Il prezioso ritorno del Grand Opéra parigino
di Marco Beghelli - 16 Settembre 2023
Chiunque abbia avuto l’occasione di passare attraverso le pagine di una Storia della musica o di
una Storia dell’opera è incappato nella locuzione grand opéra, acquisendone spesso un’immagine
un po’ nebulosa. Cosa sia, infatti, un grand opéra resta di difficile definizione, non ultimo per la
relativa esiguità dei testi attribuibili a tale categoria, e assai differenziati fra loro.
Tecnicamente il Grand Opéra (scritto con la maiuscola, di genere maschile e pronuncia
francese) – o semplicemente l’Opéra – era il nome colloquiale attribuito a un teatro, il maggiore
teatro d’opera parigino d’inizio Ottocento, denominato ufficialmente Théâtre de l’Académie Royale
de Musique. Specializzatosi nell’opera seria in lingua francese (l’aurea tragédie lyrique) e distinto
quindi nel repertorio dal Théâtre de l’Opéra Comique e dal Théâtre Italien, l’Opéra si affidava
perlopiù a un cartellone di repertorio, mandando in scena per decine di volte, e ripetutamente negli
anni, i successi delle stagioni precedenti, come accade oggi per il musical a Broadway o nel West
End londinese: La Vestale di Spontini, varata a fine 1807, aveva già raggiunto le 100 repliche a
inizio 1816, 200 nel 1830.
Dal 1831 la guida dell’Opéra venne assunta da Louis-Désiré Véron, manager controverso
proveniente dal giornalismo, dove aveva inventato la formula vincente del romanzo feuilleton a
puntate. Grazie alle sue scelte impresariali, egli contribuirà con altrettanto successo
all’affermazione proprio del genere teatrale passato alla storia come grand opéra, un’etichetta
divenuta marchio di fabbrica dell’omonimo teatro. Véron metteva perlopiù in cantiere un solo titolo
nuovo all’anno, scelto con oculatezza, preparato in tempi lunghi e con dispendio di mezzi, perché
auspicabilmente destinato a durare nel tempo. I soggetti erano storici e grandiosi, ma senza
disdegnare occasionali intersezioni dello stile più leggero; le trame lunghe e articolate, con
predilezione per il colpo di scena inatteso; il taglio drammaturgico imponente, distribuito quasi
sempre su 5 atti, con grande presenza del coro, di numerosi comprimari ad attorniare il poker d’assi
vocale, di comparse in abbondanza per le scene di massa. All’interno della vicenda si trovava
sempre il pretesto per grandi affreschi sonori e almeno un divertissement danzante, divenuto
ingrediente d’obbligo a garantire varietà e spettacolarità, accanto alla sfilata di scenografie
magnificenti.
A garantire omogeneità e continuità a tale nuovo genere teatrale contribuiva un drammaturgo di
spiccata abilità: Augustin-Eugène Scribe (1791-1861), il più attivo e influente librettista francese
nell’arco di 40 anni, che operava – con l’ausilio di una vera e propria bottega di fidati collaboratori
poetici – su tutto l’arco dei generi teatrali francesi, parlati e cantati. Nei frontespizi dei suoi libretti
destinati a Véron, l’espressione tragédie lyrique venne presto sostituita da quella solo
apparentemente più generica di opéra, talvolta amplificata in grand opéra, e destinata a divenire il
nome di un nuovo genere ben connotato storiograficamente.
Anche per l’onerosità compositiva di siffatte partiture musicali, i compositori cambiavano
invece di volta in volta, a rotazione, trovando presto in Giacomo Meyerbeer il loro faro estetico,
autore di due titoli capitali come Robert le Diable (1831) e Les Huguenots (1836). Ma esempi già
compiuti di grands opéras si possono rinvenire anche prima della direzione di Véron, ad esempio
con La muette de Portici (1828) di Auber e Guillaume Tell (1829) di Rossini, e molti tratti stilistici
si diffonderanno poi anche fuori dalla Francia, persistendo fin nel secondo Ottocento in lavori come
Aida (1871) di Verdi, denominata «opera» sul frontespizio (in vece della vetusta etichetta di
«melodramma») o La Gioconda (1876) di Ponchielli, «grande opera».
Il grand opéra parigino era stato del resto fin dalle origini il frutto di una sintesi fra stili italiani,
francesi e tedeschi, favorita dal cosmopolitismo culturale di quella capitale musicale europea ch’era
Parigi, su cui– nell’epoca di Luigi Filippo, che vide svilupparsi il nuovo genere – dominavano
l’italiano Rossini e il tedesco Meyerbeer.
Grazie al ritardo di Meyerbeer nel consegnare la nuova partitura degli Ugonotti, nel febbraio
1835 le attenzioni dei parigini si rivolsero tutte sul nuovo grand opéra di Scribe La Juive che ne
prese il posto, affidato al compositore Fromental Halévy (1799-1862). Il successo fu clamoroso,
inserendo immediatamente il titolo fra i classici dell’Opéra: 100 repliche totalizzate al 1840, 500 al
1886; ma la diffusione fu rapida anche al di fuori della Francia, da subito nei paesi di lingua
tedesca, solo sul finire degli anni ’40 in Italia, col titolo L’ebrea.
Del grand opéra parigino, La Juive aveva tutti i connotati: ambientazione storico-medievale
(1414, a Costanza, nell’epoca del Concilio convocato dall’antipapa Giovanni XXII per dirimere lo
Scisma d’Occidente), splendide occasioni scenografiche (sulla voga dell’estetica neogotica allora in
corso), scene di massa (popolo, soldati, prelati, ecc.), conflitti sociali che si ripercuotono sui drammi
personali (l’opposizione religiosa fra cristiani ed ebrei).
La giovane Rachel, creduta figlia dell’ebreo Éléazar, lo è invece del suo acerrimo nemico, il
Cardinal Brogni: segretamente innamorata – e corrisposta – del principe cristiano Léopold
(promesso a sua volta alla principessa Eudoxie), Rachel sostiene fino alle estreme conseguenze la
sua passione proibita, nonostante il rimorso verso il presunto padre Éléazar, che dal suo canto è
disposto a sacrificarla in ossequio ai dettami religiosi in cui crede. Un padre, dunque, che
nell’attaccamento a una figlia non sua preannuncia la madre Azucena del Trovatore verdiano,
coniugata con il morboso rigore paterno di Rigoletto e l’emarginazione sociale di Shylock, l’usuraio
ebreo del Mercante di Venezia shakespeariano, travolto anch’esso dai conflitti di religione.
Dopo decenni di grande successo teatrale, La Juive cadde progressivamente in disgrazia così
come il suo autore (al pari dell’altrettanto ebreo Meyerbeer), mentre avanzavano in Europa funeste
ideologie antisemite. Le sue riprese moderne, rare soprattutto in Italia, si scontrano con le difficoltà
economiche e organizzative che un siffatto “spettacolone” comporta. Molto apprezzate furono le
recite del 2005 alla Fenice di Venezia; attesissime sono ora quelle annunciate al Teatro Regio di
Torino in apertura della nuova stagione operistica, dal 21 settembre al 3 ottobre 2023, con un cast di
altissimo livello: Mariangela Sicilia (Rachel), Gregory Kunde (Éléazar), Martina Russomanno
(Eudoxie), Ioan Hotea (Léopold), Riccardo Zanellato (Brogni), la direzione musicale imperdibile di
Daniel Oren e la regia tutta da scoprire di Stefano Poda.
Marco Beghelli
Fotografia © Teatro Regio Torino