Cosa ci lascia la Compagnia del Cigno?
di Filippo Simonelli - 6 Febbraio 2019
momento di fare qualche bilancio
Dopo più di un mese di programmazione è terminata La Compagnia del Cigno, quindi è il momento di fare qualche bilancio. Comprensibilmente, la serie aveva destato grandi speranze: la musica classica in prima serata su Rai1 di per sé è sempre una notizia. Son passati gli anni nei quali era quasi la prassi vedere sia sulle reti Rai che su Mediaset concerti, spesso integrali per giunta, trasmessi in diretta al Lunch Time. Quindi c’era una certa curiosità tra cultori e professionisti del settore; l’esito probabilmente non è stato quello atteso almeno dai professionisti del settore, ma siamo sicuri che sia stato un fiasco?
La serie
Partendo dal presupposto che questo non è lo spazio adatto per dare un commento tecnico su un prodotto televisivo, alcune osservazioni sulla serie in sé sono necessarie per contestualizzare il resto. La Compagnia del Cigno aveva come obiettivo quello di raccontare le vite di giovani ragazzi, aspiranti professionisti della musica, alle prese con la vita quotidiana del conservatorio e tutta quella serie di problemi connessi all’età adolescenziale ed immediatamente successiva: amori, rivalità, dissidi familiari, mescolati in un intreccio non particolarmente originale, o meglio, modellato su uno standard a cui la rete generalista nazionale ci ha abituato con anni di Fiction più o meno riuscite. Fin qui nulla di strano. Tutti i personaggi, ragazzi ed adulti, portano poi con sé problematiche esasperate, cosa che li rende molto spesso quasi macchiette. L’esempio plastico è la figura del direttore-dittatore impersonato da Alessio Boni, che tratta i suoi studenti con uno sdegno, quasi un disprezzo veramente dai tratti surreali.
Una nota di merito, invece, va al fatto che gli attori sono effettivamente tutti giovani musicisti, quindi non solo coinvolti direttamente nelle parti che recitano ma anche in grado di dare un’esperienza musicale più realistica.
Le critiche
La Compagnia del Cigno, come prevedibile, ha ricevuto critiche da ogni fronte.
I Conservatori si sono lamentati per una rappresentazione irrealistica della loro realtà. I musicisti professionisti si sono lamentati per le immagini stereotipate che venivano date dei loro “colleghi” sullo schermo. I fan di Elio e Le Storie Tese sono rimasti delusi dalla mancata valorizzazione di Rocco Tanica (che ha fatto comunque la sua discreta figura, ndr). Certo, fa sorridere il fatto che ci si lamenti della rappresentazione non realistica della musica in una serie TV; un po’ come se i medici si lamentassero dei poteri taumaturgici del Dottor House.
Ma sono solo critiche ingenerose? Decisamente no. La fiction non è un documentario e quindi che una fedele rappresentazione della realtà quotidiana dei veri Conservatori non fosse all’ordine del giorno non è stata certo una sorpresa. Ma certo ci si poteva aspettare qualcosa di più articolato: complici anche le figure esasperatamente macchiettistiche dei personaggi, ad assorbire l’attenzione del pubblico sono state più le vicende eccessivamente patetiche dei singoli studenti e lo sdegno del direttore nei confronti di qualsiasi cosa in grado di respirare che non il loro rapporto con la musica. Questi eccessi hanno portato talvolta a momenti di cattivo gusto, come le allusioni al terremoto di Amatrice che ha riaperto una ferita viva nei ricordi degli studenti del Conservatorio de L’Aquila, che le conseguenze più drammatiche del sisma le hanno vissute davvero.
Una grave carenza è stata senza dubbio l’assenza del canto, se non nei momenti “Glee”, in cui gli studenti/attori si cimentavano in interpretazioni di brani pop, affatto malvagie spesso, ma che non possono esaurire tutta la presenza di una disciplina così fondamentale nello studio della musica.
Effetto “La Compagnia del Cigno”?
Al netto delle critiche sul prodotto televisivo c’è un aspetto apparentemente secondario da tenere in considerazione. Chi ha difeso La Compagnia del Cigno ha portato i dati di ascolto brillanti registrati dalla serie che ha tenuto medie effettivamente fuori dal comune. Un vecchio adagio recita che non esistono buone o cattive pubblicità, ma solo pubblicità. Bene o male purché se ne parli, detto diversamente.
Ma l’operazione più interessante dal punto di vista della “divulgazione musicale”, forse obiettivo in filigrana di chi ha concepito questa serie, è quella che la Rai ha compiuto sui piccoli schermi. Per promuovere la serie è stata creata una pagina su Instagram che, affiancata a i canali ufficiali Rai, non si è limitata a raccontare la storia e a far conoscere i personaggi, ma ad ogni momento musicale associava uno o più piccoli approfondimenti su ciascun brano. Se è pur vero che ad una correlazione non corrisponde necessariamente un rapporto di causa-effetto, è interessante notare come i brani menzionati nelle puntate della serie e poi sulle pagine ufficiali abbiano avuto picchi di ricerca su Google.
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Le tabelle fanno riferimento ai dati forniti da Google Trends, reperibili qui. Ciascuna immagine fa riferimento ad una puntata diversa, a titolo puramente informativo e senza nessuna pretesa di scientificità. Quello che è interessante notare è che due brani piuttosto popolari anche al di fuori della cerchia dei musicofili hanno avuto dei picchi di ricerche, su una base mensile, proprio in corrispondenza dei passaggi televisivi. Non è poi forse così impossibile aspettarsi che qualcuno di quelli che si sono affannati a ricercare i brani anche durante la puntata stessa li abbia poi magari salvati su Spotify e sia sulla strada per diventare un ascoltatore o addirittura un appassionato di questa musica.
La grande occasione per parlare di musica
I tempi in cui la Rai e Mediaset mandavano in diretta in prime time i concerti di Muti o Bernstein sono ormai un bel ricordo. Prima di una improbabile restaurazione culturale passerà molto tempo, quindi le occasioni come la Compagnia del Cigno vanno capitalizzate il più possibile. Ma capitalizzare non significa offrire un plauso acritico per un prodotto che ha fatto acqua sotto molti punti di vista. Significa però generare una discussione, un discorso pubblico che oltrepassi i confini delle bolle in cui si rinchiudono gli appassionati per portare nella piazza, reale e virtuale, i problemi di un settore artistico e professionale in emorragia da troppo tempo. Bene hanno fatto quei conservatori come il Pollini di Padova o il Verdi di Torino, che si sono esposti, pur con una certa goffagine istituzionale e rischiando di far passare il proprio messaggio per una difesa corporativa o per un raptus di benaltrismo, lanciando quasi un grido di dolore per la situazione in cui versa l’istruzione musicale in Italia.
Che se ne parli è opportuno, e che questo discorso prosegua ben oltre lo spazio di una serie tv.