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Il percorso sbagliato di Sofija Asgatovna Gubajdulina

di Carlo Emilio Tortarolo - 18 Marzo 2025

Spiegare la musica di Gubajdulina a chi non la conosce non è facile. Troppo sperimentale per chi ama le radici ben piantate nel passato, troppo mistica per chi vuole razionalità, troppo indipendente per essere incasellata in una scuola precisa. 

Si è spenta a 93 anni Sofija Asgatovna Gubajdulina, il 13 marzo scorso, una delle voci più affascinanti e mistiche della musica contemporanea. E come sempre, quando se ne va una figura di questa portata, scatta la solita frase: “la fine di un’epoca”. Scontato? Sì, ma anche vero. Perché con lei non se ne va solo una grande compositrice, ma un modo di pensare la musica come ricerca, come atto di fede, come tentativo di dare suono all’invisibile.

 E scommettiamo che nei prossimi mesi assisteremo a un bel revival della sua opera? Un po’ di cinismo musicale ci sta. Ma la verità è che la sua voce non smetterà di risuonare.

Spiegare la musica di Gubajdulina a chi non la conosce non è facile. Troppo sperimentale per chi ama le radici ben piantate nel passato, troppo mistica per chi vuole razionalità, troppo indipendente per essere incasellata in una scuola precisa. 

Ma proprio qui sta il bello. La sua musica non ammicca, non cerca scorciatoie, non si piega alle logiche di mercato. È pura adesione alla propria visione, senza compromessi. Una fedeltà che le è costata cara, specie negli anni sovietici, quando il suo linguaggio veniva bollato come “formalista” e “pericoloso”. Eppure, non si è mai fermata. E oggi, in un mondo che sembra scivolare di nuovo in una guerra fredda, la sua musica continua a parlare. Forte.

Un ponte tra i due mondi

Gubajdulina costruiva ponti (non in senso letterale ovviamente). Tra Oriente e Occidente, tra tradizione e avanguardia, tra passato e futuro.

Prendiamo Offertorium, il suo celebre concerto per violino scritto per Gidon Kremer: parte da Bach, dal tema del Musikalisches Opfer, ma non si limita a variarlo, lo dissolve, lo frammenta, lo trasforma in qualcosa di nuovo. Un viaggio sonoro che non distrugge il passato, ma lo fa risorgere in una nuova dimensione, come a voler riportare il suono alla sua essenza più profonda. Non è una semplice variazione, è una trasfigurazione.

E forse tutto questo viene dalla sua stessa origine: nata a Chistopol da un padre tataro musulmano e una madre russa cristiana ortodossa, ha sempre vissuto in bilico tra mondi diversi. Ma invece di scegliere, ha fatto dell’incontro il suo linguaggio. Un’eredità spirituale che si è trasformata in musica.

Non è un caso che la sua opera sia spesso associata alla spiritualità, ma attenzione: non nel senso di una musica “sacra” tradizionale. Gubajdulina non si limita a evocare il divino, lo cerca nel suono stesso, nelle sue vibrazioni, nel modo in cui una nota può risuonare nell’aria e trasformarsi in qualcos’altro. C’è una tensione costante tra l’ordine e il caos, tra la forma e l’abbandono: è questo che rende la sua musica così magnetica.

“Vai avanti nel tuo percorso sbagliato”

A dirglielo fu Dmítrij Šostakòvič. Lui, che di repressione artistica se ne intendeva, capì subito che quella giovane compositrice aveva qualcosa di unico. Quando il regime sovietico cercò di metterle i bastoni tra le ruote, le disse: “Continua per la tua strada, anche se dicono che è sbagliata”.

Ed è esattamente quello che ha fatto. In un’epoca in cui l’arte doveva servire lo Stato, in cui ogni nota, ogni scelta armonica, ogni dissonanza era passata al vaglio dell’ideologia, Gubajdulina scelse di resistere. Non si piegò alle imposizioni del realismo socialista, non semplificò il suo linguaggio per renderlo più accettabile. Andò avanti, consapevole che il prezzo da pagare sarebbe stato alto. E lo fu: ostracismo, difficoltà economiche, la sensazione costante di essere sotto osservazione. Ma, grazie alla sua stessa ostinazione, la sua voce non fu mai spenta. Anzi, paradossalmente, trovò ancora più forza proprio nelle difficoltà, affinando il suo linguaggio, rendendolo ancora più incisivo, ancora più essenziale.

Il suono come preghiera

Se esiste un filo conduttore nella sua opera, è l’idea che la musica possa essere un atto di fede. Non nel senso religioso stretto, ma come una forma di resistenza interiore, di ricerca dell’assoluto, un modo d’interrogare il mondo senza aspettarsi risposte facili.

E in questa fede, anche la matematica può tornare vantaggiosa. Perché per Gubajdulina i numeri erano un modo per avvicinarsi al divino, una chiave per entrare nell’ordine nascosto delle cose. 

E se tutto questo vi fa pensare a Bach, siete sulla strada giusta. Non a caso ha scritto opere come Johannes-Passion e Johannes-Ostern, dove il suono diventa un rito, un viaggio attraverso il dolore e la redenzione. Qui la narrazione biblica non è solo un pretesto per una grande architettura musicale, ma un viaggio interiore. L’orchestra, il coro, i solisti non sono meri interpreti: sono strumenti di un processo spirituale, di un rito che si compie attraverso il suono.

Un’eredità che non si spegne

La musica contemporanea viene spesso vista come difficile, di nicchia, roba da addetti ai lavori. Ma chi ha ascoltato Gubajdulina dal vivo sa che è tutto il contrario. La sua è una musica che colpisce, che non ha bisogno di spiegazioni per farsi sentire nel profondo.

In un’epoca in cui tutto è veloce, immediato, consumabile, Gubajdulina ci ricorda che la musica può essere ancora un luogo di silenzio e attesa, uno spazio per la contemplazione e per la scoperta, un luogo invisibile in cui il suono si fa preghiera.

E anche se non ha mai inseguito le mode, la sua influenza è ovunque. Nei compositori che hanno seguito il suo esempio, certo. Ma anche in tutti quei musicisti che, magari senza saperlo, hanno ereditato il suo modo di pensare il suono: come un’esperienza, un viaggio, una soglia da attraversare.

Oggi, mentre la sua musica continua a essere eseguita in tutto il mondo, il suo insegnamento rimane più attuale che mai. In un’epoca in cui tutto è veloce, immediato, consumabile, Gubajdulina ci ricorda che la musica può essere ancora un luogo di silenzio e attesa, uno spazio per la contemplazione e per la scoperta, un luogo invisibile in cui il suono si fa preghiera.

Forse è questo il suo lascito più grande: averci insegnato che la musica non è solo intrattenimento, ma una forma di conoscenza. E che, in un mondo sempre più rumoroso, il vero ascolto è un atto rivoluzionario.

Carlo Emilio Tortarolo

Autore

Direttore d'orchestra, pianista e manager culturale veneziano, Carlo Emilio è presidente di Juvenice - Giovani Amici della Fenice, associazione dai giovani per i giovani per la condivisione e la promozione degli spettacoli musicali, ed è segretario del Festival Pianistico ‘B. Cristofori’ di Padova.

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