tutti, estremamente più atomizzata, più parcellizzata, nonostante esista una vitalità piuttosto vivace e generalizzata. Di scuole direi che ormai è inutile parlare: gli indirizzi creativi sono ormai talmente divisi, rispetto a quarant’anni fa la facilità, di ascolto, di reperimento dei materiali musicali è enormemente aumentata. Oggi sta molto all’orientamento individuale: io dico sempre ai giovani di informarsi il più possibile, ma poi raccomando anche di cercare di fare i conti con sé stessi, perché duplicare ciò che si avverte nell’aria può essere fuorviante, perché viene a mancare la parte essenziale dell’attività del compositore, ovvero quella della elaborazione individuale. In questo senso il compositore, secondo la mia visione personale, continua ad avere un senso solo se offre una proposta personale a un interlocutore.

Esattamente, infatti credo che questa semplicità di accesso ai documenti sonori più disparati di cui stava parlando, ha sì sbaragliato totalmente l’idea di un linguaggio unitario, ma anche – e soprattutto – il rapporto con il fruitore. Che ruolo ha la musica colta (o libera dalle dinamiche di consumo) in questo panorama? In che conto bisogna tenere secondo lei la destinazione di un’opera musicale?

Moltissimo… Se questa domanda si rivolge a un carattere marcatamente di sociologia culturale è un po’ complessa la questione. Rimane un bel punto interrogativo sapere in che territorio cadono questi semi che lanciamo e in che modo vengono recepiti, che peso hanno sulla società di oggi. A occhio e croce mi viene da dire, per l’esperienza che vivo, che hanno poco peso, per lo meno il tipo di esperienza artistica che io e i miei colleghi perseguiamo. Non c’è dubbio che chi si dedica alla composizione oggi è una persona totalmente marginalizzata. È abbastanza evidente che dal punto di vista sociale il peso di questi nostri lavori sia molto limitato. Si pensi esclusivamente a questo: erano le classi dominanti che fruivano dell’opera lirica allora, come dei concerti a sottoscrizione; erano i nobili, erano gli alto-borgesi, La classe che insomma determinava l’indirizzo della società. E la musica aveva un alto valore per quella classe, in quegli anni. Oggi nessuna classe dominante vede la musica colta come qualche cosa di indispensabile al proprio status, alla propria vita, al proprio pensiero. Qualcuno la segue e qualcuno la sostiene anche, ma sono scelte limitate. Ma sono altre arti che hanno la parola guida nel trend culturale della società. Sono ancora tutto sommato la letteratura, il cinema e tutti i prodotti collegati alla televisione, alla nuova televisione privata. Ma tutto sommato anche l’arte figurativa continua ad avere ancora un peso, se non altro per la sua stessa natura di prodotto di mercato. L’arte figurativa avendo ancora un mercato, ha un’incidenza sulla società leggermente maggiore di quella che può avere la musica o il teatro musicale. Quindi da questo generale punto di vista sociologico, mi sento abbastanza pessimista.

Chiaramente la ricezione di una musica è determinata da molti fattori e adottare un punto di vista sociologico è sempre utile. Ma dal momento che al giorno d’oggi gli ambienti della musica contemporanea sono frequentati quasi esclusivamente da addetti ai lavori, che tipo di scelte estetiche vengono compiute secondo lei?

Se invece facciamo un discorso più tecnico, legato a come un compositore deve ragionare la destinazione della sua opera presso i luoghi degli addetti ai lavori, penso che il compositore deve veramente stare attento oggi più che mai a non perdersi dietro al proprio personale percorso, al proprio personale cammino che sente di dover fare nell’auto-chiarificazione e valutare ogni volta, caso per caso, lavoro per lavoro, che cosa va a fare e a chi questo lavoro può interessare. Un conto è scrivere un tipo di lavoro per l’opera, un conto è scrivere un lavoro per musica da camera, un conto se vado in orchestra a fare musica sinfonica. Secondo me la destinazione di un’opera musicale è molto importante ed entrano in gioco considerazioni perfino territoriali: se io propongo un’opera per bambini al teatro di Bari dovrò dimensionarmi e orientarmi, se io compongo un’opera di teatro musicale per il festival di Friburgo sarà completamente un’altra aspettativa da parte del pubblico. L’aspettativa del pubblico va tenuto in conto. Pensare la composizione solo ed esclusivamente come il frutto di un proprio percorso non è solo sbagliato, ma è esagerato e può portare a degli errori e a degli sprechi di energia. Se tu ti presenti con un tipo di prodotto elaborato con una certa intensità personale, con un certo grado di complessità che in quella situazione non è richiesto, è inutile che tu ti poni un problema di una scrittura dell’orchestra estremamente cesellata, raffinata, articolata con tutti i calcoli… Insomma, bisogna stare attenti ai carichi comunicativi nell’oggetto che si sta producendo. Mentre se tu scrivi un trio per la Biennale di Venezia a quel punto è chiaro che puoi elaborare e scendere nel dettaglio finché vuoi. Perché quello è il prodotto che va, anzi in un certo contesto più è complesso più è denso e più può offrire soddisfazioni.

I MAESTRI E GLI AFFINI

Matteo D’Amico quindi ci pone di fronte a una concezione camaleontica ed eterogenea della destinazione di un’opera, che sembra quasi scavalcare il soggetto individuale dell’autore, per porsi in maniera dialogica e orizzontale con l’interlocutore. Questa tendenza deriverà forse dai suoi studi con singolari personalità della musica contemporanea?

Maestro D’Amico, Lei ha frequentato i compositori più disparati – ne cito tre, credo i più importanti: Petrassi, Donatoni e Irma Ravinale, un’accademica di Santa Cecilia, finita vergognosamente nel dimenticatoio, tutti e tre con linguaggi musicali estremamente diversi e con i quali ha intrattenuto diversi rapporti, didattici e amicali. Cosa ha assorbito rispettivamente da questi maestri?

Irma Ravinale è stata la persona che più di tutti mi ha fatto analizzare le partiture di Petrassi, dal quale non ho potuto avere nemmeno un’ora di lezione, ma che ho comunque avuto la fortuna di assorbirne la musica. E Irma Ravinale in questo senso è stata la continuazione naturale dell’esperienza della scuola romana. Ma prima di arrivare a lei, mi piacerebbe parlare di altre due figure imprescindibili, che la hanno preceduta nella mia formazione. Io ho iniziato a studiare con una musicista di grandissimo valore, ovvero Barbara Giuranna, compositrice e insegnante in Conservatorio per una vita ed è stata colei la quale mi ha fatto muovere i primi passi nell’armonia e nel solfeggio, addirittura. Il grande merito che ha avuto questa didatta, è stato di quello di fornirmi un’impronta, non di carattere stilistico, filtrato attraverso la sua musica, ma di una vera e propria sensibilità verso una sensibilità armonica di fondo. Da lì sono passato a studiare con un insegnante molto rigoroso e severo, Luigi Andrea Gigante, un musicologo e musicista che mi aperse un po’ a tutta la trattatistica europea. Poi andai da Turchi, e fu una vera e propria imbarcata di racconti sulla musica, di esperienze di vita vissuta, però non amava insegnare la tecnica compositiva, forse perché era proprio alla fine della sua carriera, ed era molto amico di Petrassi, che considerava una sorta di fratello “d’armi”!

Quindi anche Turchi fu una chiave di accesso per conoscere Petrassi.

Precisamente, è stato un compositore con cui ho dovuto fare i conti a più riprese. Tuttavia, quei due anni sono stati caratterizzati anche da uno studio molto intenso dei compositori del Novecento “storico”, come Bartók e Hindemith. Finalmente passai alla Ravinale, perché Turchi andò in pensione, e con lei affrontai in maniera veramente più approfondita questa “modernità cristallizzata”, incarnata dalla musica di Petrassi. Uscito dal Conservatorio non avevo nemmeno lontanamente iniziato una militanza nella musica contemporanea, per cui andai da Donatoni e fu un vero e proprio tuffo nella reale contemporaneità, un tuffo durato tre anni per il quale impiegai moltissime energie: feci i conti con i miei limiti e aprii nuove prospettive sia sulle tecniche, che sulla concezione stessa dell’essere compositore.

Ovvero?

Da Donatoni ho imparato non solo l’atteggiamento verso un modo di comporre aggiornato, che potesse rispondere alle necessità del presente, ma anche una visione etica del lavoro del compositore, quasi monacale, scevra da qualunque ambizione verso la creazione del capolavoro ad ogni costo, una pulsione che, secondo lui, andava a determinare un enorme (e inutile) grado di competitività tra gli alunni. Quando si ricevono delle indicazioni di questo tipo e ne fai poi tesoro, riesci a diventare sincero verso te stesso, abituandoti a non inseguire chimere e a non farti fuorviare, e a non chiedere neanche troppo da te stesso. E questo è un atteggiamento che io ho definito “etico”, che mi è stato veramente di grande aiuto nei periodi di crisi e di difficoltà e che tutt’oggi mi guida e mi sostiene. Poi c’è chiaramente un lato tecnico dell’insegnamento di Donatoni, grazie al quale ho trascorso un’intera stagione della mia vita componendo pezzi caratterizzati da una temperatura che oggi non credo riuscirei a replicare.

A quali lavori sta facendo riferimento?

Fra i primissimi lavori di quel periodo ne ricordo uno in particolare, fatto durante i corsi alla Chigiana. Rinunciai a tenere i saggi di fine anno e composi questo pezzo importante per soprano e orchestra da camera su delle liriche di Michelangelo Buonarroti (Tre Frammenti, 1982), che ottenne dei notevoli riscontri. E devo dire che possiede, ancora oggi, una temperatura di scrittura e una forza notevole, derivata tutta dall’influsso di Donatoni.

Donatoni ritorna con frequenza nei ricordi degli anni della scuola e della formazione, ma l’imprimatur di questa grande personalità non può essere la sola chiave per interpretare il linguaggio così storicamente connotato di D’Amico.

Ci sono invece degli autori del Novecento storico con i quali sente una particolare affinità? Provo a suggerirgliene un paio io, i cui semi penso di aver individuato in certa sua musica: Stravinskij e Berg…

Direi che è un giusto suggerimento! Berg mi ha sempre appassionato moltissimo, perché è un musicista alla ricerca di sé stesso. Mentre Stravinskij è come un Re Mida, che tutto quel che tocca diventa oro, Berg è una persona dietro la quale puoi osservare un lavoro interiore, una sofferenza che ti affascina e che senti vicina a te. Magari si può notare che in certe sue composizioni – a parte il Wozzeck che ritengo perfetto sotto ogni punto di vista – come la Lulu o la Lyrische Suite emergono dei punti estremamente contorti, arrovellati e lì capisci che Berg è un magma incontrollabile, che continua a muoversi, e che risulta ancora oggi molto affascinante. Io amo – e invidio – i compositori che riescono a mantenere una bella temperatura di scrittura, rimanendo interessante, articolata, riuscendo a coniugare tutto ciò con un portato espressivo chiaro e che non si perdono nella ricerca fine a sé stessa. Un compositore deve usare le tecniche di scrittura per comunicare e per compiere un percorso di introspezione, sincero e approfondito. E questo, oggi, a malincuore non lo percepisco tra i giovani compositori.

 COME NASCE UNA COMPOSIZIONE?

Maestro D’Amico, indagati i suoi passati, torniamo alla quotidianità del suo lavoro di compositore. Cos’è che la spinge principalmente a comporre? Sono sollecitazioni esterne, determinate occasioni, oppure idee estemporanee, ispirazioni fulminanti?

Io devo essere sempre stimolato da impulsi esterni, assolutamente. Che essi siano richieste specifiche come una commissione, o anche testi letterari che mi suggeriscono qualcosa. Ma ultimamente il mio modo di lavorare ha cambiato leggermente direzione. In questi ultimi quattro o cinque anni, trascorsi lavorando alla Filarmonica Romana, ho ripreso a lavorare a fondo sulla musica da camera con organici classici, tornando al problema della scrittura, della forma, della dialettica del discorso, del processo compositivo. Problemi questi che avevo abbandonato dopo molti anni trascorsi sui testi letterari (una sezione enorme del mio lavoro compositivo dedicata a opere, melologhi, musiche di scena e quant’altro). Tornato a ragionare sulla scrittura per musica cameristica sono usciti fuori tre o quattro pezzi secondo me interessanti, il Trio del 2014 per la Biennale di Venezia, un Quartetto per trio d’archi e pianoforte e il mio primo vero Quartetto per archi, eseguito alla scorsa stagione della IUC (Scène d’Herodiade). Normalmente sì, ho più facilità a mettermi a lavorare su qualche stimolo esterno, se devo essere sincero, fa parte proprio della mia natura.

Quindi per lei il rapporto con i testi letterari è estremamente importante, strutturale oserei dire. Ma il testo letterario, in ultima analisi, è un pretesto per comporre, oppure testo letterario e musica procedono sinergicamente nella definizione della composizione?

La mia musica nasce strettamente per (e con) il testo. Nella mia concezione il testo letterario offre sia l’idea generale, che i riferimenti particolari: non è mai un pretesto che adopero per prendere poi strade separate dal punto di vista musicale. Se devo musicare una serie di poesie, queste poesie mi possono dare sia il quadro generale della distribuzione di tutta la materia, l’atmosfera generale e poi però io mi lascio guidare dal vecchio trucco del madrigalismo: l’immagine che suscita un determinato passo di una poesia e la direzionalità che può fornire all’andamento musicale. La cosa bella da fare è che dalle suggestioni di singole immagini possano nascere delle idee musicali che abbiano una loro vita autonoma, che si incastri con quella delle immagini del testo. Chiaramente quando si applica la musica a un testo questa deve riuscire ad amplificarne il senso, a valorizzarlo, mantenendo però una sua identità strutturale. È chiaro che se la musica diventa troppo illustrativa, o didascalica allora diventa inutile. Questo è il rischio che si corre per esempio con la forma del melologo, che io amo molto. Lì bisogna trovare il modo per far sì che il testo continui a vivere, lì ancor di più: perché quando tu canti un testo, il testo si sublima. Se lo reciti, si pone a chi ascolta in tutta la sua organicità semantica, l’ascoltatore ne coglie tutto, la sintassi, il ritmo, il senso.

E la musica che grado di intervento ha quindi? Cosa può fare?

Tutto e niente! Certe volte è bene che si nasconda sotto il testo, non è detto che sempre deve proporre qualcosa di suo. In certi momenti è opportuno che riesca a far uscire qualcosa di sottinteso dal testo e che superficialmente magari non viene fuori. Ma a me piace molto anche lavorare sul bianco e sul nero, sulle pause, sui silenzi, lasciando il testo libero in certi momenti e creando una sorta di gioco psicologico con l’ascoltatore.  Uno dei miei poeti preferiti, che mi ha fatto scoprire lo studio in profondità delle possibilità musicali della parola, è stato Stephane Mallarmé, sulle cui poesie ho sempre lavorato tantissimo, proprio perché si tratta di un autore molto complesso, molto criptico e che stimola molto la creazione. Però quello che mi ha sempre affascinato in lui è che dopo un primo momento di respingimento, si comincia piano piano a entrarci dentro e a farsi catturare dal suono di queste poesie.

Che lei musica sempre in francese

…rigorosamente in francese, perché i contenuti sono legati strettamente alla sonorità della lingua, sono contenuti oscuri, complicati e se vogliamo anche eccessivamente decadenti e lambiccati. E poi mi ha sempre dato questa impressione di travaglio interiore, di ebollizione, di qualche cosa che lui aveva dentro e che però comandava con grande autocontrollo formale. Questo è ciò che ho sempre trovato di interessante nel lavoro di Mallarmé: una padronanza di ferro sul ritmo del verso, sull’immagine e sulla forma e un contenitore sotto che bolle, pieno zeppo di contraddizioni.

INTORNO A “COLAZIONE DI LAVORO”

Dal momento che il nostro colloquio si sta svolgendo in occasione della prima assoluta (17 novembre) al Festival di Nuova Consonanza di “Colazione di Lavoro”, un melologo sui testi di Claudio Gregori (in arte Greg), penso che a questo punto potremmo parlare della composizione. Perciò vorrei chiederLe: come avete montato la selezione dei racconti da musicare?

Il lavoro è proceduto sinergicamente, grazie anche all’intervento del direttore d’orchestra Gabriele Bonolis. Volta per volta selezionavamo i brani direttamente dalla raccolta di racconti (intitolata “AgGregazioni”) inviataci da Greg e poi passavamo a stilare una scaletta dei nostri personali desiderata. Poi abbiamo cominciato a mescolare le scalette di ognuno dei tre; in seguito abbiamo cominciato a capire che potevamo prendere due strade: o montare una selezione con un carattere più ironico e leggero, oppure affidarci a quei racconti dai toni più scuri, tristi e tetri. Allora abbiamo cominciato a discutere su quale indirizzo dare. Alla fine è stato lo stesso Greg a suggerirci di impostare come un’evoluzione, passando da un’atmosfera iniziale più ironica e divertita e chiudere con un pensiero sulla morte, sempre impostato in modo un po’ ironico-grottesco. La fine del giro di consultazioni è arrivata quando ho compiuto una scelta di sistemazione nell’ordine sequenziale dei brani, pensando di mettere il racconto lungo al centro (Lo scrittore), in modo che il tutto fosse ben equilibrato.

Dalla partitura emerge un rigore logico-costruttivo molto evidente, nonostante ciò si nota un evidente andamento drammatico-espressivo molto aderente al testo, condotto attraverso elementi minimi e disegni quasi idiomatici. Effettivamente questo binomio “ragione ed emotività”, è una caratteristica che anche altri musicologi hanno evidenziato nella sua musica. Le andrebbe di raccontare quali passaggi di questo melologo sono più caratteristici, da questo punto di vista?

La maggior parte dei racconti li ho musicati effettivamente seguendo questo principio, asciugando molto le gli agglomerati degli strumenti, cercando un’aderenza sempre diretta con il testo. Ma il punto più curioso che mi sono trovato ad affrontare, e che è meritevole di una menzione e di un approfondimento, è stato proprio questo momento centrale de Lo scrittore, lì ho adottato un metodo di lavoro per me inusuale, che raramente credo di aver adottato per altri lavori. Ho composto come delle parti staccate, ho lavorato pensando ciascuno strumento associato a un suo modo di essere, con delle sue figure, dei suoi ritmi e ho cominciato a lavorare orizzontalmente, facendomi una sorta di cesta, con tutti i materiali dei singoli sette strumenti, dividendo perfino il pianoforte in due parti, dal momento che mi serviva un settimo strumento per via della struttura narrativa, in cui era scritto il racconto. Questo, infatti procedeva come una sorta di scatole cinesi, strutturate su vari livelli narrativi. Un livello base A, in cui compare l’autore Claudio Gregori; poi un livello B, ovvero il livello in cui noi leggiamo nel racconto ciò che uno dei due protagonisti scrive dell’altro protagonista; poi un ulteriore livello C, in cui il secondo protagonista scrive impressioni sul primo protagonista, il quale nel frattempo procede con la sua personale narrazione sul deuteragonista. Ma Greg a un certo punto nella parte centrale e finale del lavoro crea questo gioco di interscambi continui tra i vari livelli narrativi, fino ad arrivare a sette livelli, a sette stratificazioni. Perdere il conto delle varie stratificazioni durante la lettura è giocoforza una necessità, perché la storia ha anche un suo sviluppo orizzontale, che si deve poter seguire.

E lei in musica ha realizzato in qualche modo questa stratificazione di piani narrativi?

Certamente, infatti ho preso spunto da questo accumularsi di livelli di racconto e ogni addentrarsi in un nuovo livello implicava l’ingresso di un nuovo strumento. Allora succede che nella parte centrale del racconto noi abbiamo la massima densità degli strumenti. Naturalmente non ho potuto rispettare questo crescere e diminuire del numero degli strumenti alla lettera. A un certo punto ho cambiato il codice di scrittura, lasciandomi un certo grado di libertà. Avendo costruito una grande cassetta degli attrezzi timbrici (come affermavo poco fa), ho iniziato a costruire la partitura senza preoccuparmi degli incontri verticali tra gli strumenti. Ogni tanto ho dato qualche correzione, perché tutti questi materiali agiscono su una modalità scalare grossomodo comune, ci muoviamo su una scala che potrebbe essere una specie di Sol minore o Mi bemolle maggiore, diciamo che l’ambiente armonico è quello. Sovrapposizioni di tre, quattro suoni, elementi ritmici della più diversa natura, salti ampi, pizzicati, tutto è impiegato in queste due scale. A un certo punto mi sono divertito nel vedere cosa succedeva nel sovrapporre un po’ a caso. Poi naturalmente ti devi mettere un pochino alla finestra e apportare delle correzioni e degli aggiustamenti, se no può essere che la cosa ti si ritorca contro. In questo grande racconto io non ho seguito il modo di lavorare abituale, in cui seguo passo passo il testo, inventando ed elaborando delle idee musicali, dei contrasti. Qui non ci sono contrasti, perché il carattere di questi materiali orizzontali secondo me alla fine è simile. Potrei descriverlo con una sorta di vago sapore un po’ “swingato”, che bene si adattava all’ambiente un po’ americanizzato di questo racconto. In questo senso è stata un’esperienza nuova.

Valerio Sebastiani

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Classe 1992. Laureato in Musicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato Pianoforte presso il Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Ha frequentato i corsi del MaDAMM (Master in Direzione Artistica e Management Musicale) tenuti dall’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca. Attualmente è assistente alla direzione artistica dell'Accademia Filarmonica Romana e consulente scientifico della Treccani. Ha svolto attività di ricerca presso l’Akademie der Künste di Berlino e per conto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Milita in Quinte Parallele dal 2016.

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