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Il canto di un amore di lontano: Jaufre Rudel

di Redazione - 1 Giugno 2016

Per so m sen trop seon marrir
quar no n’ai so qu’al cor m’aten

“perciò troppo mi sento smarrito
perché non ho ciò che mi aspetto nel cuore”

Nei secoli XII e XIII le corti del mezzogiorno della Francia assistevano alla nascita del movimento trobadorico, un fenomeno culturale in cui la musica rivestiva l’importante ruolo di tramite per la divulgazione del testo scritto.

Infatti, la maggior parte dei testi in lingua d’oc, probabilmente tutti, venivano cantati quasi sicuramente con accompagnamento strumentale, come possiamo dedurre dalle numerose raffigurazioni dell’epoca. Di conseguenza la struttura metrico-ritmica delle strofe era indissolubilmente legata alla melodia sulla quale venivano intonati i versi.

Il trovatore, difatti, era colui il quale componeva poesie destinate ad essere diffuse non mediante la lettura bensì per mezzo del canto.

In questo particolare modo di fare arte, poesia e musica nascono quindi da un unico impulso creativo.
È ben noto inoltre che l’educazione musicale (appartenente all’insieme delle discipline scientifiche che costituivano il Quadrivium) rivestiva un ruolo molto importante nella formazione del futuro trovatore.



Di oltre 2500 composizioni che ci sono pervenute in circa 95 canzonieri, solo un decimo contiene anche la notazione musicale.

Inoltre è  importante fare una precisazione: nei codici in cui vi è la compresenza di testo e musica, quest’ultima è notata solo per la prima strofa e si ripete uguale per le strofe successive.
Da ciò si può facilmente dedurre che, essendo il componimento di natura strofica, la musica non è strettamente legata al contenuto poetico e di conseguenza sono assenti i madrigalismi che avranno invece larga diffusione nei secoli successivi.

Per di più, le notazioni musicali non contengono indicazioni sul ritmo delle note e ciò lascia una parziale libertà di esecuzione ai musicisti odierni.

Il movimento dei trovatori, alla base della lirica moderna e dell’immaginario amoroso che sfocerà poi nel dolce Stil novo e nella lirica petrarchesca, coinvolse uomini di condizioni sociali molto differenti: re, grandi signori, vescovi, canonici, e addirittura donne.
L’arte del trobar (il comporre i versi e la loro melodia) veniva esercitata all’interno delle corti e veniva vista come mero gioco o passatempo ma anche come professione da cui trarne profitto.
Tra i personaggi di potere che esercitarono questa attività si ricorda, oltre al più che noto Guglielmo IX, che si suole indicare come il primo trovatore, Riccardo Cuor di Leone.

È interessante notare come non fossero presenti alcune barriere sociali che impedissero relazioni costanti tra trovatori di provenienza diversa.

Scrive a tal proposito Martìn de Riquer nel suo “Leggere i trovatori”:
“Contro tutto ciò che potrebbe far pensare alla rigida divisione delle classi sociali nel Medioevo, la differenza di condizione sociale non è tenuta in considerazione nelle molteplici relazioni dei trovatori fra loro. Guerau de Cabrera, visconte di Giroms e di Urgel, avrà contatti letterari con Marcabruno, trovatore di umile condizione, Peire vidal figlio di un pellicciaio frequentava le corti e trattava con grandi re…”
 

 
 La materia di questi canti era quasi esclusivamente amorosa.

Secondo l’usuale traslazione dell’amore in termini giuridico-feudali il poeta si riconosceva nella figura di umile vassallo e la donna era vista come il signore, colui al quale bisogna offrire il proprio servizio poiché appartenente a una posizione gerarchicamente superiore.
Non a caso, uno dei modi con cui veniva denominata la donna era il sostantivo “midons”: meus dominus.

Il fin’amor, il codice di valori al quale ci si atteneva, richiedeva al poeta di “affinarsi”, ossia aumentare il proprio valore e rendersi meritevole agli occhi della donna (finus infatti era il termine che si usava per designare l’argento depurato delle monete, da cui il concetto dell’amore che purifica).
Spiega il filologo Köhler che la tensione tra il ceto basso e la nobiltà fu superata proprio con l’elaborazione di questo codice che privilegiava la nobiltà d’animo raggiungibile tramite la sofferenza amorosa, facendo diventare perno di un sistema di valori la frustrante condizione di “servizio”, oltre alla sottomissione, la distanza e il differimento dal piacere erotico.


Uno dei trovatori più affascinanti e suggestivi dell’intera produzione trobadorica è Jaufre Rudel.
L’aspetto enigmatico dei suoi componimenti, le diverse possibili interpretazioni della sua produzione, la quasi oscurità che circonda i fatti reali della sua vita, sono solo alcune delle caratteristiche della sua poesia.

Di seguito la vida, ossia la biografia, a tratti leggendaria e romanzata, del trovatore:

Jaufre Rudel di Blaia fu un uomo molto cortese, principe di Blaia. E si innamorò della contessa di Tripoli, senza vederla, per il bene che ne aveva sentito dire dai pellegrini che venivano da Antiochia. E fece su di lei molte canzoni con delle belle melodie e semplici parole. E per la volontà di vederla, si fece crociato e si mise per mare, e in nave si ammalò e fu condotto a Tripoli, in un albergo, come morto. E fu fatto sapere alla contessa ed ella andò da lui, al suo letto, e lo prese tra le sue braccia. Ed egli seppe che quella era la contessa, e in quel momento recuperò l’udito e il respiro e ringraziò Dio per averlo tenuto in vita fino a che potesse vederla; e così morì tra le sue braccia. E lei lo fece seppellire con grandi onori nella casa del Tempio; e poi, quel giorno stesso, si fece monaca, per il dolore che ebbe per la morte di lui

Disobbedendo al monito dello stesso Rudel (il quale affermava: e sel que de mi l’apenra gart se no l franha ni l pessi e colui il quale lo apprenderà [il componimento] si guardi dal romperlo e spezzarlo”) ci soffermiamo sulle strofe iniziali di due poesie contenute nel canzoniere rudeliano.


Lanquan li jorn

Lanquan li jorn son lonc en mai                        Quando i giorni sono lunghi a maggio
m’es belhs dous chan d’auzelhs de lonh,    mi piace il dolce canto degli uccelli di lontano
e quan me sui partitz de lai                                e quando me ne parto da lì
remembra m d’un amor de lonh:                      mi ricordo di un amore di lontano
vau de talan embroncx e clis,                              vado triste e chino per il desiderio
si que chans ni flors d’albespis                 al punto che canto  né fiore di  biancospino     
no m platz plus que l’iverns gelatz.                   non mi piacciono più che l’inverno gelido.

Quan lo rius

Quan lo rius de la fontana                                  Quando il rivo della fonte
s’esclarzis, su cum far sol,                                   si schiarisce, come suole fare,
e par la flors aiglentina                                        e appare la rosa selvatica
e l rossinholetz el ram                                          e l’usignoletto sul ramo
volf e refranh ez aplana                                       si muove e ripete e modula
son dous chantar et afina,                                   il suo dolce canto e affina
dreitz es qu’ieu lo mieu refranha                      è giusto che il mio canto riprenda


Secondo Leo Spitzer il canto in Rudel nasce dalla consapevolezza dell’imperfezione dell’io lirico, il quale avverte costantemente la mancanza di un quid per raggiungere la felicità assoluta, e scaturisce altresì dal suo bisogno pressante di qualcosa di lontano e irraggiungibile.

mas no sai quoras la veirai / car trop son nostras terras lonh
(“ma non so quando la vedrò / perché troppo le nostre terre sono lontane”).

L’io lirico prova una sorta di selige Sehnsucht (beata nostalgia), una malinconia di fronte alla perfezione della natura vista come potenza del creato di Dio. Il canto nasce quindi da un vuoto incolmabile, da un violento desiderio, definito da Sant’Agostino come rerum absentium concupiscentia (“brama ardente delle cose assenti”)

De dezir mos cors no fina/ vas selha ren qu’ieu plus am
(“Di desiderio il mio cuore non smette di affinarsi / verso quella cosa che io più amo”)


Amors de terra lonhdana                         Amore di terra lontana
per vos totz lo cors mi dol                       per voi tutto il mio essere si duole
E no n puosc trobar meizina                   e non posso trovare medicina
si non vau al sieu reclam                         se non accorro al suo richiamo

L’io lirico vive nella condizione angustiante di tensione, di desiderio (aitant n’ai fin talan courau : “ne ho di questo un puro desiderio”) verso un amore che lo “chiama a sé”, un amore che funziona da medicina ma che allo stesso tempo ferisce:

Colps de joi, que m’ausi/ e ponha d’amor que m sostra/ la carn…
(“un colpo di gioia mi ferisce, che mi uccide/ e una puntura d’amore che mi sottrae/ la carne…”).

E’ un amore che porta ad uno smarrimento profondo: per so m sen trop soen marrir/ quar no n’ai so qu’al cor m’aten   (“perciò troppo mi sento smarrito/ perché non ho ciò che mi aspetto ne cuore”), e ad una perdita di se stessi : ans, quant remire sas faisos,/ totz lo cors m’en vai esperden. (anzi, quando rimiro le sue fattezze/ tutto il mio essere vado perdendo).

Un amore caratterizzato da una natura inesorabilmente sfuggente:

D’aquest’amor son tan cochos                         Di questo amore sono tanto bramoso
que, quant eu vauv vas leis corren,                che quando vado verso di lei correndo
vejaire m’es qu’a reusos                                    al contrario mi sembra che io
m’en torn e qu’ela m’an fugen          me ne torni e che ella se ne vada fuggendomi

Quello di Rudel è il canto drammatico di chi ama una donna alla quale non riesce nemmeno a esplicitare il proprio desiderio (a cui non aus dir mon talen “a cui non oso dire il mio desiderio”), il paradosso di amare e non essere amato, e di amare colei dalla quale non si può ricevere nemmeno uno sguardo.

Nulhus hom no.s meravilh de mi,                Nessuno si meravigli di me
s’ieu am so que ja no.m veira,                      se io amo colei che non mi vedrà,
que.l cor joi d’autr’amor non a                    che il cuore non ha altra gioia
mas de cela qu’ieu anc no vi;                        più di quella che io non vidi
ni per nulh joi aitan no ri,                             ne per nessun’altra gioia mi rallegro
e no sai quals bes m’en venra                       e non so quale bene me ne verrà

Il trovatore è infiammato d’amore e non ha il desiderio di guadagnare o di ricavarne da esso qualcosa. Infatti, quello del poeta, è un amore che non cerca ricompensa, disinteressato, poiché il suo unico interesse è l’esistenza stessa dell’essere che ama (concetto che svilupperà approfonditamente Dante anni dopo).

Ben sai c’anc de lei no.m jauzi,             so bene che di lei mai godrò
ni ja de mi no.s jauzira,                          e che lei non godrà di me
ni per son amic no.m tenra                    ne che per suo amico[/amante] mi terrà
ni coven no.m fara de si;                         ne mi terrà tutto per sé

Ma se abbiamo letto della certezza dell’amante di non poter vedere il proprio oggetto d’amore in altri luoghi del canzoniere egli sembra affermare il contrario:

Ben tenc lo Senhor per verai                       Bene ritengo il Signore per vero
per qu’ieu veirai l’amor de lonh                 perché io vedrò l’amore di lontano

Sembrano esserci momenti di scoraggiamento…

Mas sa beutat no m val nien,                       ma nulla mi vale la sua bellezza
quar nulhs amics no m’essenha                  perché nessun amico mi insegna
cum ja n’aia bonsaber                                    come prenderne piacerebbe

alternati a momenti di fiduciosa speranza,

Dieus, que fetz tot quant ve ni va                    Dio, che fece tutto quanto che viene e va
e formet sest’amor de lonh                                e creò questo amore di lontano
mi don poder, que cor ieu n’ai,                         mi dia la possibilità, che ne ho cuore [desiderio],
qu’ieu veia sest’amor de lonh                           che io veda questo amore di lontano

O ancora

la merce de mon Bon Bon Guiren                   grazie al mio Buon Garante
que m vol e m’apel e m deigna                        che mi vuole e mi chiama e mi giudica
a m’a tornat en bon esper                                 e mi ha fatto volgere alla nuova speranza

Ma se l’amor de lonh è inafferrabile nella dimensione reale (“Mas so qu’ieu vuelh m’es atahis : ma ciò che voglio mi è impedito”), sembrerebbe poter essere goduto nella dimensione onirica:

Anc tan suau no m’adurmi                          Non mi sono mai addormentato tanto soavemente
mos esperitz tost no fos la,                            che il mio spirito non si trovasse subito da lei,
ni tan d’ira non ac de sa                                 ne tanta tristezza non ebbe di qua
mos cors! ades no fos aqui;                            il mio essere! Ora non fossi qui,
mais quan mi resvelh al mati                       e quando al mattino mi risveglio
totz mos bos sabers mi desva                        svanisce ogni mio pensiero.


Spitzer sostiene che la concezione dell’amore dell’innamorato si basa su un mero paradosso: egli infatti vuole possedere e non possedere. Gode del non possesso, della lontananza, della mancanza.

La lontananza, per il principe di Blaia, è condizione necessaria, poiché senza di essa il desiderio si spegnerebbe. Il suo è un amore che si nutre del desiderio stesso di qualcosa di lontano che non si possiede, desiderio puro di qualcosa di grande davvero, qualcosa che non si appaga con un semplice gesto d’affetto (qu’us sols baizars per escaritz/ lo cor no m tengues san e sau che un solo bacio di sfuggita/ il mio cuore non risana” [letteralmente: non tiene sano e salvo]).

L’amore di lontano è quindi un amore intrappolato in una accorta attesa.
sol es savis qui aten/ e selh es fols qui trop s’iras
(so che è saggio chi attende/ e folle chi troppo si adira).

Rudel canta alla propria dama il suo eterno dissidio, il suo essere scisso fra opposte inclinazioni: egli è tentato da cielo e terra poiché il corpo e la mente vogliono due cose diverse: il corpo cerca il Gaug (il piacere corporeo, fisico), la mente desidera il Joi, un’esaltante gioia interiore definibile come “ violenta allegria che rinnova l’essere” che forse si può ottenere solo con la vicinanza dell’amata:

Ben m parra jois quan li querrai,                   Bene mi apparirà gioia quando le chiederò,
per amor Dieu, l’alberc de lonh:                       per amore di Dio, l’ospitalità da lontano
e, s’a lieis platz, alberguarai                             e, se a lei piace, albergherò
pres de lieis, si be m sui de lonh.                      presso di lei, sebbene io sia di lontano

Quello del suo esiguo canzoniere è il racconto di un dramma esistenziale vissuto tra combattimenti interiori, è il racconto di un amore disinteressato che non cerca guadagno, di una perenne tensione verso qualcosa di irraggiungibile che trascende l’uomo, il dolore dell’amare avido e bramoso che non trova corrispondenza.

Rudel canta alla dama del suo cuore il proprio vuoto incolmabile, e fa giungere a lei le note della sua estenuante passione.

Tost veirai ieu si per suffrir/ n’atendrai mon bon jauzimen
(“presto vedrò se attraverso questo soffrire/ otterrò la mia buona gioia”)

Mas lo mieus chans comens’ aissi:/ com plus l’auziretz, mais valra
(“così comincia il mio canto/ quanto più l’udirete tanto più varrà”)

Paolo Di Piramo


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