Intervista a Francesco Lanzillotta
di Michela Marchiana - 16 Luglio 2018
Francesco Lanzillotta è un grande nome per quanto riguarda la direzione italiana. Nominato da poco, per il prossimo triennio, direttore musicale del Macerata Opera Festival (che avrà inizio tra pochissimi giorni), già con un radioso percorso alle sue spalle.Noi di Quinte Parallele abbiamo avuto l’onore e il piacere di intervistarlo, ed io, in prima persona, di collaborarci e suonarci insieme, in un’esperienza meravigliosa da ricordare.
Lei ha studiato e lavorato in diversi continenti, possiamo citare New York, Madrid, Tokyo, Milano e Roma. Venendo a contatto con mentalità molto diverse, avrà sicuramente avuto modo di vedere diversi approcci e modi di vivere la musica: ci sono grandi differenze che ha notato fuori dall’Europa dal punto di vista del pubblico e degli esecutori? Ci sono invece punti di contatto? Cosa l’ha colpita, del modo di vivere la musica “europea” fuori dall’Europa?
Certamente ci sono differenze, parliamo di culture radicalmente diverse dalle nostre. Pensiamo al Giappone, la musica viene vissuta con grande entusiasmo, quasi ogni concerto o rappresentazione lirica fosse un evento imperdibile. D’altronde è per loro un mondo in continuo divenire, una scoperta quotidiana e costante. Di certo la musica “colta” occidentale è la ricchezza che ci portiamo come bagaglio enorme da condividere; sarebbe un errore però pensare che ne siamo i proprietari, casomai ne siamo i custodi. Il modo in cui lavoriamo deve essere estremamente rispettoso dei musicisti che incontriamo, anche se il loro “vissuto” musicale non può essere equiparato al nostro.
Detto questo non si può non notare come ormai la preparazione degli strumentisti, in qualsiasi parte del mondo ci troviamo, sia sempre più alto e consapevole.
Lei sarà direttore musicale del Macerata Opera Festival per il prossimo triennio, che progetti ha per questa molto importante istituzione? Ci può anticipare qualche scelta sui futuri repertori o interpreti? Nell’organizzazione di un Festival del genere, quanto influisce il gusto personale e l’affinità che un direttore ha con un compositore?
Parlare di progetti, titoli o cast futuri non posso proprio, ci sono talmente tante variabili da considerare. Le posso però dire che ci sono dei principi portanti su cui io e la direttrice artistica Barbara Minghetti stiamo lavorando: valorizzazione del territorio, lavoro constante con le realtà giovanili.
I cantanti li scegliamo seguendo diversi criteri: nomi in carriera, cantanti che stanno iniziando un percorso importante e giovani scoperte. In questo le audizioni ci aiutano ma non bastano. Per alcuni c’è bisogno di più tempo oltre i quindici minuti canonici, quindi, se trovo una voce interessante che non mi ha convinto del tutto ma in cui intravedo potenzialità, la seguo in teatro, oppure organizzando sessioni di lavoro specifiche sul ruolo che ho in mente.
Il gusto personale influisce certamente sul titolo che dirigo, ma è un festival e sarebbe troppo restrittivo programmare solo in base alle preferenze di una persona.
Nella sua carriera una parte importante è legata all’opera lirica. Quanto, secondo il suo gusto personale e il suo modo di dirigere, conta l’attorialità? Sappiamo che Verdi la preferiva anche a scapito di una tecnica perfetta. È d’accordo con il buon cigno di Busseto e quindi preferisce la resa drammatica e la recitazione con qualche imprecisione tecnica o il cantante può stare fermo in scena purché il do di petto sia limpido cristallino e perfetto?
È chiaro che la risposta è scontata. Però dovremmo anche porci la domanda “cosa significa resa drammatica?”.
Io sono convinto che sia essenziale lo studio del testo scritto, non semplicemente imparando a memoria o controllando come viene armonizzata la parola “amore” o “rabbia” etc.
Significa invece studiare le caratteristiche dei versi, settenario, ottonario, decasillabo e via discorrendo e costruire il proprio studio analizzando il rapporto simbiotico fra frase musicale e verso scritto appunto. Questo è l’inizio indispensabile alla comprensione della partitura, poi inizia il lavoro sull’interpretazione.
Volendo fare un’affermazione provocatoria, ormai l’Opera è il regno dei registi. Cosa ne pensa di interventi di decostruzione molto marcati e di letture alternative delle opere? Fino a che punto ci si può spingere in questa sfida tra passato e presente? Quanto si può far pesare la propria individualità su quella del compositore?
È un problema che non esiste. Ci sono registi bravi e meno bravi, il resto non conta.
Nel lavoro di un direttore ha un ruolo centrale la comunicazione. Quando si parla con gli orchestrali bisogna spiegare e far eseguire ciò che il direttore ha pensato e scelto, qual è il suo stile? Cosa ritiene efficace per portare avanti un’idea con un gruppo di artisti e ottenere una resa ottimale? Ha degli ispiratori tra i maestri del passato per quanto riguarda il modo di rapportarsi all’orchestra?
La direzione d’orchestra è lo specchio di ciò che siamo: se fingi di essere diverso di fronte a tante persone vieni immediatamente scoperto, nessuno si fiderebbe di chi non è trasparente. Non succede nel quotidiano e l’orchestra è una piccola società in miniatura.
Il rispetto per le persone con cui si lavora è il principio fondante su cui si basa il nostro lavoro; rispetto significa anche arrivare alle prove preparati, avere le idee chiare, gestire le prove senza perdere tempo e avere in testa un piano di lavoro che prevede diverse tappe.
Di ispiratori ce ne sono tantissimi, l’importante è non copiare nessuno, sarebbe come rinnegare la propria natura.
Meglio essere noi stessi che la copia inesatta di un grande direttore.
Michela Marchiana