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Il Don Juan di Strauss, un mito tra desiderio e dissolvimento

di Federico Pariselli - 21 Marzo 2017

La lettera del giovane Strauss datata il 7 Novembre 1889 al padre.

“Suona tutto in modo eccellente ed avviene in modo splendido, nonostante sia terribilmente difficile. Provai un vero dispiacere per i poveri corni e le trombe. Soffiarono fino alla nausea, è un lavoro talmente faticoso per loro… Il suono era bello con grande calore e sontuosità, l’intero evento farà un’incredibile impressione qui. Il suono era particolarmente bello nel passaggio in sol maggiore dell’oboe con i contrabbassi a quattro parti, i violoncelli divisi e le viole, tutti con sordina, e i corni tutti con sordina, suonava veramente magico allo stesso modo del complicato passaggio del bisbigliando dell’arpa e dei ponticelli delle viole… Una cosa buona è che nell’insieme il pezzo non è realmente difficile; è soltanto molto duro e impegnativo, ma cinquanta note in un modo o nell’altro non faranno certo alcuna differenza… La prova di ieri fu un successo ai miei occhi, dal momento che vidi che avevo fatto un ulteriore progresso riguardo a una certa sicurezza  nella mia scrittura per orchestra. L’orchestra sembrava godere dell’intero evento malgrado il comprensibile stupore di fronte a tali novità”.

In questa lettera del 7 Novembre 1889 il giovane Strauss descriveva al padre una prova del Don Juan con singole sezioni d’orchestra pochi giorni prima del debutto in cui avrebbe trionfato, secondo le sue stesse parole, in un “uragano di applausi”. Strauss diresse e preparò l’orchestra con grande meticolosità: nonostante Don Juan non fosse il primo poema sinfonico composto, fu il primo ad essere diretto, poichè Macbeth, la cui genesi risale a un anno prima, vide la luce sul palco solo un anno dopo a Weimar, il 13 Ottobre. Concentrando le nostre riflessioni su Richard Strauss ritorniamo qui sul grande ciclo dei poemi sinfonici, rivolgendo l’attenzione a quello che è legittimo considerare il primo grande capolavoro compiuto del genio di Monaco dopo la svolta wagneriana: Don Juan. Nell’articolo su Also sprach Zarathustra, poema composto e rappresentato nel 1896, si era detto che esso rappresentava un episodio cruciale nella concezione musicale del giovane compositore e nella storia stessa del poema sinfonico, in quanto Strauss vi immette probabilmente elementi ideologici personali, rielaborando o superando il riferimento letterario, e sceglie come programma narrativo non un testo letterario, bensì un trattato filosofico; porta inoltre ai massimi termini tutte quelle implicazioni ideologico-formali tipiche del sinfonismo programmatico da Liszt in poi. Ma avevamo anche sottolineato un aspetto fondamentale che in Strauss ricorre pressoché sempre: la straordinaria inventiva tematica e il ferreo controllo orchestrale. In poche parole Strauss è pienamente padrone della forma sonora e delle sue implicazioni armonico- timbriche e formali.

Torniamo ora indietro di 7 anni: tra il 1887 e il 1888 Strauss non è ancora famoso, compone Don Juan (Don Giovanni) e nel novembre 1889 lo dirige egli stesso al Teatro di Corte di Weimar. Ha appena ventiquattro anni, tanta voglia di emergere, e l’esordio avviene nel migliore dei modi. Ciò che salta subito all’occhio è l’estrema sovrapponibilità tra il tema trattato e le istanze vitalistiche e giovanili del suo autore, che nel pieno vigore della sua vita e probabilmente desideroso di mostrare al mondo il suo valore artistico, scelse un argomento adatto come pochi altri ad evocare un vitalismo prorompente: Don Giovanni, figura chiave della cultura occidentale e già protagonista di vari capolavori musicali (si pensi a Mozart o al Rigoletto verdiano), incarnazione dell’Eros inteso come desiderio di possesso e suprema istanza di sopravvivenza, colui che non ama le donne ma ama l’amore, ma soprattutto ama se stesso ed è assetato di ideali. La fonte fu trovata nel poema incompiuto Don Juan di Nikolaus Lenau (1802-50): per chiarire il proprio intento, il musicista riportò sulla partitura tre citazioni, relative la prima all’infinita ansia di piacere del protagonista: “vorrebbe percorrere il cerchio magico e immenso delle belle donne armate di mille seduzioni all’assalto del gaudio e sulla bocca dell’ultima morire nell’atto di baciarla”; la seconda all’accendersi di un desiderio sempre nuovo e diverso di fronte a ogni donna, quando fugge “la sazietà e la stanchezza del piacere; rendendo omaggio al bello seguito a mantener possente il mio vigore”, aggiungendo che “il profumo di una donna, il quale oggi simile m’è al dolce effluvio primaverile, mi soffoca domani quasi come aria di galera”; la terza alla “quiete dopo la tempesta”, quando ogni desiderio è apparenza di morte: “Fu bella la tempesta che mi ha agitato; ora è passata e rimane il silenzio. Ogni desiderio e speranza è apparenza di morte”.

Tirso da Molina nel 1630 aveva dato una vita letteraria a questo personaggio per la prima volta nella commedia El Burlador de Sevilla y convidado de piedra; Strauss ne era stato ammaliato sin dal 13 Giugno 1885, avendo assistito con Bülow, a Francoforte, ad una rappresentazione di Don Juans Ende (La fine di Don Giovanni), tragedia di Paul von Heyse, una delle tante versioni teatrali e letterarie seguenti quella di Tirso da Molina; il poema sinfonico cominciò a prendere forma soltanto nel maggio 1888 durante un secondo viaggio in Italia, a Padova, dove nacque il fulmine dell’ispirazione: “Durante un successivo viaggio in Italia per visitare Venezia, nel chiostro di Sant’Antonio a Padova mi vennero in mente i primi temi di Don Juan”. Nel corso dell’estate del 1888 compose l’opera, terminando a Monaco nel Settembre dello stesso anno, di getto, sotto l’influsso definitivo del poema incompiuto di Lenau. Rispetto alla genesi di Macbeth e di Aus Italien, tutto appare molto più maturo. E in effetti la partitura stessa appare nata sotto prospettive totalmente diverse.

Ancora due cose importanti da ricordare su Strauss, di cui si è già accennato nel prima citato articolo: la prima è l’assoluta modernità di questo autore, che sul finire dell’Ottocento sembra anticipare inconsapevolmente Bartòk, Berg e Stravinskij, e in secondo luogo l’attenzione alla forma che, nonostante la passione wagneriana, sembra essere un carattere intrinseco alla sua formazione “classicistica”, quando cioè sotto le orme del padre, primo cornista dell’orchestra di Monaco e fervente antiwagneriano, egli segue le orme di Brahms. Hans von Bülow lo indirizzerà sulla via estetica che avrebbe consegnato Strauss alla storia. Qui matura la sua visione del “poema sonoro”, come amava chiamarlo: “Bisogna che ciò che l’autore intende dire appaia anche plasticamente agli occhi del suo spirito. Ciò è possibile quando esiste lo stimolo di un’idea poetica, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno aggiunta all’opera come programma”. E la forma appare nel Don Juan in tutta la sua visibilità, poiché il poema è strutturato esattamente come un primo tempo di sinfonia, in forma sonata, con tutte le sue parti: due temi, sviluppo, ricapitolazione e coda. Anche in quanto a durata il poema non supera i 15/18 minuti: una concisione e un brevità che in seguito lasceranno spazio ad architetture più ampie e voluminose.

Una precisazione a questo punto è d’obbligo: ciò che Strauss mette in musica non è una vicenda teatrale, ovvero lo svolgersi di una vicenda esteriore, bensì lo svilupparsi di una coscienza, una vicenda interiore, o in alcuni punti più coscienze che si rapportano dialetticamente. Ma se la fine è tragica in quanto Don Juan prende coscienza del proprio fallimento dopo l’esuberante vitalismo iniziale, come è possibile utilizzare una forma che prevede per natura alla fine il riutilizzo di elementi tematici iniziali? Strauss pensa genialmente ad un modo che preannuncia di molti anni la sua vocazione teatrale: fa terminare il poema con un colpo di scena, ossia con un’interruzione ai limiti dello spasmo del motivo iniziale, quello del desiderio, e dopo vari istanti di silenzio introduce una coda in pianissimo che tristemente a poco a poco si spegne, inghiottendo il vitalismo di Don Giovanni come nell’opera mozartiana quest’ultimo veniva inghiottito dalle fiamme dell’Inferno per il suo mancato pentimento. Ma torniamo ad una breve analisi del poema. Sentiamo per un attimo il vitalismo che il quindicenne Felix Mendelssohn mostra nell’incipit del suo ottetto per archi opera 20 (1825):

Ora ascoltiamo l’inizio di Don Juan:

Come non stupirsi della somiglianza? Entrambi così vitali, così desiderosi di dire qualcosa, anche se Strauss è enormemente più frizzante ed esplosivo: queste semicrome veloci, questi sincopati, queste terzine e questi arpeggi ascendenti sono come un vulcano in eruzione, e in più l’accordo di tonica, Mi maggiore, che segna la tonalità del brano non è affermato subito, ma ritardato da un accordo di Do maggiore due battute prima, posto una terza sotto, che armonicamente crea ancora di più una situazione di suspense, oltre che una palese gestualità teatrale: sembra di vedere Don Giovanni sulla scena muoversi senza sosta nella sua bramosa smania di conquista, oltre che un giovane compositore anche lui desideroso di conquistare il mondo musicale. Agli arpeggi e alle scale degli archi rispondono gli accordi in fortissimo dei fiati, vigorosi:

Questo inizio travolgente prepara il primo tema della forma sonata e di Don Giovanni, suonato dagli archi in fortissimo, che arriva dopo otto battute, sfrontato e sfacciato come lo stesso protagonista: formato da terzine sensuali, minime che creano il senso di affanno, semicrome che evocano la rapidità e il classico tempo puntato dell’impeto, esso sarà il tema principale del personaggio, e lo ritroveremo più volte nel corso dell’opera. Attraverso un ponte modulante si passerà al secondo tema, come vedremo formato da due parti. Con la sua formidabile ed inesauribile inventiva Strauss crea temi su temi, andando anche oltre lo schema sonatistico, e questa è una caratteristica che ritroveremo sempre nella produzione successiva (si pensi agli innumerevoli temi dello Zarathustra): non riesce a non inventare, e a diversificare, passando per esempio nel ponte modulante dal galante al lirico, e dal lirico al giocoso, con tre piccole cellule tematiche molto diverse tra loro che evocano anche molto chiaramente l’evolversi della coscienza del personaggio, mentre nel frattempo la scrittura orchestrale tende a farsi a tratti cameristica con la predilezione di volta in volta di alcuni selezionati gruppi di strumenti, caratteristica che si ritrova in molti luoghi del poema.

Ma ecco che si arriva al primo elemento del secondo tema della forma sonata, preparato da un delicatissima anticipazione di violini: esso è in forma di canone, dolce e struggente, poichè sembra mostrare un dialogo (canone tra le parti appunto, con stesso andamento melodico) tra corteggiatore e corteggiato (dialettica tra le coscienze) in forma teatrale, una vera e propria scena di seduzione, ed è seguito dal secondo elemento di questo secondo tema che è invece la prefigurazione del dramma, con i suoi cromatismi wagneriani e l’atmosfera che sembra precipitare nella tragedia: ricorda vagamente le note della morte di Isotta nel Tristan und Isolde. Ancora una volta colpisce la bellezza tematica di questi motivi che raggiungono in cuore dell’ascoltatore con picchi di reale pathos drammatico; e Strauss è così desideroso di creare nuove cellule e nuovi temi che nel momento in cui inizia lo sviluppo, tradizionalmente la parte della forma sonata in cui si evolve il materiale di partenza, egli viola la prassi e continua a creare temi, in particolare due cellule tematiche nuove, di cui una ricopre un’importanza fondamentale: si tratta del celebre tema dell’oboe, dolcissimo, romantico, che secondo vari studi esegetici rappresenterebbe la cosiddetta “parte femminile”, ossia la coscienza delle donne sedotte, abbandonate, innamorate, e che elabora una melodia morbida a partire da un salto di ottava. E’ proprio tale salto di ottava che si riflette a specchio nel più importante ed evidente tema successivo, quello che traghetta a poco a poco lo sviluppo verso la ripresa: si tratta del tema dei quattro corni, più energico e virile, che rappresenterebbe il ritorno dell’eroismo di Don Giovanni e la sua brama di possesso, e che inizia con lo stesso salto di ottava dell’oboe femminile. Tale tema viene “chiamato” per due volte dai corni esattamente così come si presenta la prima volta, intervallato da sezioni di variazione, mentre a poco a poco lo sviluppo verte ormai alla conclusione. Ecco che la situazione sembra precipitare dopo un crescendo di intensità e di volume in un fortissimo dove il ritmo si ferma improvvisamente, e sembra che la tragedia sia sull’orlo del compimento: l’orchestra tace ma subito dopo si inizia con la ripresa e il vitalismo ricomincia a poco a poco a crescere fino a che, come un suono che arriva da lontano e come un motivo di trionfo assistiamo alla terza e ultima “chiamata” del motivo dei corni che finalmente risolve sui violini, i quali lo portano all’estremo melodico e armonico del pathos in un crescendo di tensione spasmodica. Sembra finita, e invece Strauss sa bene come tenere alta la tensione: siamo alla resa dei conti, nel finale uno dopo l’altro ricompaiono i temi più importanti dell’opera e dunque riappare il motivo iniziale, quello eroico, vitalistico e dongiovannesco che sembra di nuovo salire di intensità drammatica fino a un crescendo a tutta orchestra; esso sembra preannunciare un finale esplosivo, ma invece evoca gli ultimi spasimi di una vita dissoluta. Come si è detto prima infatti l’orchestra cessa e piomba il silenzio, per poi riaffiorare dal nulla le ultime note di una coda che è l’ultimo lontano anelito di un’anima condotta allo stremo. Scrive Franco Serpa: “Don Giovanni si stacca da ogni vincolo, egli non vuole un amore, ma tutto l’amore del mondo. Nella splendente luce solare egli canta il suo entusiasmo vitale (il celeberrimo tema dei corni, il tema che tutti ricordiamo). Il desiderio di vita e di felicità si espande, si fa insaziabile, e la necessità lo annienta. Strauss ha appreso da Schopenhauer che il desiderio è dolore e che la vitalità individuale è inganno e allucinazione. La magnifica favola del seduttore trionfante si conclude con una desolata visione di disillusione e di morte. Su un oscuro e insistito fremito degli archi la vita si dissolve nel silenzio”. Quei corni, quel desiderio di possedere ancora, mostrano la volontà di Don Giovanni di andare oltre, di non accontentarsi, di svincolarsi. Ma il tutto è troppo.

«Avanti, dunque, verso nuovi trionfi, finché nei polsi robusti batta gioventú».

N. Lenau

Federico Pariselli

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