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Cosa ci lascia Penderecki

di Filippo Simonelli - 29 Marzo 2020

La notizia della morte di Penderecki, pur in un tempo di universale contrizione e angoscia, lascia un senso speciale di vuoto per chi avesse a cuore non solo la sua musica o il suo stile, quanto il suo impatto nella storia della musica.

Il frutto più popolare della musica di Penderecki è probabilmente la celeberrima Trenodia per le vittime di Hiroshima, sia a livello musicale che ideale. Composta nel 1961, la Trenodia nasce dall’incontro immaginario tra uno degli organici più tipici della musica di tradizione classica, l’orchestra d’archi, e i più recenti sviluppi della tecnica compositiva: nella partitura, densissima di segni e indicazioni avveniristiche, abbondano grappoli di cluster, quarti di tono e qualche componente aleatoria che però non va ad inficiare il rigore generale delle indicazioni che Penderecki impone agli esecutori, annotate addirittura al secondo in partitura. La filiazione ideale che questo brano prese dal tragico evento di Hiroshima ha probabilmente contribuito, oltre che ad una fama veramente rara per una composizione del secondo dopoguerra, al suo distacco dall’avanguardia pura: anche il titolo originario 8’37”, con una chiara reminiscenza di John Cage, non avrebbe probabilmente reso giustizia alla carica emotiva che i 52 archi riescono ad offrire all’ascoltatore più paziente. L’utilizzo cinematografico che ne venne fatto negli anni a venire ha contribuito ancora di più ad eternarne la fama: da Alfonso Cuarón fino a David Lynch, la musica della Trenodia ha partecipato con la sua incredibile presenza sonora, ad alcune delle scene più iconiche della produzione per piccolo e grande schermo.

Penderecki però non è stato solo l’autore di un fortunatissimo brano di avanguardia: anzi se possibile è stato persino più autori diversi nel corso della sua carriera. Nel mezzo secolo abbondante di carriera che ha percorso, il compositore polacco ha navigato diversi stili in fasi anche molto distanti dall’altra. L’inizio della sua ascesa creativa all’insegna dell’avanguardia: il giovane compositore per anni si dedicò a “liberare il suono oltre ogni tradizione” riuscendo nella difficile impresa di ottenere sia un ampio consenso accademico, vincendo numerosi premi ufficiali nella sua madrepatria e riconoscimenti a livello internazionale, pur portando avanti uno sperimentalismo del tutto personale: il dittico del De Natura Sonoris, oltre ad essere programmatico fin dal titolo nel suo intento di ricerca legata a doppio filo con l’aspetto quasi “materico” del suono, rappresenta un apice e al tempo stesso l’inizio del declino di questo stile nella stessa estetica.

A partire dagli anni ’70, in coincidenza con l’inizio della sua docenza nell’ateneo americano di Yale, la musica di Penderecki iniziò a prendere altre strade. Elementi tonali, che erano stati già ampiamente presenti come elemento alieno ma coerentemente straniante all’interno della sua musica sperimentale, iniziarono gradualmente a prendere il sopravvento, prima grazie all’impiego sistematico di semplici intervalli come mattoni sonori su cui edificare le sue costruzioni, arrivando in seguito ad una progressiva assimilazione del linguaggio tardo-romantico e della lezione di grandi compositori sovietici, Shostakovic su tutti, in una fusione quasi sincretistica. La palinodia creativa di Penderecki viene raccontata al meglio dalle sue stesse parole: nelle note della sua raccolta di lavori orchestrali a cura di Mieczysław Tomaszewski, Penderecki sosteneva di essersi “affrancato dall’illusione di universalismo data dall’avanguardia: agli occhi di noi giovani la musica di Nono, Boulez, Stockhausen e Cage aveva i caratteri di una liberazione – ed era così perfettamente incardinata nei dettami del realismo socialista, che a quei tempi era il canone ufficiale nel nostro paese; tuttavia compresi presto che questa avanguardia era più distruttiva che costruttiva […]”. Nel secondo periodo la produzione di Penderecki, oltre ad orientarsi verso altri lidi stilistici, prese anche una coerente scelta formale: dagli anni ’70 infatti nel suo catalogo abbondano le Sinfonie, i concerti, un Requiem Polacco ed altri brani che richiamano una precisa filiazione con la tradizione dei secoli precedenti.

A dare una grande continuità in tutta la produzione del Maestro polacco sono stati due aspetti in particolare: in primo luogo la costante ricerca di lavori “in grande scala”, come durata, dimensione formale e organico. Parlando di sé stesso il compositore usava definirsi “uno degli ultimi compositori che lavora su larga scala e scrive tutto: oratori, sinfonie, concerti e musica da camera. Sono come un compositore del diciannovesimo secolo che doveva saper fare tutto, incluso dirigere.”

L’altra stella polare della vita creativa e personale è stata quella della spiritualità: tutto il catalogo di Penderecki, attraversando le sue diverse fasi creative e gli stili che ha esplorato, mantiene delle costanti tracce della sua profonda devozione religiosa. Il suo legame con Karol Wojtyla e il movimento Solidarnosč è cosa ben nota, così come lo sono i lavori che nacquero da questi sodalizi ideali. Per il Pontefice compose una Ciaccona a mo’ di Requiem, per il sindacato della sua madrepatria il Lacrimosa. È interessante notare come l’aspetto spirituale sia un trait d’union significativo tra l’esperienza di Penderecki e quella di altri grandi compositori cresciuti musicalmente al di là della cortina di ferro: le vicende di Arvo Pärt e di Schnittke in particolare si ricollegano al suo vissuto in maniera significativa. Con Arvo Pärt, in particolare condivide la conversione stilistica, peraltro quasi contemporanea; mentre nel caso del compositore estone tuttavia era stato un lavoro squisitamente avangardistico, il suo Credo, a fornire lo spunto di una conversione tanto artistica quanto spirituale, per l’autore della Trenodia la spiritualità era stata una costante di tutta l’esistenza. Le sue posizioni apertamente religiose gli avevano causato qualche ostilità da parte delle autorità ufficiali nel corso della carriera: il sentimento religioso era chiaramente osteggiato nei paesi del blocco sovietico, pur con varie gradazioni a seconda dei singoli stati, anche se la sua fama universale e l’apprezzamento trasversale di cui godeva la sua musica fin dai primi passi della sua carriera avevano costituito uno scudo quasi inscalfibile.

Con la progressiva fine dei regimi filosovietici nell’Europa orientale, e i conseguenti mutamenti interni alla Polonia stessa, Penderecki stesso assurse quasi ad un ruolo di compositore ufficiale, complice anche il legame quasi fraterno che lo legava all’allora Pontefice Giovanni Paolo II. Il ruolo del nostro come compositore ufficiale polacco è stato poi cristallizzato dal festival Eufonie-Penderecki organizzato dall’associazione Beethoven del suo paese due anni fa per celebrare gli 85 anni del Maestro in una sequela di concerti tributo alla sua musica e a quella di altri grandi compositori dell’est Europa.

Cosa ci lascia, dunque, un compositore con una vita così intensa e una produzione così vasta? Sarebbe scontato dire tanta buona musica, ma è certamente un dato di fatto ineludibile: la quantità della musica, intesa proprio come numero di opere in catalogo, fa il paio non tanto con una scontata qualità in un binomio trito e ritrito, quanto piuttosto con una profondità di penetrazione e diffusione della sua opera. Dai più arditi sperimentalismi, che sono permeati nella nostra cultura popolare attraverso il filtro del cinema, fino a musica con un linguaggio universale che è diventata parte stabile del repertorio di grandi orchestre ed enormi solisti. Il coraggio di riprendere e riprendersi le grandi forme: non solo nella concezione e nella composizione di un lavoro, ma anche nell’aspetto esteriore del brano, a partire dal titolo. Ci vuole un certo fefato a confrontarsi con la tradizione sinfonica, ad esempio. Eppure Penderecki non ha esistato a salire sulle spalle dei giganti che lo avevano preceduto senza nascondere le proprie intenzioni, non senza una certa spregiudicatezza, una scommessa sulle proprie convinzioni e la propria preparazione che ha pagato, e che probabilmente gli permetterà di essere lui stesso uno di quei giganti sulle cui spalle salire.

E infine una capacità di sintesi non comune: sebbene abbia ritrattato la propria idea originaria sulle avanguardie, come abbiamo visto in precedenza, Penderecki ha sostenuto fino all’ultimo di aver operato una fusione stilistica in cui accanto all’eredità tardo-romatica affiancava anche molto di quelle avanguardie che per prime lo avevano consacrato come compositore. E forse è questa capacità di guardare – artisticamente e non – senza rancore o rimpianti al proprio passato creativo il suo lascito più importante. Dopo la musica, naturalmente.

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Filippo Simonelli

Direttore

Non ho mai deciso se preferisco Brahms, Shostakovic o Palestrina, così quasi dieci anni fa ho aperto Quinte Parallele per dare spazio a chiunque volesse provare a farmi prendere una decisione tra uno di questi tre - e tanti altri.

Nel frattempo mi sono laureato e ho fatto tutt'altro, ma la musica e il giornalismo mi garbano ancora assai.

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