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Per una poetica della “macchina”

di Artin Bassiri Tabrizi - 23 Aprile 2020

Prokofiev e il suo tempo

Una delle descrizioni più puntuali e ispirate concernenti l’opera e l’immaginazione di Sergej Prokofiev appartiene ad Alfred Schnittke. Si tratta di un discorso che il compositore russo-tedesco tenne in Germania in occasione della celebrazione del centenario dalla nascita di Prokofiev nel 1991. Egli delinea brevemente quelle che sono le drammatiche complessità delle vicende che hanno costeggiato l’attività creativa di Prokofiev e che costituiscono ancora oggi le difficoltà principali, da parte della ricerca musicologica e storica, nell’approcciarsi a questo grande compositore. Ad una critica stilistica, che concerne quindi l’aspetto formale delle sue opere, si vengono a sommare quesiti e dubbi risalenti al suo definitivo ritorno nella Russia staliniana (nel 1933 egli accettava infatti la cittadinanza sovietica). Se si esaminano alcuni dettagli della sua vita, emerge tuttavia un quadro più contorto di quanto la critica voglia considerare, a cominciare dalla sua morte. Il 5 marzo 1953 non rappresenta solamente il giorno della morte di Prokofiev, ma anche – significativamente – quella di Iosif Stalin. Questa “sovrapposizione” è esemplare: nel tumulto che segue la morte del leader politico della seconda potenza economica mondiale, il funerale di Prokofiev non venne celebrato che solo tredici giorni dopo, e vi parteciparono solo una trentina di persone. Come scrive Alex Ross ne Il resto è rumore, la vicenda assumeva un carattere quasi ironico: “Mentre le masse si muovevano lungo un viale verso la Sala delle Colonne, il feretro di Prokofiev fu trasportato nella direzione opposta su una strada vuota”.

Un altro particolare che sancisce una mancata coincidenza tra Prokofiev e il suo tempo, è il confrontare la glorificazione che ha seguito la morte di Dmitri Shostakovich – di una generazione più giovane di Prokofiev, nonché suo grande ammiratore – con quella, mancata, di Prokofiev stesso. Un confronto del genere, che si rivela quasi imbarazzante, ci rammenta che i tentativi di Prokofiev di collimare la sua estetica all’ideologia staliniana erano sfociati in una disfatta. Tentativi maldestri, che non nascondono una perpetua dissimmetria di intenti, che mostrano cioè come le intenzioni stesse di Prokofiev non fossero evidenti. Seguendo le parole di Schnittke, le vicende di Prokofiev sono percorse da interferenze del destino, come quando, recandosi negli Stati Uniti alla ricerca di gloria, venne ostacolato prima dalla diffusione dell’influenza spagnola – che bloccò il suo debutto a New York nel 1917 – e successivamente dal fallimento nel tentare di commissionare la sua opera L’amore delle tre melarance.

La vita di Prokofiev, costellata da numerosissimi viaggi, è inizialmente stabile, fino al conseguimento degli studi. Segnalatosi al Conservatorio di San Pietroburgo quale enfant prodige – sebbene già chiaramente terrible – Prokofiev entra subito nelle grazie di Glazunov e Rimskij-Korsakov. Le prime composizioni accademiche rivelano l’insolente ed esuberante inventiva del giovane ucraino, che già manifesta in embrione quelle che sarebbero diventate le costanti del suo sentire musicale: l’attrazione per un sarcasmo selvaggiamente dissonante unita a un’incontenibile predisposizione al lirismo melodico, l’esplorazione cromatica dei limiti del sistema tonale di Skrjabin, e una non meno forte tendenza verso il neoclassicismo riprendendo Haydn. Genio bifronte, che unisce a un’aspra e ruvida percussività eguale talento romantico, Prokofiev incarna ciò che Michael Bachtin, teorico della letteratura, definì il “carnevalesco”, il gusto per la farsa, la parodia. La mistica grandiosità di Skrjabin si fonde con il raffinato, aristocratico humour delle sonate di Haydn.

Successivamente, nei Diari, Prokofiev stesso avrebbe ravvisato nella propria musica cinque indirizzi principali: uno classico, uno moderno, uno motorik, uno lirico e infine uno grottesco. Indole di una spietata e frivola glacialità, il suo impeto propulsivo ben si adatta all’evocazione ritmica dei meccanicismi dell’era industriale. Si può parlare, per Prokofiev, di una vera e propria poetica della macchina: le composizioni che precedono l’adesione, più o meno sentita, al regime di Stalin, ostentano un gusto percussivo per la crudeltà e per una musica contaminata dall’interno, in cui le dissonanze sembrano propagarsi nel tessuto armonico come un’infezione. Il linguaggio tonale allargato, in cui la congerie di note estranee trasportano melodie di ampio respiro lontano dalla tonalità di impianto, non deborda però mai fuori dai binari della tradizione, alla quale Prokofiev, in un’Europa in cui impazzava l’atonalismo di A. Schönberg, si sente in fondo ben ancorato. Splendida sintesi di questo periodo è la terza Sonata per pianoforte, in un unico, scarlattiano movimento di elettrico virtuosismo, che fu pubblicata nel 1917 da un abbozzo d’après des vieux cahiers risalente agli anni del Conservatorio.

In molti si sono chiesti se Prokofiev, tornato in Russia nel 1927 e poi definitivamente nel 1938, si allineò all’ideologia staliniana per opportunismo oppure attratto da un’infantile ingenuità. Già negli anni della prima guerra egli si era dimostrato sorprendentemente avulso rispetto agli eventi della storia: il lirismo imperturbato delle sue composizioni risuonava sfrontatamente nel contesto apocalittico dell’Europa, mentre Prokofiev era impegnato in un’escursione di piacere nel Caucaso. Nel corso dei suoi viaggi egli di certo si dimostra consapevole degli strumenti di controllo esercitati dal potere sovietico (scrive nei suoi Diari di strani clic nelle cabine telefoniche, di sapersi inseguito dai servizi segreti), eppure ciò non gli impedisce di rientrare volontariamente, per l’ultima volta, in Russia. Indubbiamente Prokofiev riteneva di essere al di sopra di certe limitazioni politiche. Se da un lato compositori come Šostakóvič e Stravinskij si adattano con maggiore facilità alle tendenze dell’epoca, dall’altro lato Prokofiev scrive: “[Stravinskij] desidera ardentemente che la sua creatività si conformi alla modernità. Se voglio una cosa, è che la modernità si conformi alla mia creatività”.

A metà degli anni Trenta quell’ora è arrivata. Votatosi a quella che definisce una “nuova semplicità”, che trova le sue matrici nella tradizione classica e romantica, Prokofiev riconoscerà nell’ideologia del realismo socialista una coincidenza d’intenti con la sua poetica. Saturo ormai delle dissonanze percussive e aspre della gioventù egli si ripiega su un lirismo più conservatore e una forma più armoniosa e tradizionale. Nell’epoca della completa politicizzazione dell’arte nei regimi autoritari, neanche Prokofiev vi fa eccezione: sedotto dal mecenatismo dello stato centralizzato, i dubbi passano in sordina di fronte al timore della distruzione. Il primo lavoro sovietico ufficiale fu il balletto Romeo e Giulietta (1935), in cui i filoni trovano il loro equilibrio, al quale segue una prolifica collaborazione con il regista Sergej Eisenstein, per il quale comporrà anche le musiche per Alexander Nevskij (1938) e Ivan il Terribile (1944).

Il tentativo di adeguarsi al programma staliniano non fu certamente senza difficoltà: per quanto si sforzasse in composizioni propagandistiche, non sempre Prokofiev riuscì a cogliere nel segno. Certamente le forme strumentali erano meno soggette a questo tipo di controllo: le suggestioni belliche delle ultime tre Sonate per pianoforte, così come la Quinta sinfonia, in scala beethoveniana, furono accolte dal plauso generale. Eppure, si possono rintracciare “tra i righi” qualche sintomo di una non totale convergenza con le disposizioni politiche ufficiali. A conclusione del movimento finale della Quinta sinfonia, scrive Alex Ross, prende “il sopravvento una specie di musica meccanica dissonante e tagliente, nello stile diabolique della gioventù di Prokofiev […], c’è un improvviso diminuendo, seguito da un suono che ricorda il cigolio di un ingranaggio.”

Quello che, secondo molti critici, costituisce l’apice di tutta la potenza creatrice di Prokofiev – l’opera Guerra e pace, ispirata al celebre romanzo di L. Tolstoj – è anch’esso sintomo della stravaganza che caratterizza l’indole di Prokofiev. Sebbene i richiami a Tolstoj e alla vicenda originale – che raccontava, mescolando genialmente vicende personali ed eventi storici, il periodo delle invasioni napoleoniche – avesse un’eco nell’offensiva che Hitler stava muovendo contro l’Unione Sovietica (a partire dal 1941), certamente non è immediato qualificare come spiccatamente nazionalista il comportamento di Prokofiev. Egli aveva optato di musicare un capolavoro inciso nel pantheon della cultura russa proprio per tentare di realizzare l’opera sovietica per eccellenza, quasi per colmare un debito nei confronti della sua patria. Eppure, egli dovette rimaneggiare più volte la partitura originale, considerata dalla commissione sovietica manchevole di roboante spirito patriottico; Prokofiev non vide mai la prima esecuzione integrale – comprendente tutti tredici i quadri – della sua opera, che vide luce solo nel 1957, al teatro di Mosca. Nel correggere la sua prima versione egli dovette rinunciare al finale originale del dramma tolstoiano – che si concludeva con una meditazione sull’insignificanza dell’uomo di fronte alle forze della storia, per andare incontro alle direttive dell’ideologia sovietica, impiantando elementi di carattere trionfalistico. Nonostante il compromesso con le sue intenzioni originarie, dal punto di vista musicale Prokofiev raggiungeva qui un tipo di lirismo nuovo, “stuzzicando ripetutamente la linea vocale fino al suo massimo registro su sillabe non accentate, in modo sorprendentemente contrastante con la sua idea precedente di bellezza declamatoria” (Richard Taruskin, On Russian Music 2008).

Il fatto che Prokofiev non riuscì mai ad assistere all’esecuzione integrale di Guerra e pace fu per lui distruttivo. Aveva affermato ad un collega “sono pronto ad accettare il fallimento di ciascuno dei miei lavori, ma se tu sapessi quanto desidero che Guerra e pace veda la luce del giorno!”. Ma la vera tragedia nell’esistenza di Prokofiev, per Schnittke, consisteva nel non aver accettato l’elemento tragico. Basti pensare a come Prokofiev, che tanto si era interessato alla filosofia di Schopenhauer (egli girava spesso con i suoi Parerga e Paralipomena), non ne accettasse l’esito tremendamente pessimistico, la concezione di noluntas che esigeva un ripiegamento della volontà su se stessa, una forma di auto-annichilimento. Ecco perché la sua Quinta Sinfonia è scritta con una forza ed un’energia giovanile, mostrando un’individualità che non voleva affatto piegarsi alle ombre del reale; per queste ragioni, si era creato uno iato, una frattura insanabile tra l’esterno e l’interno, tra Prokofiev e “il suo tempo”. Questa frattura richiama a suo modo l’ambivalenza secondo la quale è stata giudicata spesso la stessa musica di Prokofiev, secondo Schnittke:

“Per troppo tempo questa musica estremamente seria è stata giudicata solo per la sua audace forma esteriore, mentre la sua essenza interiore, dal profondo sentimento, è stata ignorata. Si notò solo il luccichio carnevalesco del guscio esterno e non si prestò alcuna attenzione all’austera serietà del suo interno, che assicurò che la sofferenza non si riversasse e inondasse tutto. E c’era un elemento serio in Prokofiev, sin dall’inizio.”

Sembra quindi, che Prokofiev si sia scontrato con quelli che sono, se vogliamo, alcuni “limiti” della musica: essa era stata  (sebbene ora anche questo dogma stia crollando) in qualche modo squalificata dal regno del significato, sconfinata nel mondo delle apparenze fuggevoli che certo, affèttano l’uomo ma non hanno un potere paragonabile a quello del linguaggio; ma il pratico e glaciale Prokofiev si è trovato ad operare nel mondo delle macchine con un’arma scarica, cercando in tutti i modi di restare all’interno di essa ma spingendola nei suoi punti limite. Così, se egli non può dire il presente può tuttavia farcelo ascoltare: ingranaggi e ticchettii, marce e trombe, rombi e deflagrazioni sono onnipresenti, una forma di promemoria della modernità per la modernità.

 
 

Artin Bassiri Tabrizi ed Ester De Stefano

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Dottorando in filosofia all'Università di Strasburgo (ACCRA), già laureato all'EHESS di Parigi e diplomato al Conservatorio F. Morlacchi di Perugia. Segretario artistico di Roberto Prosseda, collabora per diverse riviste.

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