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Conversazione con Nuria Schoenberg Nono

di Valerio Sebastiani - 13 Maggio 2020

Nuria Schoenberg Nono è forse una delle testimoni viventi più importanti della storia del Novecento musicale europeo e statunitense e, come tale, ha sempre operato con caparbietà e determinazione per tenere viva la memoria del padre, Arnold Schoenberg e del marito, Luigi Nono (abbiamo celebrato il trentesimo anniversario dalla morte con un ritratto, qui), attraverso le rispettive Fondazioni (l’Arnold Schoenberg Center di Vienna e la Fondazione Archivio Luigi Nono ONLUS). Per questo motivo (e tanti altri), abbiamo ritenuto fondamentale affrontare con lei, in questa conversazione, entrambi i punti della sua importante attività divulgativa e di conservazione della memoria della storia della musica novecentesca, disegnando così un memoriale, a tratti affettuosamente inedito, della propria vita con queste due personalità.

LA VITA A LOS ANGELES CON MIO PADRE: ASCOLTI MUSICALI, TENNIS E ARTIGIANATO

Vorrei partire dai tempi di Los Angeles, forse il periodo più remoto che lei ricorda della vita al fianco di suo padre. Cosa si ricorda di quegli anni? Alcuni studiosi parlano di una Weimar a Los Angeles, composta dagli artisti e intellettuali emigrati dalla Germania che lì si erano stabiliti, possiamo fare il nome di Adorno, di Thomas Mann, di Brecht. Eisler invece non era a Los Angeles, però corrispondeva frequentemente con suo padre…

Fino ai sedici anni la mia vita era uguale a qualunque altra bambina o ragazza che viveva negli Stati Uniti d’America in quei tempi: andavo a scuola, studiavo, se veniva qualcuno a casa lo potevo andare a salutare, perché magari ero in giro per casa. Conoscere certe personalità era tutt’altra storia! Con Adorno mio padre non parlava molto, con Eisler era legato, sì. Ma per me erano soltanto delle immagini riflesse, di cui magari mio padre parlava ogni tanto. La polemica famosissima con Adorno e Thomas Mann riguardo il Doktor Faustus lo infastidì molto, per esempio. Ma questo è già ampiamente noto. Poi è vero, l’idea di una comunità ricostruita a Los Angeles è abbastanza fantasiosa. Mio padre al massimo comunicava con alcuni intellettuali, oppure si incontrava con ebrei americani per aiutare altri ad emigrare. Ogni domenica, poi, venivano in visita molti musicisti, altri professori dell’università e studenti.

Qual era il paesaggio sonoro di casa sua? Che musica ascoltavate?

Io ho preso lezioni di violino e pianoforte per pochissimo tempo perché ero completamente negata e mio padre era contentissimo quando non suonavo! Il mio rapporto diretto con la musica è durato poco. Non c’erano tanti dischi in casa mia, se arrivava un disco particolare di musica di mio padre veniva sicuramente suonato nel giradischi. Ricordo che i miei genitori mi regalarono un disco di Valzer Viennesi, e poi avevamo dei dischi per bambini. Dischi un po’ propagandistici, pubblicati durante la Seconda Guerra, che raccontavano la storia degli Stati Uniti. Questo è il mio ricordo legato all’ascolto dei dischi. Poi un ricordo molto vivido e importante: alla radio dalle ore 20:00 alle 22:00, tutte le sere, trasmettevano un programma di musica classica, per questo arrivava un programma nella posta ogni settimana, sponsorizzato dalla compagnia del Gas. Quando c’erano delle musiche che a mio padre interessavano allora le si ascoltavano tutti insieme, seduti davanti alla radio (parliamo di tempi in cui ancora non c’era la televisione). Qualche volta mio padre allora portava con sé in salotto le partiture e seguivamo insieme la musica. Così ho imparato a star seduta vicino a mio padre e a guardare con lui la partitura. Per me era una cosa molto bella, non ero in grado di leggere bene tutto, però seguire sì. Questi erano gli unici momenti in cui condividevo musica con mio padre. Non andavamo praticamente mai a concerti dal vivo, quando ero più piccola mio padre non aveva molta stima dell’orchestra di Los Angeles e delle esecuzioni che facevano, e neanche dei programmi! Allora non si andava quasi mai. Mio padre aveva conosciuto grandissimi direttori in Europa, in America secondo lui non reggevano quasi il confronto.

Poi c’era il lavoro all’Università di Los Angeles che doveva tenerlo molto occupato…

Esatto! Mio padre lavorava moltissimo e insegnava all’università senza che venisse particolarmente considerato. Ricordo degli episodi tristissimi, legati al periodo dell’insegnamento universitario. Lui soffriva molto di asma e passava notti intere a tossire di fronte alla finestra aperta, e in certi periodi non stava affatto bene, ma ogni mattina per arrivare alla sua classe, si arrampicava per quattro piani di scale, era una vera tortura. Nonostante ciò il direttore del dipartimento non ha mai acconsentito a trasferirlo al piano terra… Quando insegnava però era investito da una passione molto travolgente e alcuni suoi studenti, in svariate testimonianze, riportano un’immagine molto bella e commovente di mio padre: dagli esempi musicali scritti a memoria alla lavagna, al suo camminare incessante per tutta la classe durante le spiegazioni. 

Oltre alla musica, c’era un grande interesse per l’arte figurativa…

…e per il tennis! (ride)

schoenberg nono

Schoenberg, i figli e il tennis

…lei ha anche pubblicato un mazzo di carte con dei disegni di suo padre. Cosa si ricorda del grande interesse di suo padre per l’arte?

Devo dire molto poco, perché lui ha dipinto attivamente soltanto negli anni attorno al 1910, in America faceva soltanto dei piccoli autoritratti a inchiostro. Dopo quel periodo non ha mai più dipinto. Però in casa sapevamo tutti della sua passione: nel suo studio era appeso quel celebre quadro conosciuto poi come Lo sguardo rosso. Mio padre conservava inoltre molti appunti su quegli anni, per non parlare delle lettere con Kandinskij, che sono state pubblicate ovunque ovviamente, ma nell’Arnold Schoenberg Center di Vienna ci sono moltissimi documenti ancora inesplorati…

Quanto ha scoperto di suo padre attraverso quei documenti?

Cose che non avrei mai potuto sapere quando era ancora in vita! Stiamo scoprendo tantissimi aspetti della vita di nostro padre, i quali erano preclusi perfino a noi della famiglia. Quando chiedevamo chi era suo padre, per esempio, era sempre elusivo: diceva soltanto che aveva un piccolo negozio e che era un libero pensatore. Non parlava mai di suo padre Samuel. Adesso invece hanno scoperto, tramite lo studio di alcune carte e giornali dell’epoca, che mio nonno era un socialista ed era amico delle grandi personalità del Socialismo austriaco dell’epoca e che cantava nei cori degli operai, o addirittura li dirigeva. Poi ha abbandonato completamente quella sponda politica, avendo scoperto che, in sostanza, era un borghese! (ride)

L’esperienza dei cori operai in effetti fu molto importante per Hanns Eisler e anche per un allievo di suo padre, Karl Rankl, ancora poco conosciuto dai più.
Per tutta la sua vita suo padre poi è stato un conservatore e un sostenitore della monarchia…

Era un conservatore, certo, ma era molto democratico. Di Eisler per esempio ammirava la musica, nonostante le differenze ideologiche. Perché la sua vita gli ha permesso di conoscere persone di tutti i livelli e di tutti i tipi di lavoro. Lui aveva soprattutto un grandissimo rispetto per chi faceva bene il proprio lavoro, e questo poteva essere il giardiniere come poteva essere Alban Berg! La cosa importante (e questo lo diceva anche a noi) era fare il meglio possibile, in qualunque disciplina: dalla musica, all’artigianato. Mio padre era un onnivoro: gli interessavano tantissimi aspetti del fare umano. Stimava tantissimo Adolf Loos, per esempio, per la sua profonda conoscenza dei materiali che doveva adoperare nei suoi progetti architettonici. Oltre a essere un grande intellettuale, mio padre ammirava moltissimo il lavoro pratico.

Le raccontava mai della vita in Europa prima dell’espatrio?

No, non ne parlava affatto. Lui lavorava tanto, insegnava all’università, appena aveva tempo andava nel suo studio per comporre, chiudeva la porta e nessuno entrava. Oppure andava a vedere le partite di tennis di mio fratello, non solo per fare il tifo ma anche per valutare e studiare l’andamento della partita (attraverso un sistema che aveva inventato lui per registrare ogni momento) così da vedere insieme a mio fratello i momenti critici della partita. Nella sua vita ha sempre cercato di conoscere in maniera approfondita e di fare le cose meglio di come erano state fatte prima. Non era caparbio solo nella musica, ma anche nella progettazione di oggetti utili per la vita di tutti i giorni. Quando non componeva o insegnava, si dedicava a tantissimi lavori manuali, come rilegare libri e partiture: a Vienna è conservata tutta la sua biblioteca, e moltissimi libri sono stati rilegati da lui, soprattutto durante il periodo europeo, perché al tempo gli editori per risparmiare non facevano nessuna lavorazione. Si era specializzato in questa arte: aveva progettato perfino un aggeggio attraverso il quale poteva rilegare i suoi volumi. Ricordo ancora oggi l’odore nauseabondo della colla di ossa di cavallo! Per questo si aspettava molto da noi ed era abbastanza deluso se non riuscivamo bene nei nostri studi, soprattutto io, in effetti. Ma era molto presente.

Un altro aspetto della personalità e della musica di suo padre è la riscoperta delle radici ebraiche. Quand’era giovane si convertì alla religione protestante…

Sì questo accadde quando aveva circa ventiquattro anni. A Vienna c’erano tantissimi ebrei che si fecero protestanti, alcuni come Mahler per esempio, furono costretti alla conversione perché altrimenti non avrebbero potuto ricoprire posizioni importanti nel lavoro. Ma secondo uno storico viennese, che ho conosciuto durante i miei viaggi nella capitale austriaca per presenziare alle riunioni del CDA della Fondazione, mio padre diventò protestante perché non voleva avere nessuno che intermediasse tra lui e Dio, e penso che questo sia molto plausibile, vedendo il suo carattere, in particolare, e anche il desiderio di molti convertiti di non piegarsi al dogmatismo cattolico. Comunque la riscoperta dell’ebraismo avvenne dopo un brutto episodio a Mattsee nel luglio del 1921, dove, come in altri paesi tedeschi del tempo, c’erano forti recrudescenze di antisemitismo. Recandosi lì in villeggiatura con la famiglia e con alcuni dei suoi allievi (c’era anche Webern con lui), scoprì che la cittadina era stata preclusa agli ebrei e lo stesso sindaco gli impose di lasciare la città, perché doveva rimanere judenfrei. La soluzione era a portata di mano: bastava presentare il certificato di battesimo, ma preferì andarsene. Questo fu un episodio fu importantissimo nella sua vita, perché gli fece prendere direttamente coscienza della terribile condizione degli ebrei in Germania.  Così anche quando Hitler salì al potere decise immediatamente di andare via, perché aveva intuito in maniera molto esplicita la direzione che stava prendendo il corso degli eventi.

È curioso notare come nelle prime edizioni delle raccolte epistolari curate da Erwin Stein, non si menzionano molte lettere (per esempio a Webern), in cui suo padre parla della forte decisione di essere ebreo, maturata in quegli anni di inasprimento dell’antisemitismo.

Bisogna tenere in considerazione che quello era la prima edizione in assoluto delle lettere di mio padre, che comunque ammontano veramente a decine di migliaia. Stein e mia madre hanno voluto mostrare le cose che potevano interessare di più in quel periodo. Non hanno voluto inserire polemiche, se non documenti legati strettamente alla sua musica, per loro era più importante. Lui in America, per esempio, non era tanto conosciuto, né eseguito. Alle volte alcuni grandi direttori d’orchestra dirigevano i Gurre-Lieder o Verklärte Nacht, ma non si spingevano oltre. Quindi era necessario dare un quadro quanto più completo possibile della sua musica. Non è che mia madre o Stein volessero censurare gli aspetti legati al mondo ebraico, non hanno pensato di fare un’operazione politica di revisionismo. Bisogna pensare anche a come avrebbero potuto reagire i membri della comunità ebraica se avessero pubblicato alcune lettere in cui mio padre, nonostante il suo grande entusiasmo per lo stato di Israele, esprimeva il suo cordoglio per il fatto che nessuno si è mai voluto prendere in carico il suo desiderio di fondare lì un’Accademia di Nuova Musica.

LUIGI NONO: TENERE ACCESE LE BRACI DELLA MEMORIA

Iniziamo a scivolare verso la vita con suo marito, Luigi Nono. Che continuità e discontinuità ravvede tra suo marito e suo padre, a livello di mentalità?

L’etica, naturalmente! Erano due persone che irradiavano etica su ogni aspetto. E una grande umanità: mio marito con gli ultimi e gli spossessati, mio padre con i suoi studenti. Quando era a Berlino all’Accademia delle Belle Arti, forse il posto più prestigioso in tutto il mondo occidentale per la formazione dei compositori, poteva insegnare a persone già in grado di comunicare una loro identità artistica (come Erwin Stein, per esempio); è passato poi in California a insegnare composizione e musica, come già accennavo poco fa. Chiedeva a loro che cosa avrebbero voluto fare nella vita, e la maggior parte gli rispondeva con lavori molto umili: non tutti volevano diventare musicisti professionisti, anzi quasi nessuno! Ciononostante tornava a casa al settimo cielo dalla felicità quando riusciva ad accendere una lampadina nella testa di quei ragazzi e non li ha mai visti come una massa indistinta, riusciva a lavorare molto sull’individualità di ognuno.

E questo senso di etica che lei vedeva in suo padre, l’ha scoperto anche in suo marito.

Assolutamente sì, anche se Gigi non era molto interessato all’insegnamento. L’unico suo allievo che si è portato dietro per tanti anni è stato Helmut Lachenmann, che mi ha scritto proprio in questi giorni, confessandomi che la memoria di Luigi è stata molto forte nel suo pensiero, particolarmente in questo periodo. Il forte interessamento per gli esseri umani credo fosse l’aspetto che sia Gigi e mio padre condividevano, pur non essendosi mai conosciuti di persona.

Lei ha vissuto in prima persona gli anni in cui Luigi Nono frequentava Darmstadt. Al tempo gli scontri ideologici sul fare musica erano piuttosto aspri.

Gigi, Stockhausen e Boulez erano molto amici agli inizi: a Darmstadt c’era una comunità. Poi man mano ognuno ha iniziato a intraprendere un modo diverso di vivere la musica e allora si sono distanziati. Stockhausen negli ultimi anni della sua vita ha però confessato che Gigi rimase per lui il suo più grande amico. E ci sono lettere incredibili, lunghe anche nove pagine, che testimoniano le loro discussioni sulla musica e sulle loro visioni contrastanti, mi piacerebbe moltissimo un giorno poterle pubblicare perché potrebbero fare luce su molti aspetti di quei conflitti molto intensi a livello intellettuale (e anche umano, devo dire). Darmstadt è stato un contesto molto particolare e vivo. Lo racconto sempre a tutte le persone che vengono a visitare l’archivio. Ognuno aveva un modo diverso di vedere il mondo, la politica e quindi la musica, ma non volevano precludersi la possibilità di discuterne in prima persona, combattendo anche tra loro. Mi sembra che oggi questo aspetto sia stato completamente dimenticato: ognuno esiste per se stesso, ha il proprio sito internet e sembra non essere interessato alla discussione collegiale.

Bisogna allora ricordare che negli anni Ottanta suo marito diede un esempio mirabile cercando di avviare un bel progetto dedicato ai giovani compositori con Donatoni, Bussotti, Sciarrino, Clementi e Manzoni (“Opera prima”) che naufragò a causa degli scontri interni e delle diverse visioni.

È una delle cose di cui parlo più spesso con i visitatori in Archivio.

Vorrei tanto poter creare qui nella Fondazione un luogo di discussione per giovani compositori, sulla scorta di questo tentativo che fece Gigi tempo fa. Senza pubblico, critici, storici della musica, in modo che si parlino! Ma è un sogno, è un’utopia. Intanto bisognerebbe recuperare il programma che avevamo costruito per il Festival alla Giudecca, saltato a causa della pandemia. Si chiamava “Luigi Nono e i suoi maestri” ed era strutturato su dei programmi veramente bellissimi, a partire ovviamente dal 1500. Nel 2021 lo dovremmo recuperare, ma adesso non so neanche se saremo in grado di riaprire e ospitare le persone che vogliono studiare i materiali dell’archivio.

La musica di suo marito dagli anni Novanta ha visto crescere una grande fortuna nella ricerca musicologica, cui ha contribuito in maniera eccellente la sua Fondazione, mentre, ahimé, in Italia rimane tristemente poco eseguita, come del resto molte musiche degli ultimi cinquant’anni. Quali crede siano le ragioni dell’impermeabilità della cultura italiana alla musica d’avanguardia e, in generale, alla musica nuova?

Questo è veramente un mistero per me! Non saprei esattamente come rispondere. Ma posso dire con certezza che quando la musica di Gigi viene eseguita, il livello delle interpretazioni è sempre altissimo. Quest’anno avrebbero dovuto eseguire in giro per il mondo Intolleranza 1960, a Vienna, a Magonza, a Milano e anche a New York, perché pare abbiano scoperto che parla di immigrazione (ride). Ma ovviamente è tutto saltato.

Come contribuì invece la critica italiana alla conoscenza della sua musica?

Massimo Mila pur non condividendo certi aspetti della musica di mio marito, riuscì a essere sempre molto obiettivo sulla sua persona: erano molto amici. Quando qualcosa della sua musica lo toccava però non perdeva mai l’occasione di comunicarglielo, era un personaggio meraviglioso, questo è certo. C’erano altri critici che invece lo seguivano più per ragioni politiche. A mio marito dispiaceva moltissimo che non si parlasse mai della sua musica, ma solo della scelta di determinati testi poetici (o politici); pochissimi erano veramente interessati in quegli anni a quello che Gigi diceva nella musica e non attraverso e invece penso che ci sia ancora moltissimo da scoprire nell’apporto che diede all’evoluzione del linguaggio musicale. Per non parlare del modo di esprimersi, di lavorare, soprattutto negli ultimi anni, con questi gruppi di esecutori, con i quali faceva tantissime prove per creare le sue composizioni. Probabilmente perché molti dei critici che scrivevano non erano veramente competenti, e non riuscirono a notare certi contributi importantissimi alla fonologia e all’uso di nuove tecniche legate alla musica elettronica.

Ai tempi di Intolleranza 1960 la militanza nel PCI di suo marito era estremamente attiva (e in questo anche lei ha giocato un ruolo di supporto). Poi negli anni Ottanta iniziò a formarsi una spaccatura.

Esatto, alcuni dicono che c’entrava in qualche modo una presunta deriva stalinista, ma non è assolutamente così. Semplicemente non esistevano più gli studenti e gli operai come soggetto sociale attivo e il Partito Comunista, per varie ragioni storiche, non riusciva più a stare al passo coi tempi. Gigi ripeteva sempre che l’operaio non era più uguale a quello che iniziava a popolare le metropoli negli anni Sessanta e che era alienato a causa della catena di montaggio. Adesso l’operaio schiacciava bottoni, iniziava a usare computer e quant’altro. Tutto era cambiato e le linee politiche dei decenni prima non erano più in grado di interpretare la nuova realtà sociale dell’Italia di quel tempo. Per non parlare della progressiva perdita di fiducia del soggetto operaio nei confronti della dirigenza del partito. Gigi ha cercato in ogni modo di trasmettere l’idea che la militanza politica non era una questione di intellettuali, e di come avesse bisogno della connessione con gli operai, con gli studenti, con gli ultimi. Tutto questo è andato perdendosi inesorabilmente con gli anni. Quindi Gigi, negli anni Ottanta, reagì in qualche modo anche a questa perdita di punti di riferimento.

Credo che questi ultimi due punti affrontati siano fondamentali per il ritratto che stiamo delineando di suo marito. Con Fragmente-Stille… an Diotima alcuni pensarono a una ritirata nel non-politico, per via di questa musica fatta di silenzi. Cosa che poi è stata prontamente smentita con Prometeo.

Sì, è verissimo. Volevano tutti mostrare a ogni costo di questa cosiddetta “svolta” e forse pochi hanno capito che era sempre lui, con tutte le sue ricerche e i suoi dubbi. Questo aspetto del dubbio, della sperimentazione continua è un aspetto fondamentale della sua personalità. La volontà di scoprire, di mettere in discussione le consapevolezze acquisite; il bisogno di cercare sempre qualcosa di nuovo che lo potesse stimolare. Proprio perché gli interessava tantissimo la spazializzazione della musica (e questo dagli esordi più embrionali della sua musica, fin dalla prima composizione per orchestra, fino dai tempi della formazione), aveva sempre bisogno di testare cose diverse. Certo, nelle prove faceva fare esattamente quello che voleva lui, non è che lasciasse tantissima libertà agli interpreti e questo moltissime persone che hanno partecipato all’allestimento di Prometeo a San Lorenzo lo possono raccontare con certezza.

Schoenberg Nono

Vorrei concludere chiedendole quale traguardo vorrebbe raggiungere con la sua Fondazione? Che progetti state attivando?

Tranquillità finanziaria, innanzitutto! La Fondazione purtroppo non è finanziata da nessun ente pubblico, fatta eccezione ovviamente del Ministero della Cultura; poi facciamo domande per tutti i possibili bandi esistenti, con la speranza che possano funzionare. Ovviamente cercheremo di andare avanti finché possiamo, perché compositori, studiosi, ricercatori vengono continuamente da tutto il mondo, è questa la linfa vitale dell’Archivio e deve continuare a scorrere! Ricordo bellissime esperienze con gruppi di studenti venuti dalla Sardegna, o anche dalla facoltà di Architettura di Boston. Adesso che mia figlia Serena partecipa alle riunioni della Fondazioni, abbiamo iniziato a organizzare delle serate di discussione collettive, non solo per affrontare (e far conoscere) le composizioni e le idee di Gigi, ma anche altre discipline che gli interessavano. Per esempio una sera è venuto uno storico dell’arte per parlare dei quadri del nonno di Gigi, trovando dei legami con la sua opera. Abbiamo anche iniziato a fare la spazializzazione della sua musica nella sala grande dell’archivio, organizzando dei concerti acusmatici, durante i quali adoperiamo delle registrazioni storiche dei suoi pezzi, trasmesse da altoparlanti dislocati nei vari angoli della sala. Tutto questo grazie alla collaborazione con il grandissimo amico Alvise Vidolin.

Valerio Sebastiani

Classe 1992. Laureato in Musicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato Pianoforte presso il Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Ha frequentato i corsi del MaDAMM (Master in Direzione Artistica e Management Musicale) tenuti dall’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca. Attualmente è assistente alla direzione artistica dell'Accademia Filarmonica Romana e consulente scientifico della Treccani. Ha svolto attività di ricerca presso l’Akademie der Künste di Berlino e per conto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Milita in Quinte Parallele dal 2016.

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