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Come lavoreranno i teatri del futuro?

di Filippo Simonelli - 23 Febbraio 2022

N[/dropcap]el manifesto del Future Stage, i proponenti toccano numerosi e variegati argomenti: ci sono prese di posizioni, una diffusa pars destruens che punta il dito impietosamente sulla situazione attuale del mondo dello spettacolo dal vivo – musicale, ma non solo – e uno sguardo, altrettanto impietoso, sui problemi concreti che ci si trova ad affrontare chi si affacci a questo mondo da una prospettiva professionale. Come in ogni manifesto, le scelte dei suoi autori sono fatte volutamente per suscitare riflessioni anche a partire da idee differenti rispetto a quelle esposte. Non prendete tutto per buono acriticamente, ma metteteci del vostro, in buona sostanza. Ultima postilla prima di andare nei dettagli: la situazione qui delineata non riguarda solo i teatri in quanto tali, ma useremo questo termine sia perché forse è il più onnicomprensivo – teatro è tanto il lirico quanto quello di prosa, due universi differenti dal punto di vista artistico e organizzativo – sia per brevità per non dover ripetere ogni volta espressioni come “luoghi dello spettacolo dal vivo” che, oltre ad essere ridondanti da leggere, hanno un che di asettico.

Lavorare nei teatri del futuro

Partiamo da un presupposto che non si può non condividere con gli autori del Manifesto: il sistema così com’è nei teatri non funziona. Non funzionava neppure prima della pandemia, ma adesso il Re è nudo, completamente: e la colpa è solo imputabile alle difficoltà che sono emerse per colpa del covid: guardando al modello italiano, è innegabile che la presenza sproporzionata della mano pubblica, che da’ molto a un novero relativamente ristretto di soggetti lasciando la maggioranza a barcamenarsi con risorse insufficienti, innesti dei circoli viziosi dai quali è difficile uscire. Questo ha un riflesso oltre che sulle programmazioni dei teatri, sul loro modello organizzativo: le piccole istituzioni spesso si devono arrangiare creando figure ibride per coprire le mille professionalità che una realtà di questo tipo richiederebbe rispetto a un grande teatro che può puntare a una maggiore efficienza nella divisione del lavoro. In questo però può essere d’aiuto la tecnologia: gran parte delle mansioni organizzative sono state digitalizzate e permettono una gestione più accentrata – e relativamente più semplice. Accanto a questo è subentrata la necessità assolutamente trasversale alle diverse forme artistiche di dotarsi di un’immagine digitale, un brand che dir si voglia.

Può sembrare strano, ma non tutte le istituzioni si sono adeguate rapidamente – alcune ancora stentano a farlo – e di contro chi ha fatto questa scommessa in tempi non sospetti ha un vantaggio competitivo non indifferente: per restare nell’ambito musicale, il caso più eclatante è quello dei Berliner Philarmoniker che oltre a poter contare su una reputazione secolare si sono dotati di un’immagine virtuale perfettamente riconoscibile con uno strumento quale la Digital Concert Hall, che adesso viene emulata da più parti; a livello puramente di brand, che comprende sia la comunicazione e la presenza digitale sia la ripercussione in positivo sul proprio territorio di riferimento, il caso di maggior successo a cui viene da pensare è quello del Festival Donizetti di Bergamo, che dal 2020 in avanti ha messo veramente una marcia in più con iniziative trasversali che hanno pochi eguali tra i teatri italiani. Ad aggiungere il carico poi c’è stata anche l’iniziativa dell’abbonamento sospeso, organizzata dall’imprenditore e Ambasciatore del Teatro Marco Mazzoleni a beneficio del pubblico del teatro, in una inedita e innovativa sinergia tra istituzione, pubblico e sistema produttivo locale.

Teatri e territori

Le amministrazioni locali, su tutti i livelli, sono fondamentali interlocutori per i teatri. La direzionalità di questo rapporto però è stata negli anni piuttosto sbilanciati. Prendendo a riferimento il modello italiano, è tristemente frequente il rapporto di puro carattere economico, a cui spesso corrisponde un patrocinio formalizzato, qualche incontro di rappresentanza istituzionale e poco altro. Questo scarso legame porta ad esasperare poi l’immagine del teatro come un luogo chiuso fisicamente e metaforicamente, riservato ad un’élite chiusa.

Un segnale di inversione di tendenza è stato imposto dalla prima estate post-pandemica, quando molte istituzioni hanno ripreso le proprie attività con una programmazione en plein air. Chiaramente mettere in piedi delle performance all’aperto porta con sé delle criticità specifiche che non sarebbero prese in considerazione altrimenti, ma anche degli innegabili benefici: è il caso soprattutto dei centri medio-piccoli che occupando spazi della città ritrovano una centralità anche fisica e visibile a tutta quella parte di popolazione che possa essere interessata ad un evento culturale in senso più ampio. E questo ci porta a fare un’ultima valutazione sul ruolo che le istituzioni culturali hanno nella definizione dell’immagine di una città.

Uno sguardo verso l’esterno

È cosa nota infatti che le arti ed i loro luoghi siano specchio delle città che le ospitano, e ad essere indissolubilmente legate: Hermitage e San Pietroburgo sono perfettamente sovrapponibili, così come Brera e Milano. Per la musica vale lo stesso discorso tra San Carlo e Napoli o tra Metropolitan e New York, e così via. In un mondo in cui la centralità delle città rispetto agli stati nazione si fa sempre più chiaro, specie a livello di immagine, il ruolo che possono giocare tutte le istituzioni culturali nel ribadire questa centralità. Ancora una volta ci viene in aiuto l’esempio del Donizetti e del suo rapporto con Bergamo. La città lombarda infatti è stata tristemente associata a uno dei primi epicentri pandemici nel 2020, quindi la sua immagine potrebbe essere compromessa: ecco allora che l’idea di restituire una centralità alla cultura nell’immagine della città. Da qui vengono le iniziative aperte al pubblico, gli “Ambasciatori” celebri – di cui Mazzoleni è solo un possibile esempio. Naturalmente oltre a queste belle idee e buoni propositi vanno affiancati professionisti, persone che siano in grado di veicolare i valori di un’istituzione, con una riedizione di quella diplomazia culturale che fu centrale nei momenti di disgelo tra potenze durante la guerra fredda e che nel mondo artistico di oggi e di domani soprattutto giocherà un ruolo sempre più centrale per riavvicinare un mondo di isole che comunque rimangono fisicamente troppo separate, ancora oggi.

Filippo Simonelli

Direttore

Non ho mai deciso se preferisco Brahms, Shostakovic o Palestrina, così quasi dieci anni fa ho aperto Quinte Parallele per dare spazio a chiunque volesse provare a farmi prendere una decisione tra uno di questi tre - e tanti altri.

Nel frattempo mi sono laureato e ho fatto tutt'altro, ma la musica e il giornalismo mi garbano ancora assai.

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