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La Resistenza in musica

di Sebastiano Gubian - 21 Maggio 2024

Impegno e politica in due capolavori del secondo Novecento

È possibile dare voce alla Resistenza? La musica può diventare un atto politico? Queste domande furono centrali nel secondo Novecento e diventano indispensabili per trovare la chiave d’accesso a molte delle opere composte a quel tempo, in un’Europa divisa in due blocchi.

Determinante fu il dibattito tra intellettuali sul ruolo del musicista, in un periodo di grande partecipazione popolare alla politica come furono gli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1950 uscì L’artiste et sa conscience di René Leibowitz, uno dei più noti direttori d’orchestra, compositore e divulgatore della dodecafonia. In quest’opera Leibowitz cerca di ricordare all’amico Jean Paul Sartre, scettico, quanto la musica possa a tutti gli effetti rappresentare un’arte impegnata.

Sartre, in Qu’est-ce que la literature?, scriveva: «On ne peint pas les significations, on ne les met pas en musique; qui oserait, dans ces conditions, réclamer du peintre ou du musicien qu’ils s’engagent?». Tuttavia, egli accettò di scrivere la prefazione al libro di Leibowitz, dove si affermava esattamente il contrario: non è indispensabile che sia presente la parola, è il suono a comunicare il significato profondo dell’opera.

Come nel mirabile esempio del Sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schönberg, opera del 1947, dove si vedono ancora i vivi segni dell’Olocausto all’indomani della scoperta e della divulgazione al mondo delle atrocità del nazismo. Leibowitz considera quest’opera di Schönberg il perfetto esempio di una composizione a carattere politico.

Sarà proprio in questo capolavoro, poi, che Luigi Nono, tra i compositori più impegnati del secolo, pose il grado zero del suo lavoro. In un suo scritto, una sorta di contestualizzazione storico-genealogica della sua composizione Il canto sospeso per un programma di concerto al Teatro la Fenice di Venezia nel 1976, l’intento di Nono sembra essere quello di illustrare l’orizzonte compositivo europeo che ha posto le premesse alla nascita di questo lavoro emblematico.

Il canto sospeso, per coro, solisti e orchestra, mette in musica testi di condannati a morte della Resistenza, ma non quella italiana: testi di gente da tutta Europa. Umberto Eco auspicava che l’opera venisse fatta sentire in tutte le scuole, come un antidoto contro i fascismi vecchi e nuovi. La dimensione europea dell’idea di Resistenza che emerge da questo lavoro non va sottovalutata e fa comprendere perfettamente che non si tratta di una riscoperta attraverso la musica della memoria collettiva di un popolo, ma di un insieme di valori che trascende la stessa nozione di popolo, di confine, di lingua.

Di Nono si conoscono numerose opere a tema politico, ma ciò che colpisce è la coscienza che il compositore ha di ciò che lo ha preceduto e la volontà precisa di inserirsi in quel dibattito. Nono esprime chiaramente il bisogno di applicare alla musica le stesse domande e gli stessi problemi che sono comuni a tutte le arti, problemi autenticamente filosofici, che, secondo Nono, vanno ricondotti ai quesiti posti da Jean Paul Sartre in Qu’est-ce que la literature, da lui citati nella celebre conferenza di Darmstadt Text-Musik-Gesang (1960), e più volte ribaditi in interviste come assolutamente validi anche in musica.

Proprio in questa conferenza ritorna in evidenza il tema proposto da Sartre e discusso da Leibowitz: è la musica in sé o le parole ad incarnare il senso politico della composizione?

A proposito de Il canto sospeso, Nono aveva scomposto e destrutturato il testo tanto da non rendere intellegibili le parole nei cori; cosa che, a parere di Karlheinz Stockhausen, annullava l’effetto dirompente desiderato, depotenziandolo. Massimo Mila, però, in La linea Nono (A proposito de Il canto sospeso), contenuto ne La rassegna musicale, difende l’operazione di Nono riprendendo questo argomento: la musica in sé, senza bisogno di legarsi al linguaggio, può portare con sé tale senso.

“Non diversamente da quanto può avvenire nelle cabalette, il significato delle parole, qualunque sia il loro trattamento vocale, è salvo se viene sussunto e esaltato nella musica. Poco importa che la figura della parola vada stravolta, e la sua percepibilità annientata, sia per incongrue ripetizioni, sia per la lunghezza di vocalizzi, sia per spezzettamento tra le parti polifoniche, purché questo sacrificio non resti vano, e venga riscattato dalla pregnanza dell’espressione musicale.”

Come vediamo si tratta di un dibattito a più voci, dove le stesse argomentazioni vengono declinate caso per caso, ma sempre sentite con grande urgenza: la dimensione politica è infatti essenziale per contestualizzare correttamente l’intera musica del Novecento europeo. Anche in compositori la cui arte era meno esplicitamente impegnata questo elemento emerge con chiarezza, come nel caso di Iannis Xenakis.

Xenakis, come Nono, fu comunista, militò e combatté durante la Resistenza in Grecia. Quella stessa Resistenza greca a cui Nono diede voce in alcune parti de Il canto sospeso. E infatti nella sua genealogia di quest’opera, proprio dopo aver menzionato, cronologicamente, Il prigioniero di Luigi Dallapiccola, la Decima sinfonia di Dimitri Shostakovich, Déserts di Edgar Varèse e la Cantata da camera di Maderna, Nono scrive: «nel 1955 il greco Xenakis (condannato a morte dai fascisti greci per aver partecipato alla lotta di Markos) compone Metastasis sviluppando in modo originale una sua proposta musicale, unitamente alla conoscenza della scienza stocastica» .

La lotta all’eurocentrismo non fu certamente una prerogativa dei soli Nono e Xenakis: la stessa cerchia di Darmstadt fu aperta sempre di più a confronti con la musica dei paesi più sconosciuti e il dibattito sulla Weltmusik portò a scoprire, in ambienti professionali, culture musicali come quella giapponese o quella egiziana. Eppure, i due furono percepiti internazionalmente come simboli di una musica capace di portare fuori dall’era borghese e molte sono le testimonianze di questa ricezione.

La più iconica: durante le proteste sessantottine, al conservatorio di Parigi, gli studenti scrissero, polemicamente: «Xenakis, pas Gounod !».

Sebastiano Gubian

Autore

Sono un friulano in Germania, sono laureato in filosofia e in pianoforte ma ho voluto collegare i due mondi nel mio dottorato di ricerca a Berlino. Amo le fasce di confine tra i saperi, amo vedere la musica dialogare con le altre arti e le scienze.

So a memoria l’integrale del Commissario Montalbano e ho un debole per le esplorazioni con le carte geografiche.

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