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Appunti in corso d’Opera: Otello, Del Monaco e la mutevole perfezione di un capolavoro italiano

di Federico Pariselli - 5 Gennaio 2017

Vi è una data, quella del 21 Giugno 2017, e un teatro, la Royal Opera House, in cui l’Otello verdiano andrà in scena per la prima volta interpretato dal discusso (nel bene e nel male, s’intende) tenore Jonas Kauffman nei panni del Moro, con Maria Agresta come Desdemona e Ludovic Tézier nella parte di Jago. Sul podio Antonio Pappano. Opera scivolosa, Otello: per la direzione, certo, nel gran lavoro di concertazione, ma soprattutto per gli interpreti.

Di quest’opera è stato detto molto in precedenza in altri articoli e da altri autori, approfondendo aspetti e tematiche varie. Ma trattandosi di un capolavoro basilare si potrebbero captare anche minuzie isolate e parlarne per giorni rimanendo sempre nella sfera del lecito. Quello che si intende fare qui è captare per un attimo in minuscole istantanee una messa in scena reale, vedere Otello dal vivo, approfondire cosa rappresenti per un tenore in carne ed ossa la rappresentazione di questo personaggio.

La storia ci insegna che se gli appassionati si schierano nel difendere i loro preferiti la Querelle des Bouffons al confronto sembra un amabile thè e biscotti tra amici. Ma i cantanti son pur sempre divi (altrimenti che gusto c’è?); non ai livelli di una volta, certo, quando si faceva fischiare il rivale o si gareggiava a chi teneva di più l’acuto e l’applauso per lui/lei era più scrosciante, con buona pace del compositore (Verdi d’altronde era morto e non poteva più indignarsi, ma aveva già avuto modo in vita di assistere ai prodromi di una moda che ha investito l’opera almeno per tutta la prima metà del Novecento).

Provate a sentire questo Esultate di Francesco Tamagno, il primo Otello della storia. Si tratta di una pionieristica incisione primo novecentesca con accompagnamento al pianoforte che gìa dice molto di un gusto divistico che iniziava a diffondersi, consistente nel prendere pezzi isolati facendone motivo di virtuosismo e mantenendoli “in baule” come cavallo di battaglia. Constatate voi stessi che l’Esultate dura circa un minuto di orologio. Tanto, troppo.

D’altronde sembra che la brutta abitudine di Tamagno di “liricizzare” e rallentare brani per loro natura movimentati e drammaturgicamente brucianti fosse recidiva. Sentiamo “Ora e per sempre Addio”, dal duetto con Jago del secondo atto, quando Otello, avvelenato dalle parole di Jago, prende coscienza del tradimento già consumatosi (secondo lui e in parte secondo noi) in passato e della fine del suo amore per Desdemona.

Il ritmo è estenuante. Il brano dovrebbe configurarsi alle orecchie dello spettatore come un (falso) tempo chiuso che si inserisce nel flusso drammatico di una conversazione ansiosa, in un’atmosfera chiusa e morbosa di torbida follia. Ma d’altronde l’incisione doveva essere venduta, occupare uno spazio sonoro. Impossibile occupare solo pochi secondi.

Al di là di tutto, bei tempi, quelli dei grandissimi divi, ormai perduti.

Veniamo al sodo. Il protagonista, il tenore: Otello ha fatto la sua storia in Italia con Mario Del Monaco, che secondo il sottoscritto li batte tutti, persino Pertile, Lauri-Volpi o (udite udite) Ramon Vinay,  che tra i cantanti della generazione precedente a D. M. si piazzano comunque tra i migliori. Di essi è possibile ancora ascoltare con audio decente qualche spezzone dell’opera registrato in studio.

Frammenti di storia, tecnica e interpretazione sublimi, respiro, espressione e dramma. Ma Del Monaco era Del Monaco: la sua voce era tutto questo ma in più c’era quella fermezza, quella “declamazione” (in realtà sarebbe scorretto definirla tale) dei toni unità alla melodicità del fraseggio, quella spinta sempre verso l’alto (certamente caratteristica in toto di tutti i personaggi che interpretò) ma in Otello meravigliosamente ad hoc. Si badi bene, un’interpretazione non verista, “urlata”. Mi si scusi l’ovvietà, ma tra i moderni è Domingo a vincere un buon secondo posto, e direi trionfalmente: la sua tecnica, non particolarmente adamantina (almeno non quanto D. M.) negli acuti, timbricamente quasi baritonale, ugualmente capace di reggere il declamato, lo rende adatto ad una parte che di acuto ha pochissimo o niente se pensiamo ai do di petto o ai sovracuti. L’interpretazione è grandiosa, la recitazione è sublime. La bellezza di questa interpretazione del 1991 raggela il sangue nelle vene.  Questo è Otello.

Perché Otello è un personaggio moderno: in lui non vi è più rotondità di belcanto, ma quella nuova maniera di muoversi sulla scena che i giovani attori Shakespeariani come Eleonora Duse e Giovanni Emanuel portavano sui palcoscenici della nuova generazione, dove si singhiozzava, si fremeva istericamente, si gemeva con frasi spezzate. La tessitura di Otello si assesta nella zona del Si Bemolle, non è particolarmente acuta (per intenderci, il Si bemolle si trova un tono sotto il cosiddetto Do di petto, croce e delizia di tutti i tenori, il loro “marchio di qualità”). Si ascoltino le recite di Otello che Domingo fece tra i 35 e i 45 anni, in particolare quella magica sera del 7 Dicembre 1976, quando Carlos Kleiber era sul podio e l’Italia tutta per la prima volta vedeva la prima scaligera in diretta TV: tutto perfetto, compresa la giovanissima Freni-Desdemona e il geniale Cappuccilli-Jago; Domingo al massimo della forma vocale. Qui c’è la rappresentazione  integrale.

Otello dunque non risulta difficile tanto per gli acuti, quanto soprattutto per agilità ed interpretazione: è un personaggio raro, richiede preparazione tecnica, fisiologia adatta, labor limae di introspezione (fino alla fine Del Monaco nelle interviste non smise di sottolineare questo aspetto, lui che nell’interpretazione buttava dionisiacamente l’anima: in alcuni video l’esagitazione lo porta ad alzare le pupille al cielo) e, dulcis in fundo, mutevolezza. E proprio quest’ultima  può determinare la “caduta” del dramma.

– MUTEVOLEZZA –

Perché tutto muta, senza che ci accorga di ciò: mutano i personaggi, mai univoci, muta l’atmosfera verso la catastrofe, e mutiamo noi spettatori, ingannati, che attraverso il filtro di Otello cerchiamo conferme in un mondo che ormai della non ha più nulla. Persino Jago, che inganna gli altri, inganna anche se stesso. E persino Desdemona, che crediamo essere nel giusto, ha ingannato Otello, perché si è innamorata delle sue parole e non del suo cuore. Bene e male sono un ricordo lontano, la ragione con loro.

Quando il 5 Febbraio del 1887, all’inizio dell’era crispina, l’Otello andò in scena  per la prima volta alla Scala, niente era più come prima. Fu un successo clamoroso, ma non per tutti. Verdi non era più quello di prima? Verdi imitava Wagner? Neanche per sogno: uno come lui, italiano dalla testa ai piedi, aveva sempre pensato con la propria testa e di sicuro non avrebbe smesso di farlo a 74 anni. D’altronde studiosi vari asseriscono che l’uso verdiano dell’armonia nel tardo stile sia ancora più avveniristica di Wagner e abbia punti di contatto con Richard Strauss (armonia non funzionale). Testiamo tutto ciò con un tuffo nel sublime: il duetto d’amore del primo atto, dalla splendida registrazione Del Monaco-Tebaldi con Karajan sul podio.

https://www.youtube.com/watch?v=3s89wZW0ik4

Udite le modulazioni  e l’uso degli accordi.  Moderne, personali, efficaci.

E quelle “solite vecchie forme”?

Se uno ascolta bene l’opera ci sono ancora: ma non hanno lo stesso ruolo di prima, è tutto sconvolto. Barlumi di ragione dissolta poggiati su fondamenta di fango. Eccezioni che confermano la regola, insomma. Ma perché? I formalisti, quelli che a partire da Busoni criticavano l’opera solo per le sue forme (ancora fino a poco tempo fa), non avevano capito che le forme non sono che uno specchio dei contenuti: è nel messaggio, prima ancora che nei cantabili e nelle cabalette, che Verdi compie ancora una volta la sua rivoluzione, crea il suo personale decadentismo. La realtà italiana (ed Europea tout court) fin de siècle è costellata di incertezze, inafferrabile, i dogmi mazziniani sono esauriti, quei barlumi di razionalità andati via per sempre. Solo illusioni per una patria che dopo esser stata creata sopravvive in balia del conformismo dilagante, con buona pace delle rivoluzioni passate. E’ un mondo che cambia, e con esso la percezione del reale da parte prima di tutto del compositore, poi dei personaggi e infine di noi stessi, che cerchiamo appigli nella giustizia trionfante e nelle belle forme del Trovatore, che crediamo di aver capito ma che in realtà non abbiamo capito per niente .

E nel messaggio di Shakespeare Verdi fa confluire anche la bella politica italiana, quella delle parole “Dio, Patria, Sangue e Famiglia” che prima erano tanto belle e sacre ma che ora svuotate di senso suonano così tanto di populismo (un’opera fin troppo attuale dunque: 35 anni prima fascismo Verdi preconizzava un secolo intero).

E da qui un Otello che ad ogni battuta della partitura non è più quello di un secondo prima, perché il dubbio si impadronisce delle sue facoltà razionali, fino al loro completo dissolvimento. E quei segni di certezza, quelle parvenze di forme chiuse che ancora si trovano qua e là? Trappole per topi, perché o il dramma è immediatamente rimesso in moto oppure si tratta di stazioni fallacemente ingannatorie. Non un Manrico che muore  e si immola ma col sangue uccide il malvagio, non un Dio che assiste i buoni: qui Dio è un burattino vendicatore, il sangue scorre a fiumi per nulla, la giustizia è desiderio di morte e di azioni empie.

E allora cosa ci si aspetta da un cantante che interpreti Otello?

Che sia predisposto certo, ma che sappia mutare, piangere, gioire e fremere nell’arco di un solo verso, trasformarsi da innamorato a potenziale assassino nel giro di poche note, spergiurare, combattere, comandare, amare, temere, impazzire, odiare, intimorirsi, sbraitare, vendicarsi, pentirsi, disperarsi, morire. Si, il tenore deve fare tutto questo. Del Monaco ci riusciva, a dispetto delle critiche. Si sente spesso dire che il suo era un Otello “verista”, e che Verdi non avrebbe apprezzato, che Del Monaco uccideva il belcanto: che vuol dire verista? Vuol dire urlato? Del Monaco non urlava: con quella tecnica dell’affondo imparata in gioventù che tanti imitano senza saperla padroneggiare creava solidità facendo poi risuonare la voce in maschera: il risultato era quel timbro squillante, solido, pieno di armonici che noi tutti oggi conosciamo. E su questa voce ceava il resto. Se Verdi avesse udito Del Monaco avrebbe fatto un balzo sulla sedia.

https://www.youtube.com/watch?v=i52KoYPSp-8://

Dire poi che Otello debba essere belcantista significa commettere quantomeno un errore storico, perché Otello è tutto il contrario. Si metta sul piatto del giradischi quell’istante prima del giuramento del secondo atto, quando ricevuta da Jago la confessione-menzogna che Cassio possiede il suo fazzoletto , Otello medita vendetta, e al termine di quello che ha tutta l’apparenza di un tempo di mezzo con coupe de theatre egli canta “nelle sue spire d’angue l’idra m’avvince, ah sangue! Sangue!! Sangue!!!” : ripete “sangue” tre volte, in crescendo, mentre l’orchestra modula su accordi che salgono cromaticamente fino a sfociare nella “cabaletta” successiva. E Del monaco cresce, come vuole Verdi, è agitato, fremente, il pathos è alto, il terzo “sangue” è quasi gridato, sublime.

Nel “Dio mi potevi scagliar”, celebre monologo di imprecazione: cosa si chiede al cantante? Tutto il contrario che essere monocorde.

https://www.youtube.com/watch?v=q-D5MAmw79M

Nella scena, fisicamente e psicologicamente spossato, egli gravita zoppicando tra la disperazione, la vergogna, la pena e la vendetta. E poco importa che il cantante faccia bene le note acute, se sbaglia l’interpretazione di tutto il resto. Lasciatemi spezzare poi una lancia anche per Karajan, che nella storia dell’interpretazione di quest’opera segna senza dubbio un culmine nella lettura e nell’esegesi della partitura.

Il genio di Verdi sta proprio nel fatto di sapere bene ciò che voleva, e di creare ancora una volta un capolavoro senza rinnegare la tradizione, ma smontandola e rimontandola dall’interno. Domingo possiede lo stesso tipo di “declamato”: la sua interpretazione del 1976 lascia senza parole: Finchè era in forma, faceva sognare. Nel duetto d’amore lasciava intravedere sprazzi di amorosa tenerezza, e nel “Niun mi tema” muore piangendo come pochi altri. Il trucco di Otello sta nel non sfociare mai nel patetico, nell’evitare di spegnersi come voce in quei pianissimi anche se ci sono quattro “p”: non troppo amante dunque, né troppo guerriero. Una via di mezzo, ma assolutamente evitando la noiosità. Una parte difficile sì, e forse per questo mai totalmente perfetta. Aspettiamo di vedere Kauffman, nel frattempo beiamoci di un’opera che nell’Italia di fine secolo ci ha riportato in alto, molto in alto, di fronte all’Europa dell’Arte.

Federico Pariselli

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