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Conosci tu il paese dove si canta gratis?

di Carlo Emilio Tortarolo - 21 Maggio 2025

«L’Italia è piena di infermieri che intuberebbero gratis i pazienti». 

«L’Italia è piena di italiani che canterebbero gratis l’inno nazionale». 

«L’Italia è piena di operai che lavorerebbero gratis per la propria nazione». 

Una di queste frasi, è parola del ministro della Cultura Alessandro Giuli. E se l’hai indovinata o sei informato sulla vicenda oppure hai un pregiudizio nei confronti della Cultura.

È bastata questa frase (la seconda), pronunciata in merito al rifiuto dell’Orchestra e del Coro della Fenice di eseguire l’Inno di Mameli per 70 euro lordi, per scatenare la domanda, parafrasando Goethe che invece voleva lodare la bellezza italiana, che dà il titolo a questo articolo: conosci tu il paese dove si canta gratis?

Sì, perché al di là della retorica patriottica e dell’effetto sonoro della dichiarazione, quella che si è aperta è una pagina emblematica del nostro rapporto nazionale con il lavoro culturale. Una pagina che, come spesso accade, si scrive male, si legge peggio e si rilegge con fastidio.

Un inno da (quasi) zero euro

Tutto comincia con l’idea, promossa dall’Anfols, l’Associazione nazionale delle Fondazioni Lirico-Sinfoniche, e accolta dal ministero della Cultura, di registrare l’Inno di Mameli alla Fenice per la Festa della Repubblica, come riportato da Adnkronos. Un gesto simbolico, certo. Ma simbolico non vuol dire gratuito. Per l’intero progetto, infatti, sarebbero stati stanziato 40mila euro per realizzare e trasmettere il registrato in corrispondenza della Festa della Repubblica su RaiUno, così da nobilitare il patrimonio operistico italiano. E allora perché parlare di gratuità? Perché ai musicisti, artisti stabili della Fondazione, viene proposta una paga da comparsa cinematografica: circa 70 euro lordi per due giorni di lavoro, pesantemente sotto il minimo sindacale che il governo stesso dovrebbe far rispettare

I sindacati intervengono. Il compenso viene ritenuto offensivo, soprattutto considerando che la registrazione sarà trasmessa su Rai Uno subito dopo il Tg serale, con tutta la pompa magna del caso. Si propone un aumento simbolico. Il teatro non risponde. L’orchestra e il coro, a quel punto, si rifiutano di partecipare.

Fin qui, una dinamica sindacale piuttosto consueta, aggravata però da una consuetudine tutta italiana: l’idea che il prestigio sostituisca il compenso, e che il “sentimento nazionale” possa rimpiazzare una busta paga.

Un bel tacer non fu mai scritto

Stupisce l’entrata in scena del ministro Giuli, già apertamente criticato nelle scorse settimane per le sue dichiarazioni sul mondo del cinema. E lo fa con parole che, al netto del paternalismo di facciata, sembrano scritte direttamente su un manifesto vintage: “Cantare per l’onore, non per il salario”. 

Il sottotesto, però, è chiaro: i musicisti della Fenice avrebbero dovuto accettare, in nome di un dovere morale. Perché se ti pagano per fare musica, già ti sta andando bene. Se poi ti chiedono di farlo per la Patria, che vuoi di più?

Il messaggio è pericolosamente semplice: l’arte non è lavoro, è missione

E se non ti va bene, c’è sempre qualcuno che canta gratis.

Il mito del sacrificio culturale

C’è un momento, nella storia recente del nostro Paese, in cui la retorica dell’“onor gratuito” ha smesso di fare notizia e ha iniziato a fare danni. In nome della visibilità, del prestigio o dell’appartenenza, si è chiesto a intere generazioni di artisti, tecnici, curatori, interpreti e perfino impiegati di “donare il proprio tempo”. 

Ma se tutti lavorano per prestigio, chi mangia per davvero?

Il caso della Fenice è solo l’ultimo atto di un’opera più grande. Non è un caso isolato, è una sinfonia nazionale: quella in cui il feticcio della cultura si accompagna alla svalutazione sistemica di chi la fa. Il Paese in cui si inaugura una mostra a settimana ma si chiude una scuola d’arte al mese

Il Paese in cui si canta l’inno, purché non costi troppo.

Un epilogo surreale

Se un’istituzione pubblica deve essere salvata da una donazione privata per onorare una celebrazione pubblica, allora forse non siamo più in una democrazia culturale, ma in un mecenatismo di emergenza.

Alla fine, a salvare la faccia, e l’inno, è il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, che paga di tasca sua i compensi aggiuntivi ai musicisti (20.000 euro dal fondo d’indennità del sindaco, secondo le dichiarazioni ufficiali). 

Un gesto generoso, certo. Ma anche un segnale che qualcosa, nel sistema, non funziona.

Perché se un’istituzione pubblica deve essere salvata da una donazione privata per onorare una celebrazione pubblica, allora forse non siamo più in una democrazia culturale, ma in un mecenatismo di emergenza.

Chi canta gratis, spesso lo fa perché non ha scelta. Chi pretende che si canti gratis, invece, ha scelto: ha scelto di non riconoscere valore a questo lavoro. 

E, in questo caso, ha scelto anche di non riconoscere la differenza tra uno slancio d’amore e un contratto collettivo.

Perciò sì: esiste un Paese dove si canta gratis. Ma è anche quello dove si confonde la dignità con il sacrificio, la cultura con l’intrattenimento, la politica con lo slogan. E dove la musica, ogni tanto, decide di tacere. Per farsi sentire meglio.

Carlo Emilio Tortarolo

Autore

Direttore d'orchestra, pianista e manager culturale veneziano, Carlo Emilio è presidente di Juvenice - Giovani Amici della Fenice, associazione dai giovani per i giovani per la condivisione e la promozione degli spettacoli musicali, ed è segretario del Festival Pianistico ‘B. Cristofori’ di Padova.

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