L’ironia in musica – Šostakovič
di Matteo Macinanti - 14 Giugno 2016
“La mia musica non è mai come appare, si nasconde.”
Queste sono le parole di un grande compositore russo la cui vita si è svolta lungo buona parte del “breve” XX secolo.
Dmitrij Šostakovič nasce infatti solo un anno dopo lo scoppio della rivoluzione del 1905.
Il contesto socio-politico nel quale si svolge l’esperienza artistica del compositore di San Pietroburgo è inserito quindi in un periodo di profondi sconvolgimenti bellici e sociali.
Parlare del rapporto che lega Šostakovič al regime sovietico esulerebbe dagli intenti di questo approfondimento; basti dire che esso ha avuto un’importanza non indifferente nella vita del compositore russo e che ha determinato molte delle sue composizioni.
La labilità di questo rapporto, peraltro, è sintetizzata molto bene in una stessa frase di Šostakovič, il quale afferma:
“artista del popolo, amico del popolo, nemico del popolo: sono stato tutto questo, hanno deciso che sono stato tutto questo…”
Difatti molta, non tutta, l’esperienza compositiva dell’autore ha suscitato reazioni accese e spesso contrastanti da parte del potere.
Basti citare l’interdizione che subì l’opera “Lady Macbeth nel distretto di Mcensk”, vista come un attacco alla persona di Stalin e considerata “inadatta al popolo sovietico” dalla Pravda, il quotidiano ufficiale del Partito Comunista.
È del 1940, al contrario, la premiazione ufficiale da parte dello stesso Stalin del “Quintetto per pianoforte e archi”, che valse a Šostakovič il riconoscimento di “amico del popolo”.
Questa contestualizzazione potrebbe sembrare quasi accessoria, considerato il tema portante dell’articolo (l’ironia in musica), ma è invero significativa.
La musica di Šostakovič, secondo le sue stesse parole, partecipa infatti di una doppia natura: un primo livello disimpegnato, a volte infantile, che si combina con secondo livello dall’aspetto più grottesco e deformato.
E se è vero, come abbiamo detto, che l’ironia è “un modo per guardare alla realtà in modo tale da cercare ulteriori strati di significato oltre alla semplice e manifesta epidermide superficiale”, allora iniziamo a capire come questa compresenza di piani porti inevitabilmente alla conduzione di un discorso musicale ironico.
Tra le molte composizioni che si potrebbero prendere in esame, ci soffermeremo su alcune sinfonie e su un lavoro cameristico.
“Voglio difendere il diritto di ridere all’interno della cosiddetta musica seria… Quando gli ascoltatori ridono ad un concerto con musiche sinfoniche mie non sono turbato, ma, al contrario, me ne compiaccio”
La produzione sinfonica di Šostakovič, che si colloca ai vertici del sinfonismo novecentesco, risponde non raramente ad un’esigenza ben precisa: dichiarare apertamente la propria fedeltà al regime di Stalin.
È per questo motivo che, in molte parti delle sue sinfonie, il compositore inserisce sezioni celebrative degne di un triumphus romano.
Fin qui niente di più di un mero esempio di come la musica, sin dai tempi del Medioevo, possa fungere da “stendardo fonico” (Cimagalli), ossia simbolo sonoro di un gruppo sociale, di un sovrano, di un dittatore (come la fin troppo nota associazione Hitler-Orff) ecc…
Ma, dando credito peraltro alle parole dello stesso Šostakovič, si può avvertire un
sub-livello di significato: l’eccessiva retorica magniloquente che contraddistingue tali sezioni celebrative fa sì che esse risultino delle vere e proprie “marche” dell’ironia.
Qualche esempio.
Prendiamo il primo movimento della Sinfonia n. 5.
Già dalle prime battute sembrerebbe quasi di ascoltare una rivisitazione in chiave novecentesca, e di conseguenza distorta e dissacratoria, dell’incipit della Sinfonia n.4 del lontanissimo Brahms (l’unica cosa che accomuna i due è una certa concezione monumentale dell’architettura sinfonica).
La prima idea tematica, caratterizzata da intervalli ampi e da un periodare piuttosto frastagliato e aspro, sembra ricalcare da vicino quello, indubbiamente più melodico, dell’ultima sinfonia brahmsiana.
Ascolta qui il confronto:
–Brahms
–Šostakovič
Se, come si è avuto modo dire nell’introduzione a questo approfondimento, la rielaborazione parodica è una delle modalità proprie della tecnica ironica, il primo movimento, però, non esaurisce così la sua scanzonata ironia.
Dopo questo esordio esasperato, la composizione subisce un calo di tensione che, per la verità, funge da momento gestatorio di un grande crescendo tensivo, sonoro e massico in cui l’atmosfera sonora si rannuvola, dando la sensazione di essere a pochi istanti dall’esplosione di un violento nubifragio.
È proprio quando sembra che il climax stia per raggiungere il suo apex, che il compositore inserisce una banale marcetta da fanfara, affidata agli ottoni sul ritmo ostinato del tamburo, che, di fatto, si presenta come un anacoluto musicale (v. introduzione).
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La deformazione grottesca che risulta da questo episodio può davvero essere letta come una sorta di “pernacchia musicale” carica d’ironia, rivolta allo stesso destinatario della sinfonia, ossia il regime sovietico.
Il momento, però, in cui il compositore brilla la sua mina ironica più potente è quello del finale dell’ultimo movimento della sinfonia.
Questo epilogo appare così trionfalistico ed esasperato (non troppo dissimile da quello, dichiaratamente beffardo, di “Embryons desséchés” di Satie), da togliere ogni dubbio sul suo intento ironico e derisorio.
“Di cosa si dovrebbe giubilare. Ritengo sia chiaro quel che accade veramente nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costruzione […]. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: “Il tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare”. E tu ti rialzi tremante con le ossa rotte e riprendi a marciare bofonchiando: “Il nostro dovere è di giubilare, il nostro dovere è di giubilare.” (S. Volkov “Testimony”)
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Guardando anche soltanto agli archi e al loro movimento inchiavardato su un’unica nota ineluttabile e inesorabile, possiamo dire di assistere ad un momento in cui la reiterazione esasperata, come diceva il filosofo Bergson, risulti essere indice di un inevitabile procedimento ironico.
Parlando di ripetizioni portate allo stremo, non si può, in questa sede, non citare l’episodio centrale del primo movimento di un’altra sinfonia, la Settima.
Nel corpo di questo movimento compare, in modo assolutamente repentino, un motivo di marcia da guerra che, poco alla volta, si trasforma e si distorce tramite un crescendo tensivo ottenuto con la ripetizione ostinata di questo tema, variato di volta in volta nell’organico e nell’intensità.
Le variazioni su questa marcia, dal sapore apparentemente innocuo e giulivo, hanno in sé una forte carica ironica e satirica, ma allo stesso terribilmente grottesca, dal momento che, questo ossessivo cantus firmus rappresenta, secondo le stesse parole del suo autore, “la guerra che irrompe improvvisamente nella vita pacifica.”
E Šostakovič non decide di “costruire un episodio naturalistico con tintinnare di sciabole, esplosioni e così via”, ma al contrario, il suo intento è quello di “ comunicare l’impatto emotivo della guerra”.
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Come ultimo esempio di ironia nella produzione sinfonica, se ne può prendere uno particolarmente emblematico che merita un’introduzione storica.
Composta ed eseguita per la prima volta nel 1945, la Sinfonia n. 9 nacque come l’epilogo di una trilogia sinfonica che fungesse da momento rievocativo delle sofferenze, lo sforzo e la vittoria del popolo sovietico nella guerra contro la Germania nazista.
La gioiosa vittoria viene però resa dal compositore non tanto con i soliti clichés encomiastici, bensì con un’atmosfera ilare e allo stesso tempo umoristica, tanto che lo stesso Šostakovič, presentando la sua ultima fatica, definita “un pezzetto allegro”, ebbe modo di dire che “i musicisti avrebbero provato piacere a suonarlo ed i critici si sarebbero deliziati a stroncarlo” .
La reazione della critica difatti fu subitanea: dell’opera vennero subito biasimate il cinismo e la “fredda ironia” (sic).
Si potrebbe scherzosamente affermare che l’unica arma per ovviare alla cosiddetta “maledizione della nona” (superstizione nata dall’associazione tra la composizione della nona sinfonia e la successiva morte del compositore), in questo caso, sia stata proprio l’ironia, quella risorsa che permette di non essere soggiogati alla paura della morte, come afferma il vecchio Jorge ne “Il nome della rosa” di Eco.
Se, per quanto riguarda la produzione sinfonica del compositore russo, possiamo parlare di “musica esposta”, nel versante cameristico la situazione è profondamente differente.
Tenuta nascosta per molti anni a causa della censura verso tutto ciò che non fosse trionfante o di matrice popolare, la produzione cameristica di Šostakovič rappresenta il suo “cantuccio manzoniano”. Essa diventa per lui un rifugio segreto, il suo luogo creativo più intimo, dal momento che non è obbligato a comporre musica encomiastica e ufficiale.
Anche qui però possiamo notare alcune situazioni musicali che lasciano spazio a ipotesi sulle reali intenzioni dell’autore.
Soffermandoci in particolare sul Quintetto per pianoforte e archi si possono notare delle scelte stilistiche che nascondono all’interno un pensiero diverso da quello che appare a prima vista.
Innanzitutto il quintetto si può definire, generalizzando come la rivisitazione di un barocco ormai deformato (Cappelletto)
Lo stesso primo accordo iniziale sembrerebbe richiamare, a mo’ di ipotesto, l’inizio di una Fantasia e Fuga di J.S. Bach, ma i rimandi bachiani sono molteplici.
Un’altra tecnica che garantisce un’ambientazione grottesca è il particolare utilizzo del pedale, ossia una nota allungata a dismisura, che nella musica barocca veniva usata al basso come sostegno per le voci superiori.
Ebbene, anche in questo quintetto troviamo dei pedali, ma completamente deformati dal momento che essi si trovano non nelle sonorità più gravi e di sostegno, bensì nel registro altissimo della voce superiore (il violino).
Frequenti sono anche le decezioni musicali; esempio sommo è il passaggio tra il quarto e il quinto movimento: l’ascoltatore, venendo da un’atmosfera tragica, ottenuta anche con il particolare uso dei già citati “pedali sopraelevati”, si ritrova immantinente in un panorama sonoro completamente differente.
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La “fredda ironia” della quale si serve Šostakovič, non permette di rimanere inebetiti, immersi nell’eterea cantabilità struggente del movimento, ma con un colpo d’accetta (l’apocope è peraltro segnalata in partitura da un perentorio “Attacca”) fa sopravanzare l’Allegretto, smanioso di dire la sua, e la sua giocosità briosa.
Šostakovič con il Quartetto Borodin negli anni ’50
Per concludere, si può dire che questa doppio binario dato dalla coesistenza di elementi tragici e altri ironicamente disinvolti ( che, come dirà Šostakovič stesso, proviene dalla musica denominata “klezmer”, ossia l’insieme delle tradizioni musicali nato dall’incontro tra la cultura yiddish con le musiche europee autoctone), rappresenta il vero fingerprint di buona parte della produzione del compositore russo.
Matteo Macinanti