La Terza di Mahler: la Natura e il sacro

…nel mare allora andando in un’oscurità maggiore

sogna l’alito di Dio e vedine la chiarità che salva

           [R.Pagnanelli]

Autore: Francesco Bianchi

23 Gennaio 2018
Le nove sinfonie di Gustav Mahler si potrebbero pensare come un’unica gigantesca opera dove si compie una continua lotta fra forze telluriche e tensioni astrali. In ognuna di esse è narrato un percorso verso la luminosità e la libertà, sempre diverso e sempre in fieri; perché anche se quasi tutte nell’ultimo movimento giungono a grandiose esplosioni di gioia ed estasi, Mahler sente in ogni sinfonia la necessità di ricominciare dal grado zero, come se il compimento non fosse mai davvero definitivo. L’infinità dell’uomo per Hegel stava nell’irrequietezza e nell’impossibilità di afferrare un momento e dirlo ultimo, perché il trapasso dialettico era inarrestabile; così anche gli approdi ontologici di Mahler sono profondamente umani perché non esauriscono le interrogazioni, ma, costruendosi su una logica dialettica, ogni momento del percorso è memore del precedente e gravido del futuro. Questo vale in massima misura per la Terza sinfonia: qui i temi passano da un movimento all’altro, addirittura da una sinfonia all’altra, in una articolatissima architettura formale. L’oggetto di quest’opera richiede infatti una scrittura così complessa: parlare della natura, di tutta la natura, dalla sua genesi fino a Dio.

La musica e la parola

 

E’ necessario innanzitutto tenere presente che definire il contenuto tematico di una sinfonia è sempre una impresa ardua. La Terza sinfonia sembrerebbe costituire un’eccezione, perché Mahler scrisse un programma che descriveva il contenuto di ogni movimento. Tuttavia tali indicazioni furono eliminate prima della stampa della partitura, per cui si presentano all’ascoltatore come un problema. Infatti il gesto di scrivere un programma e poi di eliminarlo (cosa già accaduta con la Prima), dimostra una articolazione complessa fra il linguaggio musicale e quello verbale. Scrive egli stesso:

[blockquote cite=”Gustav Mahler” type=”left”][…] in quanto a me so che non posso far musica fintantoché la mia esperienza si può raccogliere a parole. La mia esigenza di esprimermi musicalmente – sinfonicamente – inizia solo quando dominano le “oscure” sensazioni, ed esse dominano sulle soglie che conducono all’altro mondo, il mondo in cui le cose non si scompongono più nel tempo e nello spazio.[/blockquote]

Da queste parole si evince come l’esigenza di scrivere musica nasca in Mahler nel momento in cui la sua riflessione si scontra con i limiti del linguaggio: addentrarsi in regioni oscure e intricate del pensiero, richiede una flessibilità logica che la parola non gli concede. Ecco che la musica viene in soccorso alla logica stessa, dispiegando le sue innumerevoli possibilità espressive, che si convertono in possibilità logiche.

Questo rapporto può essere visto anche “inversamente”, nella prospettiva del ruolo che invece hanno le parole all’interno della musica: parlando del significato dei testi cantati nelle sue sinfonie, precisamente nella Seconda e nell’Ottava, Mahler afferma che li inserisce perché abbreviano la composizione, in quanto se dovesse esprimere quei concetti musicalmente, la composizione diverrebbe esageratamente prolissa. Dunque la parola ricompare all’interno della composizione per precisare dei concetti, che poi interagiscono e vengono arricchiti e rielaborati dall’aspetto musicale della composizione. E’ un continuo gioco di incastri e superamenti: la parola apre un ambito semantico che poi la musica approfondisce, cesellando il contenuto con gli strumenti del linguaggio strumentale.

 

La narrazione della Terza sinfonia

 

Le già citate indicazioni programmatiche, che Mahler scrive per questa sinfonia, sono le seguenti:

  • Pan erwacht. Der Sommer marschiert ein (Pan si risveglia, arriva l’estate)
  • Was mir die Blumen auf der Wiese erzählen (Quello che i fiori del prato mi raccontano)
  • Was mir die Tiere im Walde erzählen (Quello che gli animali della foresta mi raccontano)
  • Was mir der Mensch erzählt (Quello che l’uomo mi racconta)
  • Was mir die Engel erzählen (Quello che gli angeli mi raccontano)
  • Was mir die Liebe erzählt (Quello che l’amore mi racconta)

Come è facile intuire l’idea generale della sinfonia è un enorme affresco in cui raccontare la natura, dai suoi gradini inorganici più bassi fino a Dio. Il compositore stesso, parlando di quest’opera disse: «la mia Sinfonia sarà qualcosa che il mondo non ha ancora udito. La natura parla qui dentro e racconta segreti tanto profondi che forse ci è dato presentire solo nel sogno.»

Osservando questo programma è possibile effettuare una macrodivisione dei movimenti: da una parte il primo e poi gli altri cinque. Il primo, il più lungo, più di mezz’ora di musica, è un movimento del “Divenire”: non ci sono temi e concetti fissati in maniera definitiva, perché l’oggetto in questione è la genesi della vita, la dinamicità interna della natura che emerge dal continuo mutarsi dei temi, dei ritmi e delle armonie. E’ un movimento in cui il tempo agisce attivamente sulle immagini che la musica crea: quello che c’è all’inizio è diverso da quello che troviamo alla fine, c’è un progresso, un cambiamento, si racconta una storia. I movimenti successivi, invece, sono i movimenti dell’“Essere”, in cui non accadono dei fatti, il tempo è fermo, e si descrive ciò che è. Nella seconda parte della sinfonia, infatti, vengono narrati i diversi livelli ontologici del reale: i fiori, gli animali, gli uomini, gli angeli, Dio. Questi costituiscono una vera “ascesa” anche da punto di vista musicale, in quanto rispecchiano formalmente una elevazione: le forme in cui sono scritte partono dalla più semplice e primitiva fino alla più alta. Troviamo infatti in sequenza una danza, poi uno scherzo, un Lied, un inno e l’introspettivo Adagio finale.

(Wenzel Peter “Il giardino dell’Eden”)

La Terza, così come la precedente sinfonia, narra di un cammino che, per questi motivi, spesso si è definito ascensionale: dalle regioni gravi dell’oscurità fino a quelle alte della luce, del coro, della lode. Probabilmente però, per questa sinfonia, un vocabolo così “platonico” come ascesa, è forse piuttosto forzato e semplicistico, in quanto si limita ad interpretare il contenuto della sinfonia solo sulla base di quel programma, che poi lo stesso Mahler ha eliminato. Più precisamente l’oggetto di questa sinfonia è una ricognizione della natura nella sua totalità e più che una ascesa, cioè un allontanamento dal mondo, si tratta invece di una narrazione della realtà che cerca di andare sempre più a fondo, alla ricerca di una “Urquelle”, una fonte ontologica primigenia, di mistica memoria (Boheme), da cui tutto l’essere scaturisce.

La Grange scrive a proposito di questa sinfonia: «la filosofia di Mahler ha qui un sentore panteistico… questa forma di sentimento mistico era forse più essenziale alla sua natura che non la fede cristiana o quella ebraica». Infatti nella Terza non è messo a tema lo scontro fra le forze, come ad esempio nella Seconda, ma la complementarietà e la coesistenza di generazione e morte nel grande regno della natura. Anche Quirino Principe sottolinea che il lessico musicale della Terza tende all’orizzontalità e non alla verticalità:

Priva del cielo (anche il quinto tempo, malgrado il testo del Wunderhorn, sul perdono di San Pietro, rende del paradiso il colore fiabesco, non l’altissima prospettiva teologica), la Terza acquista in compenso spazio orizzontale; invece di ascendere passa a volo radente su immense distese, attraversando zone alterne di luce e d’ombra, in un paesaggio estivo ma nordico, con improvvisi nuvoloni neri e brividi di freddo.

Seguire tutto il volo di questa gigantesca sinfonia sarebbe troppo impegnativo per un articolo, per cui ci si soffermerà “solamente” sul primo e sull’ultimo movimento, con la specifica che questa scelta è dettata unicamente da esigenze di brevità e non, ovviamente, da un giudizio estetico sui momenti tralasciati.

 

Il primo movimento: la genesi

 

Il primo incontro con questa sinfonia, quando la si ascolta dal vivo, lo si ha immediatamente già al solo entrare degli orchestrali: un organico sterminato, che conta 120 strumentisti, un soprano e un coro di voci bianche. Queste grandi dimensioni hanno una ragione ben precisa. Infatti, come detto sopra, Mahler pensa in musica, perché in questo linguaggio trova la possibilità di articolare un pensiero che non gli sarebbe possibile esprimere in parole. Nello specifico, in questo movimento, si confronta con il tema dell’origine, della genesi del mondo, uno dei problemi fondamentali dell’ontologia da Platone in poi; la questione cosmogonica irrisolta è: come fa il molteplice a nascere dall’Uno? Come si genera l’infinità degli esseri dalla semplicità dell’Uno? Se l’origine è una e stabile in sé, come può contenere tanti elementi contraddittori e in lotta fra loro? La musica consente a Mahler di sciogliere questa impasse, facendo discendere il molteplice da una unità proprio grazie a questo organico sterminato.

Infatti ascoltando quest’opera dal vivo, si percepisce un aspetto performativo: lo spazio. La grande orchestra, subito dopo il tema esposto dagli 8 corni, comincia da un’atmosfera di immobilità da cui mano a mano emergono degli elementi e fa percepire all’ascoltatore i diversi strumenti come lontani fra loro: ciò che si impone è la distanza spaziale fra questi; e forse è proprio questa la chiave di questo movimento. A parere di chi scrive, in questa capacità di far percepire lo spazio consiste la possibilità di far coesistere molti lacerti melodici differenti, addirittura diverse articolazioni ritmiche; ed è questo l’aspetto filosofico che premeva a Mahler: ricondurre in un unico spazio una molteplicità di elementi che per la logica linguistica sono inconciliabili perché contraddittori. E’ importante a questo proposito ricordare come Mahler in una lettera alla Mildenburg, tenga a sottolineare come Pan (il “protagonista” del primo movimento) significhi in greco “il Tutto”: l’idea da cui parte questo movimento è proprio la rappresentazione della natura come una ridda di esseri che si accavallano e si accumulano senza ordine né storia.

Il primo movimento, come già detto, descrive un processo, un divenire: la genesi della vita, del biòs dalla materia inorganica. Bisogna però fare due precisazioni. Innanzitutto non si tratta di una creazione eteronoma, che trova la sua scintilla creatrice nell’atto estero di un demiurgo plasmatore, ma di una generazione che nasce dalla spinta interna della natura stessa, attraverso una inquieta tensione interna alla forma. D’altra parte la natura che Mahler descrive non ha niente di bucolico: «quando le persone pensano alla natura immaginano i fiori e le passeggiate nei boschi. Nessuno pensa a Pan o Dioniso… Per me la natura comprende tutto ciò che è terribile, grande, e ad un tempo amabile». La natura del primo movimento è infatti scissa in due aspetti opposti entrambi violenti e inarrestabili: la marcia di Pan, cioè il lussureggiare e l’infinito riprodursi degli esseri, e una forza passiva, una resistenza macabra che ostacola la vita.

L’atmosfera generale del movimento non è facilmente descrivibile prosasticamente. Ci può aiutare una descrizione dei processi naturali data da Bataille in una delle sue opere più famose:

Che la morte sia anche la giovinezza del mondo, ecco un’affermazione che l’umanità concordemente respinge. Ci rifiutiamo di vedere che soltanto la morte rende possibile un rinnovamento incessante in assenza del quale la vita declinerebbe. Ci rifiutiamo in altre parole che la vita è la trappola preparata all’equilibrio, che essa risiede totalmente nell’instabilità, nello squilibrio in cui di continuo precipita. Si tratta di un moto tumultuoso che in ogni istante rievoca l’esplosione, e la vita prosegue ad una condizione: che quegli essere che essa ha generato, e la cui forza esplosiva sia esaurita, cedano il posto a nuovi esseri, i quali entrano nella ridda con forza rinnovata. […] Il senso d’angoscia è l’opposizione al cieco movimento della vita. [essa] è nella sua essenza un eccesso, è prodigalità. Essa consuma le proprie forze e risorse senza limiti e senza limiti annienta ciò che ha creato.

           (Georges Bataille)

Questo passo è cogente, a parere di chi scrive, perché ci si ritrova la dualità morte-sessualità (riproduzione), così come descritta nel primo movimento della Terza: non di tratta di una semplice lotta fra un positivo e un negativo, ma di due aspetti compresenti nella natura vista come totalità. Certo la luminosità dei temi della marcia di Pan hanno ben altro carattere rispetto ai lugubri timbri che narrano della natura come resistenza. Ma anche il trionfo della vita ha un sapore grottesco e sinistro, non è heimlich, ma piuttosto unheimlich, perturbante. In sostanza qui Mahler mette a tema una natura spinoziana, in cui l’uomo non ha un ruolo diverso da nessun altro essere naturale: non c’è nessun regno dell’uomo all’interno del regno della natura, ma solo un grande teatro crudele e lussurioso i cui attori non hanno altra funzione se non quella di far portare avanti ciecamente lo spettacolo. Ed è da questa natura, da questa incontrollabile forza generatrice e distruttrice che l’uomo è fuggito esorcizzandola con i suoi tabù e i suoi riti: morte e sessualità, i due principali oggetti delle religioni primitive, che ritorneranno nell’ultimo movimento, totalmente rielaborati. Dice sempre Principe:

Nella Terza, il tono di voce del compositore è l’inquietudine di fronte alla natura inquietante; Mahler la evoca mediante lo spettacolo della vitalità. Lo scenario è verdeggiante, anche se verde cupo. […] Mahler lasciò cadere i programmi, uno dopo l’altro; quel che resta è il ritmo di una marcia pesante e di un ciclope che se ne va con gli stivali delle sette leghe, e, insieme, il volto di una natura dall’immagine non gentile ma piuttosto animalesca, mostruoso minotauro emergente dal sottosuolo.

Musicalmente tutto ciò è trasposto da Mahler nella partitura con una maestria a lui solita. Innanzitutto la melodia: il grande tema annunciato da 8 corni con cui si apre la sinfonia non sarà il centro del movimento. Non è la melodia che esprime il concetto: questa non rappresenta una fisiognomica del rappresentato, ma è come una descrizione di ciò che invece dinamicamente accade nella musica. I protagonisti del movimento sono le trasformazioni e i rivolgimenti che subiscono le frasi e le cellule melodiche: come si è detto non è una creazione che prevede un soggetto esterno che plasma, ma è l’interno impulso alla forma che è contenuto nella materia a plasmarla. In questo senso la melodia è solo il mezzo attraverso cui si percepisce il movimento e la trasformazione, che è ciò che scorre al di sotto della musica, che la innerva e costituisce il protagonista del movimento.

E’ interessante notare a questo proposito come questo tema sia una ripresa del finale della Prima sinfonia di Brahms, ma con una prospettiva totalmente differente: la melodia di Brahms va dalla dominante alla tonica, pasa per la sensibile e poi ritorna nella stabilità della tonalità d’impianto, sottolineando il raggiungimento della meta; il tema della Terza, invece, dopo aver raggiunto la tonica dalla dominante, scende di una seconda maggiore, evitando la sensibile, inaugurando così un cammino. L’impressione del muoversi, del marciare, del divenire è già in nuce in questa melodia. Questa centralità del dinamismo e della vitalità intrinseca della natura è confermata anche dal fatto che il tema non è il centro dello Sviluppo né il cardine della Coda: non c’è un concetto (che sarebbe musicalmente espresso da una melodia precisa) che “vince”, che si afferma, non c’è una soggettività, terrena o ultraterrena che guarda dall’alto questo processo. C’è la totale assenza di un dio Demiurgo e la centralità dell’impulso interno della natura che si riverbera in questa mancanza di linee di sviluppo preorganizzate e nella centralità della tensione interna al movimento intrinseca nel materiale musicale.

Molto interessante poi vedere come siano musicalmente caratterizzati in maniera differente i due aspetti della natura, morte e sessualità: la marcia di Pan, ha questo carattere marziale e positivo, una gioia grottesca ben scandita e determinata. L’aspetto oscuro della natura, “la natura mortifera, che incatena e attrae a sé la vita” (come la definisce Paul Bekker) non ha melodia, non ha struttura, non ha organizzazione: ha alla base un ritmo scandito dai timpani e si compone di una quantità di lacerti melodici affidati ai diversi strumenti che si sovrappongono senza avere un’organizzazione formale. Questa forza negativa infatti manca di quella spinta interna alla forma, che è invece caratteristica della prima: è pura resistenza, negatività che incatena ed ostacola il fiorire della natura, pura immobilità e impossibilità di essere; in poche parole il nulla della morte, quell’oscurità indicibile che faceva dire ai greci che solo l’essere è. La forza della vita alla fine prevale e il movimento si conclude con una vittoria di questa forza. Però, come detto sopra, non c’è un “tema” che vince, non si è raggiunta nessuna vetta perché è solo il primo movimento della sinfonia e il risultato è solo la natura informe e disorganizzata, una cieca prodigalità. E’ interessante a questo proposito vedere da cosa nasca il finale del movimento. La penultima parte è quella che ha fatto valere più di tutte alla musica di Mahler l’etichetta di una musica “bassa” dove ci sono elementi popolari messi alla rinfusa. Qui infatti si sentiranno ritmi diversi suonati da percussioni differenti, melodie che si sovrappongono suonate con timbri diversi, alcune già sentite altre nuove, un calderone enorme di ritmi armonie e melodie, in cui si avverte fortemente l’assenza di un disegno, di una progettualità. E’ solo l’ammucchiarsi degli esseri naturali senza senso né storia, un rigoglio tanto pieno di vita quanto angosciante. Il finale del primo movimento non è quindi una realizzazione di una positività morale, ma solo l’espressione della natura potente e rigogliosa, in cui non c’è il concetto di morte, ma ci sono solo “travasi di vita”, decessi necessari alla generazione di altra vita.

In questo senso la musica di Mahler respira le stesse profondità dell’arte primitiva. Se pensiamo a ciò che scrive Emilio Villa a proposito dell’arte primordiale, vediamo che la categoria di Uno-tutto-omogeneo, è proprio l’oggetto specifico di questo movimento:

In senso assoluto si può riconoscere che l’uomo primitivo non conosca i nessi causali, le cause: ma certo conosce, e instaura, la causa senza effetti distinti o limitati, cioè il rinnovamento periodico successionale. La causa in sé è essa stessa l’omogeneo; fattore irreversibile, non dimensionato, intimamente coerente con l’effetto totale, per l’attuazione di un oggetto unico, esterno alle mutazioni, metamorfosi, anamorfosi; e necessario. Sulla cui necessità, il dubbio nemmeno sfiora la mente; il sacrificio è causa di vita, genera la vita; il sacrificio fa la vita; e la vita (la violenza) è causa della vita. […] L’Uno è il tutto, e ogni uno è uno, uno dopo uno, l’uno si ripete e si intensifica, non nell’addizione, ma nella pura e singola quantità del tutto, dell’omogeneo. Egli nemmeno nomina.

In questo movimento, come nell’arte primitiva, quella più a contatto con la Natura, non ci sono nessi causali, enti distinti, individui, ma solo la totalità, l’Uno-Tutto in cui la morte è solo il trapassare della vita da un corpo ad un altro. Mahler parla così della genesi della vita, partendo dalla natura come se fosse vista con dagli occhi di un uomo primitivo, per cui ogni generazione e ogni decesso è una ierofania.

https://www.youtube.com/watch?v=O7i0ASTTjkQ&feature=youtu.be

L’adagio finale: Dio, la natura, il sacro

 

Alla fine del primo movimento, così come per la Seconda sinfonia, Mahler voleva una pausa, anche un intervallo, per segnare una cesura decisa. Dal secondo movimento si inaugura infatti la narrazione dell’essere, degli enti che sono. Nelle indicazioni programmatiche si tratta di un lungo cammino che parte dalle piante e arriva fino a Dio o l’Amore, l’oggetto dell’ultimo movimento.

Alla luce della prospettiva emersa nel primo movimento è evidente che questo Dio o Amore non è un dio confessionale, ma è il più vasto ambito del sacro. La Terza, pur costituendo un cammino di ascensione, non è una sinfonia della trascendenza, ma dell’immanenza. Il primo movimento è chiarissimo in questo: non c’è un dio che crea, ma è l’impulso interno alla natura a generare la vita. E così in avanti non si tratta di un cammino verticale che conduce ad un allontanamento dalla natura, ma è un profondarsi negli strati più raffinati dell’essere, fino al ritorno alla totalità naturale del primo movimento, ma riletta con gli occhi dell’uomo. In questo senso l’Adagio finale tratta più precisamente del Sacro, più che di Dio. Inoltre va sempre ricordato sia che Mahler eliminò quelle indicazioni, sia il rapporto di complementarietà che esiste fra parola e musica, per cui non esiste testo che possa esaurire il contenuto della partitura mahleriana.

Nello specifico ci si può riferire di nuovo a Bataille per avvicinarci al concetto mahleriano di sacro: “Il sacro è la totalità dell’essere, rivelata a coloro che in un rito solenne contemplano la morte di un essere frammentario”. Questo concetto di sacro è strettamente legato all’idea di natura del primo movimento: si tratta della natura come totalità contrapposta all’individuo, un frammento del tutto, che insiste su se stesso e vorrebbe uscire fuori dal suo “ruolo” di semplice elemento del tutto. Il dissolversi di un soggetto nell’indeterminato della natura, il ritorno a quella dimensione di indistinzione e immanenza assoluta del primo movimento genera un atroce sgomento e quel senso di terrore che accompagna definisce il numinoso: la Potenza Assoluta, l’infinito sgorgare dell’essere, non curante delle sue propaggini autocoscienti.

La morte e la generazione, che erano stati oggetto del primo movimento, ritornano e si ripresentano nella religione come le esperienze ierofaniche per eccellenza. L’esperienza della morte è la realizzazione della scomparsa dell’individuo e il ritorno alla sua dimensione naturale all’interno dell’Uno-Tutto dei primitivi; allo stesso modo la sessualità è un’estasi in cui la soggettività si annulla nella fusione con l’altro e l’individuo trova la propria realizzazione nello spegnersi nell’altro. Da tutto ciò prende le mosse l’Adagio finale della Terza sinfonia.

Come nel primo, anche in questo movimento, non c’è un tema cardine, ma sono tutte melodie concatenate, dove il finire di una è l’inizio dell’altra: è segno che anche in questo caso è messo a tema l’Uno-Tutto, la natura come totalità per la quale non esistono oggetti ed esseri distinti, ma un unico flusso ontologico. E’ forse questo l’aspetto che rende questo movimento il più mistico di tutta la musica di Mahler. Questo costituirsi come flusso continuo di temi inseparabilmente incatenati fra loro, rende questo movimento davvero una descrizione di un’esperienza mistica del sacro. Riprendendo ancora Bataille, potremmo dire che “ciò che rivela l’esperienza mistica, è un’assenza di oggetti, in quanto questi sono limitati, entità individuali e scisse, laddove l’esperienza mistica, nella misura in cui noi abbiamo avuto la forza di operare una rottura della nostra discontinuità, ci comunica il sentimento di totalità.” La cifra specifica dell’esperienza mistica l’assenza di oggetti, nel senso di limiti fra le cose, e l’esperienza della continuità della natura. E’ proprio questo ciò che Mahler ci comunica con questo flusso senza confini di melodie che si susseguono e si sovrappongono.

Si compie così l’opera: la musica torna a quella natura dell’inizio, non più però con l’intento descrittivo dell’inizio, ma con l’intento umano di ricerca di un senso. Come scrive Paul Bekker, viene ricreata la sensazione di una forza ingenerata che sgorga con inesauribile forza, quella stessa Potenza Assoluta che è oggetto delle estasi mistiche. Tutto l’Adagio è un abbandono totale nelle braccia possenti di questa fonte primigenia dell’essere, che non è identificabile con il termine Dio, perché eccede ogni caratterizzazione: sia buona che cattiva, sia santa che demoniaca, sia mortifera che generatrice, tanto attraente quanto angosciante.

E’ una teologia atea, in cui il sacro è l’esperienza mistica della totalità della natura, un unico immenso flusso incontrollabile tanto mortifero che vitale. Il tema del “Weckruf”, quello che nel primo movimento simboleggiava lo svegliarsi alla vita degli esseri, è in questo Adagio un memento mori: la chiarezza del modo maggiore si sposa con un’atmosfera di morte in maniera indicibile a parole, rivelando una pulsione contemporaneamente di morte e di vita. E’ evidente in queste pagine sinfoniche come davvero la musica di Mahler nasce per esprimere ciò che le parole non potranno mai dire. In conclusione ci si rende conto che il vero oggetto del movimento non è stato detto e non potrà mai essere esaurito da alcuna parola. Per questo all’inizio di questo articolo si trovano dei versi di Pagnanelli e per questo motivo si affiderà la conclusione a dei versi di Michaelstaedtaer, il poeta suicida a 23 anni perché convinto di trovare nella morte finalmente una possibilità di realizzazione. Infatti, ascoltando questo commovente Adagio finale, l’impressione che si impone è quella di un felice addio; un commiato sereno di chi si allontana in una oscurità assoluta, rispondendo ad una chiamata del Nulla che suona come una promessa di felicità.

Ed oltre il vetro della chiara stanza
che le consuete immagini riflette
vedo l’oscurità pur minacciosa,
e sostare non posso nel deserto.
Lasciami andare, Paula, nella notte,
a crearmi la luce da me stesso,
lasciami andare oltre il deserto, al mare,
perch’io ti porti il dono luminoso.

[C.Michelstaedter]

 

Francesco Bianchi

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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