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Barber e il pianoforte, dal contrappunto alla barn dance

di Ottavia Pastore - 5 Aprile 2018

Se il suo Adagio per archi si è imposto quale pietra miliare della prima metà del novecento decretandone il successo a livello internazionale, Samuel Barber ha molto altro da raccontarci dietro le molteplici sfaccettature del suo carattere.

“Probabilmente nessun altro compositore americano ha mai goduto di una così precoce, persistente e duratura acclamazione”.

Da dove nascono le particolarità di Barber

Una delle sue componenti giace nell’idea di “transnazionalità”, ereditata già fin dalla nascita dalla sua origine irlandese, infatti, lo si potrebbe definire un americano “europeizzato”. Questo principio di fondo è sin da subito percepibile nel suo stile compositivo all’interno del quale, un ascoltatore attento, non può fare a meno di notare il legame che instaura con la tradizione musicale europea e che caratterizzerà la maggior parte della sua produzione, in particolare il repertorio pianistico. Ora infatti andremo alla scoperta di sei sue composizioni in una full immersion nella costellazione degli idiomi che caratterizzano la sua scrittura pianistica. Prima è necessario, però, fare un breve accenno alle radici da cui si sviluppa la sua formazione artistica.

Nato il 9 marzo 1910, a West Chester, Pennsylvania, da una famiglia benestante, Samuel Barber Osborn fu circondato dalla musica fin dalla prima infanzia. Oltre alla madre pianista, furono fondamentalmente le figure degli zii, personalità importanti del panorama musicale del novecento, ad influenzarne il pensiero. In particolare la zia Louise Homer, contralto presso la Metropolitan Opera, che gli inculcò l’interesse per la musica vocale e lo zio Sidney Homer, noto compositore, che ebbe un importante ruolo nell’incoraggiare Barber a proseguire nella studio della composizione, offrendogli una serie di stimoli che avranno un impatto significativo per tutta la sua carriera. Un’altra figura determinante nella sua vita fu senza dubbio il maestro di composizione presso il Curtis Istitute of Music, Rosario Scalero, allievo a sua volta di Eusebio Mandycewky che era stato amico di Johannes Brahms. Scalero aveva sempre istruito i suoi alunni, tra cui Nino Rota, nel retaggio della tradizione classica, a partire dal contrappunto rigoroso fino allo sviluppo di uno stile dai tratti melodici e armonici, intriso di un lirismo nostalgico brahmsiano che si traspare nella musica di Barber. A seguito dei suoi studi, egli intraprese inoltre diversi viaggi in Europa, molto spesso a fianco dell’amico e compagno di vita Gian Carlo Menotti, la cui influenza lo porterà ad una intensificazione e affinamento dell’orientamento neo-romantico di matrice europea a tal punto da essere definito anacronistico e poco sperimentale da parte dei suoi contemporanei, sebbene egli si sentisse a suo agio in entrambi i continenti. 

“Io stesso ho scritto sempre come avrei voluto, e senza un enorme desiderio di trovare l’ultima novità possibile…Ho scritto come ho voluto per me stesso”.

Barber preferì assecondare la sua vocazione, piuttosto che seguire rigorosamente il percorso delle altre avanguardie. Ed è proprio nella musica per pianoforte che troviamo perfettamente quella sintesi sempre al limite fra tonalità e atonalità, una vera e propria fusione fra antico e moderno a cui egli non rinuncerà mai.
D’altro canto, uno dei più famosi esecutori del suo repertorio pianistico fu proprio il noto pianista russo Vladimir Horowitz che, accanto a Van Cliburn e a John Browning, ha reso celebre pezzi come Excursions op. 20, a lui stesso dedicati, Souvenirs op. 28 e niente meno che la sonata per pianoforte op. 26, permettendone un rapido inserimento all’interno del panorama internazionale. Per approcciarci al suo universo pianistico analizzeremo come primo brano le Excursions op. 20.

Excursions op. 20

Composte nel 1942-44 su consiglio della sua cara amica di corso Jeanne Behrend, a cui dedicò la Petite Berceuse, le quattro Excursions rappresentano l’unica serie di pezzi per pianoforte in cui avviene un vero e proprio viaggio nell’America profonda e nei suoi idiomi musicali. La prima, “Un poco allegro”, in forma di rondò ABACA, si basa su un ostinato del basso, elemento costante di tutto il movimento, simile al suono di un vero e proprio motore nella mano sinistra, accostato dagli studiosi al boogie-woogie, mentre la mano destra rappresenta una melodia sincopata di carattere improvvisativo.

Perciò, questa differenziazione di dinamiche, distribuite coerentemente in ambo le mani, ci ricorda una tipica scena di traffico urbano. Nella seconda escursione intitolata “In slow blues tempo”, c’è un riff che funge sostanzialmente da base per successive elaborazioni quasi improvvisate. Essa è costituita principalmente da progressioni armoniche convenzionali e sfumature ritmiche e melodiche associate al blues, che domina la trama musicale. L’atmosfera lenta e rilassata di questo movimento, che si conclude in un accordo finale alla sottodominante, comporta un grande contrasto con il resto della serie.

La terza “Allegretto”, che Barber stesso riferì al tema popolare “Street of Laredo”, è un set di otto variazioni caratterizzate dall’asimmetria ritmica di entrambe le mani per via del ritmo incrociato di sette contro otto forme di base del movimento, che diviene più complesso al progredire del pezzo. Nonostante si presenti apparentemente lirico e spensierato, tuttavia viene considerato il più impegnativo della serie. La quarta, definita un’esuberante e gioiosa barn dance, con riferimento alla musica popolare, è invece più vivace e trae senz’altro ispirazione dal country, come se fosse un dialogo fra diversi strumenti. L’uso di semplici armonie cattura l’autentica essenza di questa specie di danza americana tradizionale. L’imitazione di Barber del banjo è evidente quando graziose note dissonanti vengono aggiunte alla ripresa degli accordi di apertura. La scrittura generale è piuttosto convenzionale e conserva tuttora un portamento elegante e garbato. Presentato da Horowitz nel 1945, Excursions è uno dei brani per pianoforte di Barber più frequentemente eseguito.

Souvenirs op. 28

Esempio di raffinata leggerezza è invece incarnata dalla serie dei Souvenirs op. 28 per pianoforte a quattro mani, risalenti al 1952 che Barber era solito eseguire in compagnia del suo amico Charles Turner in occasione di feste e serate. Per il compositore essi rievocano la Palm Court dell’hotel Plaza di New York, attorno al 1914, all’epoca dei primi tanghi. La maggior parte di essi è in forma ternaria e ci permette di gettare lo sguardo sulle sue principali consuetudini compositive. L’unità ritmica contribuisce in modo significativo al virtuosismo delle opere pianistiche di Barber. In “Hesitation Tango” in particolare, Barber gioca costantemente con le aspettative dell’ascoltatore giustapponendo terzine in cima all’accompagnamento Habanera rispettivamente a battuta 53-55:

Egli fa uso di spesse trame e ampie gamme per creare eccitanti momenti culminanti. La crescita strutturale, in particolare, spesso funge da elemento necessario alla creazione di questi climax. Infatti, sia qui che nell’ultimo movimento della sonata per pianoforte, egli progredisce da una tessitura relativamente sottile a una più densa, abbracciando una porzione molto ampia della tastiera. Per eseguire con successo tali lavori, è richiesto un grande controllo da parte dell’esecutore, poiché all’addensarsi della trama, la melodia non deve sparire sotto la stratificazione di tutte le altre voci. L’esecutore infatti, dovrebbe fare attenzione a non raggiungere il volume massimo troppo presto, in modo tale che il momento culminante rimanga efficace. Inoltre, si dovrebbe notare che Barber raramente ripete il materiale presentato alla lettera, ma piuttosto altera ogni sezione ripetuta, abbellendo la melodia o cambiando la trama. Ogni movimento di Souvenirs trae ispirazione da una diversa danza da sala, perciò l’esecutore dovrebbe ascoltare le forme originali di queste danze ancor prima di approcciarsi alle interpretazioni che Barber gli ha rispettivamente attribuito, come, per esempio, nel caso della Schottische, una danza country della Boemia, la cui natura leggera e rilassata emerge in tutta la sua autenticità in Souvenirs.
Ecco qui la versione originale per pianoforte a quattro mani, poi rimaneggiata anche per pianoforte a due mani e come balletto per la New York Ballet Society.

Nocturne op. 33

In ogni caso, commistioni vere e proprie fra gli stili del diciannovesimo e ventesimo secolo avvengono soprattutto all’interno del notturno op. 33 Homage to John Field, il creatore della suddetta forma, in cui le dissonanze della linea melodica nella mano destra vengono compensate dai centri tonali, tipici della sua scrittura, nell’andamento arpeggiato della mano sinistra.


Nel contrasto fra le opposte funzioni attribuite a ciascuna mano, si ottiene una parvenza di centro di chiave in la bemolle maggiore. Il notturno si presenta in forma binaria circolare, poco sviluppata, caratterizzata da tre sezioni principali: dopo una prima esposizione in A, ci inoltriamo in B dall’andamento turbolento e movimentato per poi confluire di nuovo in A, quasi identica alla prima sezione, che si conclude con un rafforzamento della chiave di tonica attraverso una doppia scala discendente ottatonica che termina in diade, in quel continuo processo di rimaneggiamento per imitazione degli stessi elementi fra le varie voci di ambo le mani, con ampio uso del contrappunto invertibile nel susseguirsi delle battute. L’ accompagnamento in questo caso funge da supporto, fornendo cosi una solida base per la melodia, da eseguire invece con leggiadra disinvoltura per meglio rendere le semicrome ascendenti, a mo’ di volatina. Ivi, un accurato utilizzo del pedale permette di far emergere il lirismo e le rarefatte sonorità lussureggianti, con particolare sensibilità verso la linea del basso. Sebbene il titolo sia dedicato a Field, l’utilizzo del ritmo versatile e degli abbellimenti della linea melodica sono tutte caratteristiche dei notturni di Chopin. È proprio qui che egli inizia ad osare nell’utilizzo ardito della successione delle cosiddette “serie tonali”, affidate per lo più alla melodia della mano destra e all’interno delle quali ogni nota appare solo una volta. Egli le utilizza fondamentalmente per creare per lo più effetti coloristici e cambiamenti d’umore, com’è udibile all’ascolto, sebbene siano dissimulate per rendere il pezzo più facile da seguire.

Interludes I – II

Il suo amore per Brahms in particolare, scaturisce soprattutto dai due interludi op. 4, definiti da Scalero “intermezzi”, con implicito richiamo agli intermezzi composti nell’ultima fase di vita del compositore amburghese, che Barber eseguì per la prima volta in occasione del venticinquesimo concerto degli studenti del Curtis Institute, il 12 maggio 1932. Tale affinità è caratterizzata dall’utilizzo di spesse tessiture, dall’esplorazione dei registri estremi del piano, così come da passaggi accordali sincopati con ampia distanza fra le mani. Egli passa, in maniera quasi continuativa, dall’intimismo malinconico del primo interludio, insito nella sua natura, al temperamento massiccio e impetuoso del tessuto sonoro del secondo. Entrambi seguono la forma ternaria ABA. Nel primo “un adagio, ma non troppo”, che inizia e finisce in mi bemolle minore con sezione centrale in mi bemolle maggiore, al di sopra del lento pedale di tremolo affidato al basso, la mano destra effettua intervalli in moto contrario alla voce interna. Verso la fine, un falso ritorno al materiale di apertura è compiuto da una serie di passaggi in fa diesis minore in cui vi è un’inversione delle parti, con il motivo del pedale posto nella mano destra e nelle tre ottave più alte della tastiera, che rappresenta una sorta di evanescente sospensione temporale, necessaria per poi tornare alla tonalità conclusiva in mi bemolle minore, nel suo appianarsi in quel profondo abisso di mistero che pervade l’intera atmosfera dell’interludio.

Il secondo invece è un “allegro molto agitato”, tutto basato sull’alternanza energica delle mani e rievoca in particolar modo lo spirito delle due rapsodie brahmsiane. Esso è monotematico, per cui la sezione B, rifacendosi coerentemente al principio della variazione tematica, richiama e sviluppa il materiale di A iniziando e concludendosi in sol minore. La sezione centrale inoltre, nonostante segnature di chiave in re maggiore, ci fa percepire sempre una parvenza di ambiguità tonale, attraverso l’esplorazione continua di accordi di settima arpeggiati sino alla ripresa del tempo I in cui, le ultime due battute, si stagliano in un Adagio conclusivo e trionfale.

Piano sonata op. 26

Tuttavia, uno dei suoi più autentici capolavori, sintesi storica fra varie epoche e stili differenti è rappresentata dalla sonata per pianoforte op. 26, la quale può vantare di essere stata l’unica sonata ad avere una confluenza di linguaggi così lontani fra loro. Essa combina l’uso di forme tradizionali quali la forma-sonata e la fuga, con tecniche di composizione novecentesche come la scrittura dodecafonica e lo sviluppo motivico. Composta in occasione del venticinquesimo anniversario per la Lega dei compositori, nel 1950, fu presentata in pubblico nello stesso anno da Vladimir Horowitz, che partecipò attivamente alle varie fasi di composizione della sonata, offrendo delle sue personali valutazioni. Senza dubbio, rispetto ai precedenti pezzi per pianoforte, essa presenta un livello di complessità tecnico-interpretativa notevolmente maggiore, che richiede all’esecutore una certa competenza e padronanza su una molteplicità di repertori. Il primo tempo in forma-sonata veloce ed energica, presenta alcune interessanti particolarità già dalle prime battute in cui, il primo tema puntato e cromatico, è sovrapposto ad una serie d’ottave formanti un giro di blues in do bemolle.

Essa è inoltre caratterizzata da cinque motivi fondamentali, ognuno con una sua prerogativa che si delinea per tutta la durata del movimento, nonché da cinque espliciti esempi di successioni dodecafoniche inserite in un contesto tonale, come l’ultima nel finale, in forma di velocissimi gruppi regolari affidati alla mano destra e contrapposti a bicordi dissonanti della sinistra. In contrasto con la gravità del primo tempo, appena alleggerita da qualche ritmo sincopato dal sapore popular, si approda allo scherzo raffinato in forma di rondò in cinque parti, ABACA, del secondo, in cui si riprende la figurazione in terzine di crome, che caratterizzava il secondo tema del primo movimento, recepito come una sorta di moto perpetuo. I tre motivi presenti rappresentano una tavolozza di colori insolita che Barber riuscì efficacemente a rendere, per esempio, attraverso il ritmo di valzer della mano sinistra, costruito sul terzo motivo del ritornello, che dà un tocco di leggiadria al suo fluido andamento. Dopodiché, la scrittura contrappuntistica d’impianto orchestrale, si staglia nell’atmosfera contemplativa del terzo, in forma ternaria, con linee dalle varie funzioni melodiche, armonie abbreviate, potenti spostamenti armonici dal registro accattivante, paragonato ad un mix fra le due forme barocche della Passacaglia e della Ciaccona, la cui astrazione rappresenta un viaggio spirituale nei recessi più oscuri dell’uomo. Da un lato esso riporta la serietà e il drammatico appello del tema principale del primo movimento, dall’altro ravviva l’approccio cromatico della composizione che porta al punto più espressivo di tutta la sonata: otto misure di apice, un arco di registro senza precedenti di quasi otto ottave, che si rivela in tutta la sua potenza emotiva, data dalla corposità della scrittura. Esso sembra gravitare su una tonica, il si precisamente, ma il disegno di accompagnamento, formato da sei bicordi, si presenta dodecafonico, poiché il movimento è tutto basato su due successioni di dodici toni, in un costante rapporto imitativo fra le voci, così come dimostrano le ultime tre battute che compongono la codetta, simili tra loro melodicamente e ritmicamente mentre procedono verso il “morendo” dei due accordi finali.
Un basso ostinato caratterizza questo terzo tempo della sonata per piano.

Quest’ultimo infatti apre il movimento, proseguendo poi il suo percorso nella mano sinistra, dopo l’entrata della melodia della mano destra, conferendo ad esso un carattere minaccioso e allo stesso tempo laborioso, la cui funzione è quella di sostenere una deliberata e inesorabile sensazione di dinamismo. La lentezza dell’“Adagio mesto” funge perciò da preludio alla trama polifonica dell’ultimo movimento. La trionfale conclusione della sonata infatti esplode nella dinamicità ritmica della fuga in stile bachiano del quarto. Qui è possibile percepire, con grande immediatezza, la miscela di ritmi ispirati al jazz, il cosiddetto “classicismo yankee”. Nel chiudere il suo cerchio l’ultimo tempo riprende la tonalità del primo, in mi bemolle minore, in cui il soggetto della fuga viene diviso in due motivi che occupano le prime tre battute, mentre il controsoggetto è introdotto alla quarta, negli acuti. Per tutta la durata della fuga Barber rielabora continuamente i motivi a, b, c con l’ausilio di diverse tecniche contrappuntistiche: per ripetizione, imitazione e aumentazione. A spezzarne la regolarità e il moto incessante, interviene un’interessante cadenza metricamente libera, concedendo un attimo di respiro all’ascoltatore prima della gran coda finale, la quale accumula una graduale e incalzante tensione ritmica, culminando con la presentazione del motivo aumentato A. Questa scrittura di trascendentale difficoltà, vitalità ritmica, potenza sonora e dominio formale, costituisce la degna conclusione di un’opera fondamentale del repertorio pianistico americano. Come è possibile notare, nonostante Barber imposti i quattro tempi su forme tradizionali, la sonata presenta un’elevata frequenza di cromatismi e dissonanze che non ha pari nei precedenti lavori, oltre ad un uso consapevole delle tecniche serialiste, mascherate solitamente dall’ambiguità dei centri tonali.

Ballade op. 46

Ci accostiamo all’ultima opera per pianoforte scritta nel 1977, la famosa Ballade op. 46, commissionata nel 1974 dalla Van Cliburn Foundation per il V concorso pianistico quadriennale di Fort Worth. Strutturata in forma ternaria, essa presenta un’iniziale indicazione di tempo “Inquieto”, su un impianto armonico incerto calato in quel flusso costante di ambiguità tonali, proprie del suo stile. Sebbene il pezzo sia di durata contenuta, all’incirca sei minuti, questa iniziale connotazione in particolare rivela la lunga serie di rielaborazioni a cui fu soggetta, dovute inoltre anche al deterioramento progressivo delle condizioni di salute di Barber, nonché a problemi di depressione e alcolismo che ridussero significativamente la sua produzione creativa. Barbara Heyman, sua principale biografa, suggerisce che questa condizione di stress è evidente nella calligrafia di due manoscritti di questo pezzo, ora conservati presso la Library of the Congress, in cui, secondo quest’ultima, “sebbene la notazione sia leggibile, i segni di espressione sono insolitamente irregolari e laboriosi rispetto al portamento solitamente elegante di Barber. Effettivamente, i suoi manoscritti della Ballata sono stranamente disordinati, le pagine sono caotiche, con sezioni ritagliate e trascritte altrove […]”. All’interno di essa è inoltre intuibile la chiara ispirazione alle ballate di Chopin e ancor più alle ballate op. 10 di Brahms, nonostante siano presenti forti contrasti espressivi, descritti con precisione sempre dalla Heyman: “questo pezzo si basa sulla metamorfosi di un solo motivo di quattro note, che acquista rilievo attraverso una crescente densità del tessuto armonico, dissonanze inattese, figurazioni martellate o abbellimenti. La sezione centrale presenta per contrasto una raffica veemente di retorica lisztiana. Ballade inganna con la sua apparente facilità, ha anzi passaggi virtuosistici che esigono tanta capacità tecnica quanta finezza interpretativa”. Ballade, infatti, è un brano altamente idiomatico, che comprende tre sezioni in forma ternaria, in cui l’ultima è fondamentalmente una ripresa della prima.
La prima in particolare, si apre con una frase discendente, ripetuta con ulteriori modificazioni. Dopodiché, una corsa serrata ascendente, ci conduce al tema principale, formato da tre motivi derivati da un accordo.

La frase discendente guida la musica verso una graduale disintegrazione: La sezione B, in netto contrasto con la misteriosa sezione A, inizia violentemente, e via via diventa sempre più complessa e tempestosa, costituita da molti virtuosismi, in una scrittura rigorosamente pianistica. Prima della conclusione, un’allusione al tema principale genera una pausa tensiva, seguita dalla ripresa di A, in cui si misura l’abilità dell’esecutore nella sua capacità di modulare l’interpretazione con lo stesso materiale tematico, aggiungendo così una varietà coloristica al lavoro.

All’interno del suo repertorio pianistico Barber ci lascia intravedere, dietro quel misterioso velo di discrezione dalle atmosfere nebulose, tipicamente brahmsiane, questa sua impareggiabile capacità di coniugare molteplici istanze in un unico inconfondibile stile che, a sua volta, gli permette di coltivare in modo originale la propria sfera individuale. Essa infatti rappresenta il fulcro di quella universalità compositiva, sopra accennata, caratterizzata dall’incessante ricerca di nuovi significati da attribuire alla materia sonora.

Perciò, il suo essere apolide e cittadino del mondo al tempo stesso, l’ha portato inoltre a dissociarsi dal dibattito sull’identità della musica americana, rendendolo un unicum nella storia della musica. Infatti, mentre compositori come Copland, Gershwin, Bernstein miravano alla creazione di un “suono” americano nella sua essenza più vera, Barber trascende l’idea stessa di nazionalità affermando, con quell’elegante compostezza che lo ha sempre contraddistinto, le ragioni del suo comporre, come riporta un’intervista con John Gruen pubblicata sul New York Times.

“Per quanto riguarda la mia musica, non ho mai scritto un libro su di essa. Io non sono un pedagogo…Quando scrivo una sonata per pianoforte astratta o un concerto, io scrivo quello che sento. Io non sono un compositore consapevole di sé. Penso che ciò che hanno creduto una grande quantità di compositori addietro, sia stato il sentirsi in dovere di creare uno stile nuovo ogni anno. Questo nel mio caso, sarebbe senza speranza. In realtà, si dice che il mio stile non sia per tutti, ma questo non importa. Mi basta andare a fare, come si suol dire, la mia cosa. Credo invece che questo, richieda un certo coraggio”.

Ottavia Valentina Pastore

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