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Alexander Gadjiev e la consapevolezza del suono

di Alessandro Tommasi - 30 Luglio 2019

Unico italiano ammesso al Concorso Tchaikovsky di Mosca, il goriziano Alexander Gadjiev è arrivato alle Semifinali, dove si è distinto soprattutto per la sua esecuzione dei brani di Skrjabin e della Sesta Sonata di Prokofiev. Nato nel ’94, debutto con orchestra a nove anni, vincitore del Premio Venezia, vincitore assoluto dell’Hamamatsu in Giappone, con Martha Argerich presidentessa di giuria, e tre anni dopo primo premio al Monte-Carlo Music Masters, concorso riservato a pianisti già vincitori di altri concorsi internazionali: Gadjiev è uno dei pianisti italiani che più si distingue per profondità di sguardo e ricerca personale, sostenuta da un indubbio magistero tecnico e una forte capacità analitica. Lo incontro a mezzanotte, nella hall dell’albergo moscovita in cui stampa e candidati erano alloggiati, e prima del kebab dell’una di notte (rispettando gli orari moscoviti) nasce l’occasione di una lunga chiacchierata sul Concorso, sul repertorio e sulla sfida interpretativa del pianista.

Direi che possiamo cominciare dall’inizio: com’è stato trovarsi su quel palco?

La prima volta è stato abbastanza allucinante. Infatti ho cercato ogni occasione per passare del tempo nella sala, sul palco, solo per abituarmici un po’. Per me è importante vedere bene la sala anche il giorno prima di suonare, così riesco ad immaginarmi la sensazione di quando sarò sul palco. Sono andato anche a sentire un po’ di amici che provavano gli strumenti: la mia mezz’ora di prova se n’è andata un po’ nel panico, non avevo idea di che pianoforte scegliere.

Cosa ti preoccupava?

Tutto. Nessuno strumento mi ha convinto pienamente. Non ho provato a lungo il pianoforte cinese, devo esser sincero, il Kawai mi piaceva molto fino ad una dinamica di mezzoforte, poi mi sembrava troppo percussivo nei bassi e troppo vetroso. Sullo Yamaha avevo una sensazione simile, ma mi piaceva ancora meno nelle dinamiche del piano. Il Fazioli mi sembrava molto potente e maneggevole, ma aveva dei forti demoniaci, troppo urlati. Lo Steinway è quello che nel complesso mi sembrava più tradizionale. Però aveva una meccanica che mi convinceva poco, scappava troppo.

Si è sentita molto la differenza nel tuo rapporto con lo strumento tra prima e seconda prova.

Sì, perché lo strumento stesso è cambiato, si è aperto. Lo hanno scelto in tanti e a furia di suonarlo si è allargata la paletta timbrica e sonora. Poi io ho cercato un suono un po’ più generoso. Non nel senso di forte, ma più in profondità della tastiera.

Anche il repertorio te lo chiedeva, la Dante di Liszt, la Sesta di Prokofiev…

Esatto. Ma anche nei brani di Skrjabin cercavo di non essere troppo etereo, di avere un po’ di espressività più romantica e meno impressionista-espressionista. Invece, in prima prova, l’obiettivo era quello di presentare sei cose diverse, di suonare tutto con grande diversità. La Waldstein di Beethoven, ad esempio, l’avevo pensata molto pura e distaccata.

Sei stato soddisfatto di come ti è uscita la Waldstein?

Per alcune cose sì, ma devo ammettere che non è stato facilissimo controllare sempre il pianoforte, per questa leggerezza della meccanica per me eccessiva. Era proprio una scelta dei tecnici: hanno tenuto lo strumento più leggero soprattutto per favorire gli studi, ma io sono abituato a strumenti pesanti, magari anche vecchi e legnosi.

D’altronde non hai scelto una Sonata di Mozart o Haydn.

Ecco, una cosa di cui mi sono accorto, col senno di poi, è che se l’avessi saputo avrei suonato una sonata classica non di Beethoven o comunque non una di quelle ampie. Avrei scelto più volentieri Mozart o Haydn, perché anche il tipo di pianoforte mi sembrava molto più mozartiano, molto cristallino.

E infatti ha premiato i candidati che hanno portato Mozart e Haydn, oltre al fatto che erano in netta minoranza rispetto a quelli con sonate di Beethoven.

Immaginati la quinta Appassionata, la sesta Appassionata.

Siamo arrivati a sette.

Ecco, chissà quante Waldstein.

Ah, meno, solo quattro!

Dici poco, su 25 concorrenti è quasi un quinto!

Sarà che son sonate più sicure ai concorsi, il pianista che ha portato la 101 si è giocato la prova: tutto lì è questionabile. Tu come hai scelto il repertorio?

Beh, volevo assolutamente presentare le cose più diverse possibili. Quindi un Bach che aprisse con un’atmosfera piuttosto pastorale, poi un Beethoven luminoso e quindi ho pensato subito al Finale della Waldstein. Mi piaceva portare una Sonata con un secondo tempo così particolare, così filosofico e misterioso, che apre su un Finale che adoro e che mi sembrava avrebbe dato un’atmosfera positiva, con questo do maggiore che persevera onnipresente. Per il brano d’obbligo di Čajkovskij, l’unica cosa che avrei potuto fare sarebbe stato portare un brano più breve, magari triste e melanconico, al posto del Tema e Variazioni: non ha senso sforare o puntare al limite di tempo, ti stanchi per nulla. Ma il fatto è che le Variazioni le suonavo da tempo, le avevo inserite nel DVD per la preselezione ed è un brano al suo interno già molto vario: c’è tutto Čajkovskij, dal coquette al lirico, dal tragico al divertente, dal virtuosistico al gioco, c’è tutto! Non credo di avervi fatto esattamente tutto ciò che avrei voluto e potuto, ma nel complesso son piuttosto soddisfatto. Gli studi invece sono stati i brani che mi hanno convinto di più, della prima prova, soprattutto Rachmaninov e Liszt, in cui ho cercato di aprire di più il mio diapason emotivo, mentre fino a quel punto mi ero controllato molto.

Mi sembra normale, vista la situazione. Come ti sei trovato a gestire lo stress da concorso, durante la prova?

Durante la prova non è stato semplice, anche perché dieci minuti di repertorio in meno non avrebbero guastato. Non volevo esplodere in tutto, soprattutto nella prima prova, volevo che i climax di Beethoven e Čajkovskij fossero diversi rispetto a quelli degli studi, che mostrassero diversi aspetti dell’intelletto. In seconda prova, invece, secondo me il modo migliore per gestire lo stress è immedesimarsi quanto più possibile nella musica che stai suonando, dimenticandosi di essere lì, per quanto sia possibile. Però una cosa che non mi è piaciuta e a cui non avevo pensato, è che tengono le luci accese in sala. Crea davvero poca distanza con il pubblico, distanza che è importante durante il concerto, perché entri nel tuo spazio mistico.

Il buio in sala garantisce anche una forte immersività, mentre altrimenti ti distrai più facilmente, inizi a leggere il programma o a guardare il cellulare.

Esatto, credo che il buio aiuti anche il pubblico ad essere più silenzioso, proprio perché non puoi far altro. Sentivo bene i telefoni che squillavano. Infatti in seconda prova ho tirato un’occhiata che se la vedi… C’è un momento in cui, la seconda volta che è squillata una suoneria, mi son girato e ho dato l’occhiata della morte alla sala. E poi silenzio glaciale!

Ma questo è un problema dei russi, non so come sia possibile ma non riescono a spegnere o ad abbassare la suoneria, hanno cellulari vecchi in cui non esiste la modalità non disturbare. In media hanno squillato due cellulari per prova. E oltre all’immedesimarsi e all’ignorare i rumori della sala?

È fondamentale ascoltare il suono, il suono in sé e per sé. Soprattutto in questa sala. È una cosa di cui mi sono accorto tra la prima e la seconda prova: penso che questa sala abbia plasmato molto quella che noi chiamiamo la scuola russa. Nel senso che qua non puoi uscire e suonare senza peso, con un suono tendente al tre p e basta. Proprio per la conformazione della sala non si sentirà nulla a meno che tu non sia seduto nell’unico posto che per una congiunzione astrale ha l’acustica perfetta. Altrimenti il suono ha proprio un modo strano di andare e tornare (come avrai potuto notare sedendoti a destra, a sinistra, in platea, nell’anfiteatro) e questo era ciò che cercavo di fare, di ascoltare il suono che ritorna, man mano.

E dal palco come si sentiva?

Sul palco si sente in maniera diversa. Amici russi abituati a suonarci mi hanno detto subito «suona un po’ più di come ti senti», perché sul palco si sente più forte rispetto alla sala. E quindi anche lì devi fidarti del tuo istinto, non può essere un’esecuzione totalmente calcolata, devi immergerti nel suono del momento e questo rende l’esperienza ancora più ardua, ma anche più attiva e attenta.

La presenza dello streaming non ti ha dato tensione?

Sicuramente ci sono dei momenti in cui pensi «questa cosa la sta sentendo tutto il mondo», ma bisogna includere il pensiero nel tuo modo di esistere di quel momento. Anziché respingere l’idea che il mondo ti sta ascoltando, devi includerla, devi dire «sì, bene, sto suonando per ancora più persone». Questo è il modo meno autodistruttivo. Perché ovviamente è un’occasione particolare, non ti capita mai di suonare per, che so, un milione di persone. Devi assolutamente non farti influenzare da questa cosa. Poi anche la giuria sta lì, la vedi, non è nascosta, se fosse buio potresti dimenticartene.

Pensi che questo ti abbia inibito?

Non sulle scelte musicali, ma forse in alcuni momenti ho cercato di rischiare di meno. Anche se poi alla fine non l’ho fatto, mi son accorto che non ha senso: hai un’occasione, devi dare tutto.

Parlando di sostanza musicale e andando su quello che è stato il grande brano del tuo Concorso, come vedi la Sesta Sonata di Prokofiev?

Tra le tre Sonate di Guerra, anche per la presenza del quarto tempo, per me la Sesta è la più particolare. È un po’ amorfa. Primo e ultimo movimento in qualche modo tengono un senso di unità, anche da un punto di vista tonale (la maggiore-la minore), un’unità anche di stato emotivo, come testimonia il ritorno nella parte centrale del quarto tempo del tema del primo. Primo movimento che parla davvero di distruzione totale. Soprattutto dallo sviluppo in poi è un lentissimo, meccanico e calcolato processo verso la distruzione, che avviene infine nell’ultimo accordo. Tutto semplicemente realizzato con un lunghissimo percorso verso un climax colossale, abominevole, in cui troviamo effetti terrificanti, fino all’evocazione dei suoni dei kalashnikov.

Ma al contempo la struttura del brano è estremamente chiara.

Sì, soprattutto il primo tempo. È beethoveniano. Immergendomi nella natura di Prokofiev, ho scoperto che nel periodo in cui componeva la Sesta era molto attratto dalla figura di Beethoven. Da ciò la struttura o i rimandi al cosiddetto tema del destino.

E poi l’idea di un trittico di Sonate, come le ultime tre di Beethoven.

Esatto, il soprannome di Sonate di Guerra gli è stato affibbiato dopo. Poi una cosa che adoro è un altro momento onomatopeico che evoca delle sirene, quasi dei rimandi a sirene d’evacuazione.

Però la Sesta è stata completata prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale.

Certo, ma ce n’era il sentore, sapevano quello che stava succedendo. Non posso credere che l’atmosfera della Sonata non ne sia stata influenzata. Però i due movimenti centrali vanno altrove.

Sì, dicevi prima che è amorfa, con questi due pilastri che sono il primo e il quarto movimento, mentre all’interno…

…c’è l’angoscia! Il mio movimento preferito ad esempio è il terzo, il Tempo di Valse lentissimo, che mi sembra già una contraddizione in termini. È in nove? È in tre? Il valzer è all’interno dei tre movimenti che compongono i nove o si compone sul nove della battuta intera? C’è un valzer nel valzer o è semplicemente un valzer? Questo dilata tutto: non a caso ricordo che ho sempre percepito un caldo, un’afa inenarrabile, fin dalla prima volta che ascoltai questa Sonata.

Un’afa atipica per un compositore russo.

Infatti c’è il gelo negli altri movimenti, soprattutto nel primo. Anche se è un gelo ossimorico, pieno di fuoco. Ma il terzo tempo da un’idea di afa fin dall’inizio, quando la sinistra deve sorvolare la destra nel primissimo accordo, con questo caldo che che allenta lo svolgersi di ogni gesto. È una narrazione che procede a stenti, per poi aprirsi nei due climax, soprattutto il secondo.

Tu dai molta più attenzione al secondo rispetto al primo.

Sì, devo dire che all’inizio davo tensione anche nel primo. Però mi sono accorto che i due climax devono essere diversi. Ora il primo mi appare molto più nobile, anche grazie a quella sinistra che scende, con quei bassi risonanti, da campane. Mentre il secondo è molto più diretto, più teso, non ci sono più quei bassi e non a caso l’armonia cambia molto più spesso, ogni accordo ha un’armonia diversa, spesso a distanza di terza come amava fare Prokofiev. Adoro questo modo di accostare le armonie per contrasto, purissime, spesso usando solo maggiore e minore.

E invece il secondo movimento?

Quello secondo me è il classico Prokofiev anche un po’ narcisista, che si bea della sua capacità di poter passare a caratteri radicalmente diversi in un attimo, con noncuranza rispetto a quello che c’è stato prima e quello che ci sarà dopo. È chiaramente molto grottesco, con questi staccati che sembrano quasi non fraseggiati, con accenti posti a metà frase che indicano una linea ma sono più che altro entità a sé stanti su cui ogni volta porre uno sguardo diverso. E poi c’è il Meno mosso, la parte centrale, che invece ritorna in atmosfere più lugubri, con piccole ascese, piccoli momenti in cui ho quasi la sensazione che ci siano delle serpi che emergono da sottoterra.

Con queste enormi differenze tra movimenti, come fai a tenere insieme tutta la Sonata?

Secondo me l’unità deriva, come sempre, dalla forza interiore, dalla capacità di mantenere un’attenzione lungo tutta la Sonata, anche nelle pause tra i vari movimenti. Cambia l’atmosfera, cambia l’articolazione, cambia la dinamica, però dev’esserci una necessità di andare avanti. È una cosa secondo non spiegabile in altra maniera, non è intellettuale, è una forza di spirito. Non è emotiva, perché emotiva è la forza che riguarda i climax, i momenti virtuosistici, gli strepiti, i finali. Ecco il finale della Sesta Sonata è questione di pancia. Ma per tenere mezz’ora di tensione, lì è una sensazione di sete, che continua e persevera e la senti sempre di più, ma non bevi e sei spinto costantemente alla ricerca. È una forza che va allenata nel corso degli anni, ma forse è anche una cosa che o si ha o non si ha.

In ogni caso immagino sia una cosa che va allenata soprattutto sul palco.

Sì, è legata molto al palco, ma è legata molto anche a tutto un bagaglio culturale che esclude il pianoforte. Cioè, semplicemente, l’interesse nei confronti della figura del compositore, nei confronti del periodo storico, nei confronti della brano in sé.

E questo dici che ha un impatto concreto?

Assolutamente. Perché altrimenti che cos’è la tensione? Perché percepiamo delle performance impeccabili ma le troviamo noiose e spesso prevedibili? Perché? Forse proprio perché c’è uno studio che prosegue senza trovare barriere. Invece secondo me sono le barriere che uno supera, che continua a superare, che hai l’impressione di continuare a superare, come interprete e come ascoltatore, a costruire  l’interpretazione.

Penso sia un discorso prevalentemente di consapevolezza.

Consapevolezza, esatto. Ma anche Busoni lo diceva, i musicisti studiano troppo e non vanno a vedere i musei, non leggono libri. Ne sono molto sicuro. Quando ascolti un musicista te ne accorgi dalle scelte musicali che fa: le scelte di tempo, il timing, l’ascolto dell’armonia, l’equilibrio polifonico, il fraseggio. Ad esempio come un pianista fraseggia il secondo tema del Concerto di Tchaikovsky dice già tantissimo, quella frase per me può essere davvero una scrematura. Già da quello riesci a capire come suoneranno tutto il concerto. E capisci se uno è veramente consapevole di ciò che sta suonando. E poi il ruolo del colore, che è una cosa assai importante. Spesso si sente dire «una performance priva di colori», ma cosa si intende per colori?

In genere si intendono i timbri.

I timbri, certo, però anche lì, cos’è esattamente che dà il timbro? Il tipo di pressione, l’attacco del tasto, come usi i pedali, come gestisci il polso, un sacco di cose. E quando un pianista ha un tipo di attacco sempre simile a se stesso è chiaro che la sua varietà timbrica, e quindi emotiva, sarà ristretta.

Possiamo anche dire che si sente molto, quando un musicista si chiede «Perché». Perché quel passaggio è scritto in un quel modo, perché quella frase si costruisce così, perché quell’armonia, quel colore?

Il perché è la domanda di tutto, in tutte le materie, in tutto lo scibile umano e non umano. Poi è chiaro che ci sono, nel nostro ambiente un po’ mistico, delle domande a cui è meglio non rispondere. Ma anche lasciando l’interrogativo aperto, bisogna sempre chiedersi perché.

Mi viene però un dubbio: pensi che tutti i grandi pianisti conoscano la letteratura russa, prima di suonare (magari magnificamente!) il Terzo di Prokofiev?

Non saprei, però sono sicuro che abbiano un tipo di sensibilità per cui se leggono o ascoltano una poesia, anche senza saperlo, anche solo due righe, qualcosa succede.

Quindi è più un discorso di coltivare la propria sensibilità.

Esatto. Poi ci sono personalità più intellettuali, personalità meno intellettuali, immagino che Richter abbia letto tutto in tutte le lingue che sapeva, non lo so. Ecco, lo studio delle lingue ti dà una maniera diversa di ascoltare la musica. Sono sempre più sicuro che le lingue, il modo diverso di pronunciare le parole sia estremamente collegato al modo di sentire certe frasi musicali.

Beh, quando passi da una lingua all’altra cambi anche il tono di voce, il modo in cui cadenzi, le frasi che crei.

Ma anche io mi sento proprio persone diverse, soprattutto quando parlo lingue di cui sono madrelingua. Cambiano le cose a cui pensi e il modo stesso in cui pensi. E similmente quello che cerco di fare è di pensare in categorie diverse in base ai compositori. Quindi un climax in Skrjabin sarà necessariamente un climax diverso rispetto a Liszt. Magari avrà qualcosa di più leggendario, più apocalittico, più affannato, più inaspettato, più incontrollabile rispetto a Liszt o a Prokofiev. E al contrario, in Prokofiev, pur tu sapendo da cinque minuti che tra cinque minuti ci sarà il punto culminante del primo movimento, devi trovare il suono che stupisca ancora di più l’ascoltatore e te stesso. E ne devi essere consapevole, sempre.

E adesso, post Concorso?

E adesso un po’ di riposo, finalmente! Ma per poco, devo mettere su nuovo repertorio per futuri concerti: Secondo di Chopin e Terzo di Bartók nei prossimi tempi!

Alessandro Tommasi

Autore

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro.

Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia.

Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella.

Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

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