Quando è l’ora di dire basta
di Carlo Emilio Tortarolo - 2 Maggio 2025
Nel fluire inesorabile del tempo, l’artista si trova spesso invischiato in una battaglia interiore, un dilemma esistenziale che lo costringe a interrogarsi sul senso del perpetuare la propria opera creativa nonostante l’arrivo dell’età e l’ineluttabile afflizione di debolezze fisiche e malattie debilitanti.
Nel febbraio 2025, il pianista e direttore Daniel Barenboim ha aggiunto un nuovo capitolo al suo lungo congedo dalle scene. Con una nota sobria, ha reso pubblica la diagnosi di Parkinson, confermando le voci che da tempo circolavano attorno al suo progressivo ritiro dai podi internazionali. Nessun tono patetico, nessuna richiesta di indulgenza: Barenboim ha voluto piuttosto ribadire il legame profondo che lo unisce alla musica, dichiarando di voler continuare a dirigere ogni volta che il corpo glielo permetterà, soprattutto relativo al suo impegno sociale della West-Eastern Divan Orchestra, garantendo che l’orchestra proseguirà il proprio cammino anche con altri direttori.

La difficoltà di “dire basta” si radica nella consapevolezza che l’arte non è soltanto un mestiere, ma un’estensione dell’essere stesso; abbandonarla significherebbe rinunciare, in quello che è un piccolo ma feroce annientamento di sé, a una parte della propria identità.
Barenboim, nell’atto estremamente raro di condividere pubblicamente una malattia neurodegenerativa, non ha cercato di nascondere la fatica della sua situazione ma, leggendo fra le righe alleggerendo i suoi impegni, non terminandoli.
L’esperienza artistica sembra essersi trasformata in un vincolo inesorabile, un fardello che ne impedisce la liberazione anche di fronte a sofferenze che logorano il corpo. Sembra quasi che l’anima artistica, condannata a ritornare costantemente al proprio mestiere, non possa trovare pace nella tregua del silenzio. La difficoltà di “dire basta” si radica nella consapevolezza che l’arte non è soltanto un mestiere, ma un’estensione dell’essere stesso; abbandonarla significherebbe rinunciare, in quello che è un piccolo ma feroce annientamento di sé, a una parte della propria identità.
Col rischio di macchiare, però, irrimediabilmente le pagine della propria carriera.
Uno dei casi più noti al mondo musicale, anche se erroneamente taciuto dalla stampa, è quello del compianto Maurizio Pollini. Nel giugno del 2023, alla Royal Festival Hall di Londra, il grande pianista offrì un’esibizione che, oltre a celebrare il ritorno del grande maestro sul palco, rivelò, con struggente evidenza, tutti i segni di una fragilità ormai ineludibile.
Il recital è stato descritto come segnato da esitazioni, passaggi saltati, rallentamenti imprevisti. Fu necessario per evitare ulteriori incidenti l’intervento di un girapagine e dello spartito sul pianoforte senza però riuscire a mascherare l’incertezza di una tecnica logorata alla luce dei suoi 81 anni, di cui oltre sessanta di grandissima carriera.
Se da una parte, alcuni critici parlarono di “trionfo dello spirito umano” per sottolineare la dignità del gesto, traspare forse l’ombra sottile di una domanda più onesta per quanto scomoda: quando un artista smette davvero di servire la musica, e comincia, inconsapevolmente, a servirsi di lei per non scomparire?
Se ci guardiamo attorno, in particolar modo nelle programmazioni dei principali teatri e stagioni, si può notare come il panorama della musica classica sia costituito da veri e proprio highlander che alla soglia dei 70, 80 e addirittura 90 anni appaiono ripetutamente in scena, magari dopo aver suonato qualche giorno prima in un continente diverso. Il percorso artistico di questi grandi artisti si configura allora come un cammino senza ritorno?

Ci si trova davanti al più classico dei paradossi: la creatività sembra alimentarsi della sofferenza e della limitatezza fisica stesse in un tentativo di trascendere la mortalità, ma al prezzo di un continuo sforzo che si ripercuote sulla salute fisica e mentale. Un tremendo circolo vizioso in cui, da una parte, la notorietà e l’identità consolidata non permette agli artisti di voltarsi indietro; dall’altra, la sempre più presente consapevolezza della propria fragilità. Una condizione malinconica che rievoca il dramma di un’antica tragedia greca e si manifesta nella difficoltà di conciliare il bisogno di espressione con l’impossibilità fisica di sostenere lo stesso ritmo creativo.
La condizione di “non potersi fermare” diventa allora una forma di autoimposizione, un tributo all’ideale dell’immortalità artistica, anche se al prezzo di sacrifici fisici e psicologici che, talvolta, sfociano in veri e propri martiri del talento.
La condizione di “non potersi fermare” diventa allora una forma di autoimposizione, un tributo all’ideale dell’immortalità artistica, anche se al prezzo di sacrifici fisici e psicologici che, talvolta, sfociano in veri e propri martiri del talento.
Dietro a questa resistenza c’è un conflitto molto più umano di quanto si pensi. Per quanto l’idealizzazione del genio ci abbia abituati a pensare all’artista come a un essere in bilico sull’assoluto, il legame con la performance resta una forma di dipendenza emotiva. Non è solo il pubblico a non voler vedere un artista invecchiare; è spesso l’artista stesso a non tollerare la propria decadenza.
Quando Glenn Gould decise di abbandonare per sempre le scene a poco più di 30 anni, lo fece per una forma quasi mistica di controllo. Non voleva essere visto mentre invecchiava e in un certo qual senso non voleva spettacolizzare la propria agonia. Ma quanti hanno la forza di un simile gesto radicale?
In una società che idealizza, a parole, la giovinezza e stigmatizza, con i fatti, la fragilità, è difficile per un artista accettare di diventare – anche solo simbolicamente – il riflesso di ciò che era.
È uno dei motivi per cui il discorso sulla fine della carriera artistica è spesso tabù. Si preferisce parlare di “pausa”, di “ritiro temporaneo”, o semplicemente si lascia che il silenzio prenda il posto delle parole. Ma il rischio è che si perda l’occasione di costruire un discorso pubblico e condiviso sul valore della maturità artistica, sul significato del congedo, sul diritto alla vulnerabilità.
Ma al resto del mondo musicale cosa rimane di questo discorso?
Il problema dell’invecchiamento degli interpreti non è solo biologico: è strutturale.
Se la scena è occupata da giganti ultrasettantenni, il ricambio generazionale inevitabilmente rallenta, e con esso la possibilità per i giovani di affermarsi realmente. Non avremo “i nuovi” Pollini o Barenboim, non perché siano meno bravi, ma perché l’epoca in cui si diventa “leggenda” è passata.
Il pubblico, coetaneo degli artisti amati e seguiti, aspetta e riempie le sale dei loro concerti ma ignora le nuove leve. Da anni si segnala come un pubblico che non si rinnovi non potrà essere pubblico domani. E se le sale da concerto si svuotano o si svuoteranno, forse è anche perché i direttori artistici non osano proporre un cambio di sguardo.
Infine, la cristallizzazione dell’interpretazione: molti giovani suonano “alla maniera di”, ripetendo estetiche nate nel secolo scorso. L’evoluzione del gusto si è interrotta, come se l’eccellenza di un’epoca avesse pietrificato ogni possibilità di novità. Ma se la tradizione non si trasforma, diventa accademia. E l’accademia non accende più nessun fuoco, neanche nel pubblico.
Così, forse, non si tratta di capire quando smettere, ma come. Di immaginare forme nuove di presenza che non siano solo sopravvivenze, ma trasformazioni. Di accettare che anche il silenzio può essere parte dell’opera. E che dire basta, in fondo, non è rinunciare alla musica – ma smettere di combattere contro ciò che si è diventati. Fino a che punto il talento può e deve sfidare il destino per rimanere fedele a sé stesso?