La Suite Iberia
di Redazione - 21 Novembre 2018
di Isaac Albéniz
Albéniz cominciò il suo lavoro sulla monumentale suite pianistica Iberia nel 1905 e apportò le ultimissime modifiche nel 1908. L’opera viene unanimemente definita dalla critica musicale non solo come la composizione migliore nella produzione di Albéniz, ma anche come uno tra i capisaldi della letteratura per pianoforte di primo Novecento.
Già il contemporaneo Debussy e, alcuni anni dopo, Olivier Messiaen, ne apprezzarono il valore e ne subirono una profonda influenza, anche se in aspetti ed accezioni molto differenti.
Dal 1902 Albéniz viveva in “esilio” a Parigi, in quanto aveva trovato molta difficoltà in Spagna a far eseguire i suoi lavori e in particolare le ultime opere liriche (Pepita Jiménez e l’incompleta Merlin), che in patria si erano scontrate con il conservatorismo dell’establishment. La lontananza forzata indusse Albéniz a ricordare l’amata Spagna in una nuova composizione di ampio respiro, ritornando a comporre per il suo strumento principale. Ecco quindi il desiderio di ritornare alla musica pianistica e quello di immortalare emozioni profumi, ricordi e visioni oramai lontane. La Spagna che rivive in Iberia è una rievocazione della Spagna del XIX secolo, come l’autore la sognava da Parigi, tanto che il titolo iniziale, sostituito dopo la pubblicazione del Primo Quaderno, era proprio España.
Nel 1905 venne alla luce il primo dei quattro quaderni di una nuova collezione di brani pianistici, che nell’intenzione dell’autore dovevano racchiudere la tradizione pianistica mitteleuropea, il colore locale iberico e “l’impressionismo borghese” della Francia. È quindi con questa suite che si rivela il genio, per lungo tempo inespresso, del musicista spagnolo. Sin dalla nascita dell’opera, Albéniz si avvalse dei preziosi consigli di due eminenti pianisti dell’epoca, Blanche Selva, prima interprete della Suite integrale, e Joaquin Malats, dedicatario ideale di Iberia, per il cui virtuosismo furono congegnati i difficilissimi Terzo e Quarto Quaderno.
Per i molti ripensamenti e le continue modifiche, apportate anche dopo le prime pubblicazioni, l’opera del Maestro non riuscì mai a essere pubblicata in una versione definitiva e corretta dalle molte sviste, quasi fino ai nostri giorni.
La definizione di “Suite” che l’autore ha scelto per Iberia e che aveva immaginato anche per altri due lavori non terminati, (ovvero La Alhambra e Azulejos) non va intesa in senso tradizionale, come raccolta di brani posizionati in un ordine obbligato ― ad esempio come una suite bachiana ―, ma si avvicina più all’accezione che le ha dato anche Claude Debussy, in uno dei suoi capolavori, la Suite Bergamasque. Cosa molto importante, la parola Suite non era stata introdotta in origine, ma solo dopo l’inizio dei lavori di orchestrazione per la costruzione di quattro Suites per orchestra, con un velato richiamo alle Suites per Orchestra di J. S. Bach.
La concezione generale dell’opera, per le caratteristiche con cui è venuta alla luce, si manifesta come un addio alla sua terra, e si colloca per il suo autore come un punto di riferimento ideale, in quanto incarna musicalmente ciò che ai suoi occhi e alla sua mente non era più percepibile: una sorta di diario intimo in cui registrare non solo sensazioni esteriori e visive, ma anche le più piccole minuzie del folklore locale, anche se filtrato e reinterpretato dalla maestria del compositore.
L’abbondanza delle idee e fantasie di questo ciclo non sembrano avere limiti, e anche se l’andamento rapsodico è imperante in tutti e dodici i brani, ognuno di essi scorre naturalmente all’interno della sua cornice formale (in genere sempre la forma-sonata o la forma tripartita ABA). Pur essendo composta per essere suonata secondo l’ordine scritto, in realtà l’autore aveva previsto e accettato la possibilità di frammentarne l’esecuzione.
Le relazioni tonali sono sempre abbastanza tradizionali, ma risentono molto del clima e degli insegnamenti appresi da Albéniz alla Schola Cantorum di Parigi. Altra caratteristica (in particolare nei primi due quaderni) è l’uso frequente della scala esatonale (con grande uso quindi di quinte aumentate), e dei modi antichi (specialmente dorico e orientale), che producono una sensazione armonica molto suggestiva, quasi ipnotica. Tutti questi elementi contribuiscono a donare una profonda unitarietà sia ad ogni quaderno che all’intero ciclo, visto nel suo complesso.
Ad eccezione di Evocación e Lavapiés, primo e nono brano, tutti i titoli si riferiscono a località del sud della Spagna, in particolare all’Andalusia. Riportiamo, qui di seguito, tutta la suddivisione dell’opera:
Primo Quaderno:
- Evocación
- El Puerto
- El Corpus en Sevilla
Secondo Quaderno:
- Rondeña
- Almerìa
- Triana
Terzo Quaderno:
- El Albaicìn
- El Polo
- Lavapiés
Quarto Quaderno:
- Málaga
- Jerez
- Eritaña
Esiste anche un tredicesimo brano, Navarra, lasciato incompiuto nella parte conclusiva, e successivamente completato dall’allievo Déodat de Severac, “come omaggio, un po’ edulcorato, al Maestro”. Infatti, una volta decisa la sostituzione di Navarra con Jerez, la sua ultimazione fu rinviata senza che mai l’autore vi potesse però tornare. Oltre alla conclusione di Severac, ne esiste un’altra dell’americano William Bolcom, allievo di Milhaud e Messiaen. Molto più lunga ed elaborata di quella francese, che tendeva ad una conclusione semplice e il più vicino possibile all’atmosfera dell’originale, la terminazione di Bolcom, del 1965, ripercorre quasi interamente il brano originale, donandogli una forma molto più completa e compiuta. L’esclusione di Navarra può destare qualche perplessità trattandosi di una composizione di estremo interesse in cui le esperienze compositive e le acquisizioni tecniche della Suite trovano una sintesi unica.
Non bisogna sottovalutare l’importanza del sottotitolo che l’autore aggiunse alla composizione, una volta compiuto il Secondo Quaderno, ovvero Dodici Nuove Impressioni. La parola ‘impressione’, comune a moltissimi artisti dello stesso periodo, viene usata non a caso dall’autore per indicare la natura dei brani, sorta di ricordi e sensazioni personali miscelati con reminiscenze folcloriche.
È interessante osservare come Debussy, che riconosceva e apprezzava le abbondanti effusioni musicali dell’opera spagnola, abbia composto una sua Iberia, per orchestra, in cui al posto del francesismo di Albéniz, emerge tutto il suo ispanismo, di cui si è parlato nel primo capitolo. Questo testimonia ulteriormente il rapporto di scambi reciproci che intercorrevano tra i due artisti.
In queste Impressioni il rapporto simbiotico tra ispirazione personale e tradizione popolare ha riverberi anche sul ritmo e sulla forma dei pezzi; questi presentano infatti delle caratteristiche uguali e riconducibili a tre elementi basici della cultura popolare ispanica: la falseta, la copla e il ritmo fisso.
Molti temi e sviluppi sono costruiti e derivati dalle caratteristiche falsetas, piccole cadenze in genere per chitarra, utilizzate all’interno delle danze tradizionali (soprattutto il Flamenco) come preludio o interludio al canto vero e proprio, chiamato copla, che solitamente fa da tema principale, con le sue tipiche accentazioni e sincopi.
Oltre alle possibilità stilistiche offerte dalla tradizione popolare, Albéniz in alcuni dei brani fa uso, come ad esempio in Triana – seppur con molte libertà e sfumature -, anche della forma-sonata, a conferma dello stretto legame della Suite con la tradizione pianistica classica dell’Europa centrale.
Per quanto riguarda l’armonia, così intimamente connessa con i concetti di melodia e ritmo per rispettare le caratteristiche popolari, Albéniz fa uso d’idee suggerite dalle sonorità chitarristiche. Per aggiungere maggior colore, le armonie vengono continuamente e sistematicamente arricchite con ritardi, sovrapposizioni e anticipazioni armoniche, che però non rendono mai dubbia la comprensibilità della tonalità, sempre ben affermata e chiara. É interessante notare come, praticamente negli stessi anni, tra il 1900 e il 1909, anche Maurice Ravel utilizzi delle armonizzazioni affini in molti dei suoi capolavori pianistici, in particolare nella raccolta Miroirs, contemporanea al Secondo Quaderno di Iberia.
Un altro aspetto interessante della partitura è l’uso molto personale che l’autore fa delle indicazioni dinamiche e di altre didascalie sparse in tutto il testo. In Iberia non esistono quindi solo espressioni meramente dinamiche, ma soprattutto indicazioni quali: vicino, lontano, molto lontano. Potremmo identificarle come “annotazioni di tipo spaziale”, di grande impatto evocativo, atte alla realizzazione di una particolarissima e multiforme atmosfera sonora. Le ricerche armoniche sono proprio volte a trasmettere queste illusioni variegate, con le loro sequenze ipnotiche di accordi esatonali di vario genere. La somma di questi elementi crea, oltre a diversi piani sonori, diverse prospettive spaziali, che si modificano continuamente. Tutte queste particolarità, tipiche delle composizioni impressionistiche, tanto in ambito musicale, quanto in quello pittorico, portano a performances adatte non solo a essere ascoltate, ma anche, in un certo senso, rivissute nella mente dell’ascoltatore così come “apparivano” nel pensiero musicale dell’autore. Sembrerebbe quindi che la forza suggestiva di questa opera scaturisca dall’uso eccellente e dinamico dell’organizzazione della materia sonora e da un’attenzione quasi maniacale verso ogni minimo dettaglio, sia agogico, sia ritmico, sia armonico, fino ad arrivare a dare quasi ad ogni singola nota un proprio segno interpretativo, come avverrà, per altro, in partiture cronologicamente più avanzate, come i Vingt regards sur l’Enfant défunte o nella Turangalîla-Symphony di Messiaen o nel Rudepoêma di Villa-Lobos.
Nel Primo Quaderno, ci troviamo davanti a tre diverse e contrastanti rappresentazioni. Evocación è un notturno, che muovendosi su ritmo sincopato crea all’interno delle sue tre sezioni una serie quasi infinita di possibilità timbriche, dall’impercettibile pppp al fff. È la nostra introduzione nelle atmosfere delle “nuove” impressioni dei successivi undici poemi.
Con El Puerto ci troviamo invece nelle atmosfere danzanti e festose del Porto de Santa Maria, a Cadice, in Andalusia, basate su un tema che richiama alla mente la danza zapateado, con il suo ritmo sincopato e le note ribattute. Albéniz ci introduce in una sfera d’immaginazione e di rimembranze andaluse che vanno dai ritmi bruschi e fortemente accentati della prima e seconda parte, alle atmosfere evocative e sognanti del finale, che richiama le sonorità di Evocación, quasi a dare la sensazione che il ricordo nella mente del compositore stia lentamente svanendo, così come la pulsione ritmica si spegne in un unico grande rallentando che porta anche qui all’indicazione dinamica pppp.
Quasi a riprendere gli ultimi pizzicati de El Puerto, Fête-dieu à Seville si apre con dei piccoli scatti percussivi e isolati che pian piano si coagulano in una melodia stilizzata, che cresce fino a coinvolgere tutta l’estensione della tastiera, evocando l’arrivo sontuoso della processione sacra all’interno della città. Nella seconda sezione su un tappeto di armonie arabesche si muove una melodia sinuosa, che con le indicazioni dolce ma sonoro, sempre dolce, comme un echo, trés lontain, ci allontana per qualche momento dal frastuono pomposo della processione. Con la terza sezione ritorna il tema principale che funge anche da collegamento con la pagina finale che, in un’atmosfera nuova e inaspettata, chiude, con suoni rarefatti e sempre più inconsistenti, sia questo quadro sia tutto il Primo Quaderno.
Il Secondo Quaderno comprende tre brani di grande interesse, che presentano, rispetto al precedente quaderno, una maggiore omogeneità generale. Se nel Primo Quaderno l’elemento unificante era il ricorrente utilizzo della scala esatonale, nel Secondo è la componente ritmica, che, in modo molto particolare e caratteristico, alterna, specie nei primi due brani, la sequenza 6/8 con 3/4.
Il ritmo vigoroso di danza gitana apre Rondeña, e il Secondo Quaderno, giocando su modulazioni ritmiche e tonali ispirate alla modalità medievale e alle danze tradizionali della città di Ronda. La seconda idea melodica invece è basata su una malagueña: una copla sensuale e amorosa quasi melanconica, che poi si sviluppa di nuovo ritornando alla prima idea fino alla conclusione in cui prima e seconda idea si sovrappongono polifonicamente. Chiude il tutto una brevissima coda.
Il secondo brano, Almeria, è il più lungo e sviluppato del Quaderno. Si apre anch’esso con la caratteristica hemiola ritmica già incontrata in Rondeña, basandosi anche su ritmi gitani come la taranta, tipica della città di Almeria. L’indicazione di Albéniz, riporta, “Questo pezzo va suonato con disinvoltura, e mollemente, ma ben ritmato”; infatti il movimento, molto calmo quasi di barcarola, “pare illanguidire voluttuosamente, mentre l’espressiva melodia di una copla invade, a poco a poco, il registro acuto del pianoforte” (Tranchfort, Guida all’ascolto).
Conclude il Quaderno uno dei migliori brani della Suite, Triana, ispirata ad un quartiere popolare di Siviglia. Proprio la resa dell’atmosfera giocosa e brulicante di vita di Siviglia, ben diversa dal quadro maestoso che era Fête-dieu à Seville, viene resa con armonie molto ardite, dissonanze e false relazioni nella prima parte, in forma di paso-doble, caratteristica danza spagnola, seppur in ritmo di 3/4 invece del 4/4. Nella seconda parte, compare una seconda idea, che si appoggia su di un interessantissimo accompagnamento, che si modifica e si ispessisce ogni volta che si ripete per cinque volte. Sembra di ascoltare tutta l’orchestra sinfonica al completo in questo sviluppo, in una conduzione della tessitura che permette alla tastiera di raggiungere qualsiasi sfaccettatura timbrica, dalla più sfuggente al fff. Attraverso cadenze modali – altra caratteristica ricorrente del Secondo Quaderno – si ritorna alla danza iniziale dove però non ricompare per intero la prima idea, ma solo la sua struttura ritmica, seguita da una breve conclusione.
Nel Terzo Quaderno, Albéniz raggiunge la qualità più alta per quanto concerne l’utilizzo della tecnica pianistica. È difatti questo il Quaderno più difficile da eseguire, in particolare per la distribuzione del materiale sonoro e dei timbri tra le mani, con effetti spesso inauditi da molti suoi contemporanei.
In El Albaicìn, Albéniz raggiunge dei risultati interessantissimi per quanto concerne l’evocazione notturna del quartiere gitano di Granata, con ritmi puntati e accordi secchi di chiara ascendenza chitarristica. Nella seconda parte, le due mani all’unisono eseguono un sinuoso canto in modo dorico, monodia incantatrice tipica del canto jondo Andaluso. Uno sviluppo lirico e appassionato e il ritorno dei ritmi strappati dell’inizio chiudono bruscamente questa composizione, un vero e proprio omaggio al flamenco gitamo.
El Polo, “composizione geniale e fatalista”, dalle parole di Messiaen, è una danza in 3/8, con accenti ritmici spostati. Più intimo del precedente, è un lamento funebre con dissonanze aspre e ritmo ostinato.
Lavapiés è l’unica composizione non ispirata alle atmosfere andaluse. È una danza frenetica e vitale di danzatori popolari nel quartiere di Madrid omonimo, con movimenti frenetici e bruschi. È il brano più virtuosistico della Suite, con continui incroci di mani e salti ampi e improvvisi. Ha due temi, uno dalle movenze di habanera, con abbondanza di acciaccature ed elasticità ritmica, e richiede una scrittura ripartita su tre pentagrammi per la quasi totalità del brano. Il secondo tema è una canzone volutamente semplice e ‘volgare’, per rendere con chiarezza la caratteristica popolare del brano. Lavapiés chiude il quaderno con una nota di ottimismo e forza espressiva notevole, con una coda in ambito modale che si affievolisce poco a poco su ritmo di habanera.
Il quarto ed ultimo quaderno si apre con Málaga, che deve la sua poca fortuna soprattutto alla vicinanza dei due ultimi pezzi del Quaderno, ben altrimenti famosi. È una malagueña appassionata, che presenta due temi come di norma, organizzati in forma-sonata.
Jerez è una composizione tra le più lunghe e sviluppate della Suite, tutta basata su tonalità modali ed evanescenti. Il primo tema è avvolto da un clima mistico e intimo, con preziosismi armonici densi e raffinatissimi. Seguono tre variazioni che portano alla seconda idea, una copla molto appassionata, ma dolce. Ritorna di nuovo il primo tema ma con acciaccature che conducono ad una coda ampia e limpida in pppp. Questo fu l’ultimo brano composto, che sostituì l’iniziale Navarra, poi esclusa dalla Suite, e lasciata incompleta.
Eritaña contrasta fortemente con la precedente Jerez. È una vivida rievocazione dell’atmosfera allegra e chiassosa della locanda Eritaña alle porte di Siviglia. Il ritmo principale è quello della sevillana, che attraversa tutta la composizione. Il primo tema è esuberante e giocoso, con continue appoggiature, acciaccature ed effetti di pizzicato; il secondo tema è più dolce e richiama la scrittura sinfonica di Triana. Il tutto si conclude con un abbagliante fortissimo.
Albéniz, con i due ultimi brani ha voluto suggellare così il suo capolavoro, mostrando i due aspetti peculiari della danza del flamenco: l’ombra, Jerez, e la luce, Eritaña. Fu proprio per questi due brani e per la loro generosità che Debussy rimase tanto impressionato dalle capacità del compositore.
Sia il compositore che altri seguaci tentarono di trascrivere più volte la Suite per orchestra. Albéniz completò l’orchestrazione solo dei primi due brani, Evocación ed El Puerto. Le varie orchestrazioni (che ancora oggi vengono composte) dell’opera hanno dimostrato l’estrema ampiezza della tavolozza coloristica della scrittura pianistica di Iberia, mettendo in evidenza ancor più la stretta parentela che intercorre tra le atmosfere musicali del tardo Albéniz con quelle di Debussy e Ravel. Rimane comunque il fatto che la sonorità pianistica estremamente ricercata dell’originale non è ripetibile con la massa orchestrale, sebbene questa sia più volte evocata dalla scrittura.
Massimo Spada
per la prima parte: Albéniz nell’Europa di fine Ottocento