Guardare l'opera: Boris Godunov di Musorgskij

I demoni di Musorgskij

L’orrore del reale | è nulla contro l’idea dell’orrore. | I miei pensieri, solo virtuali omicidi, | scuotono la mia natura di uomo; | funzione e immaginazione si mescolano; | e nulla è, se non ciò che non è.

(Macbeth: atto I, scena III)

Chi conosca anche solo in parte “I demoni”, capolavoro dostoevskiano della letteratura russa, saprà che il titolo del romanzo non si riferisce solo ai seguaci, demoniaci per l’appunto, dell’organizzazione nichilista che si macchia di sangue fra le pagine del libro; ma sa che esso nasconde un significato più recondito e meno accessibile ad una lettura superficiale. “Chi sono i demoni?” si è chiesto Gianlorenzo Pacini, traduttore e saggista. Sono anzitutto ‘uomini d’idea’, come dice Bachtin, cioè uomini divorati da un’idea, uomini che si credono in possesso della ‘Verità’, ma ognuno dei quali si è costruito una sua Verità in una forma aberrante, distruttiva, catastrofica. In questi uomini – secondo Dostoevskij – si ritrova una caratteristica specifica ed esclusiva dello spirito russo: “il russo è divorato da un’inesausta sete di verità ed è in grado di dedicarsi appassionatamente, fanaticamente al perseguimento dell’ideale da lui concepito, fino ad arrivare a ogni eccesso e a ogni estremo, compreso il sacrificio totale di sé”. Ebbene, tale definizione sembra calcarsi a pennello su Modest Musorgskij e sul suo capolavoro, l’opera in quattro atti e un prologo Boris Godunov, saga vorticosa di potere e violenza.

Concepito tra le mura della casa di Ljudmila Šestakova (la sorella di Michail Ivanovič Glinka) nel settembre 1868, e strutturato sulla falsariga dell’omonimo romanzo di Puškin (in seguito anche alla revisione dei capitoli X e XI della monumentale opera “Storia dello Stato Russo” di Nikolaj Karamzin, dedicatario del romanzo), Musorgskij vi lavorò febbrilmente, al punto da completare il progetto in soli 14 mesi.

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M. Musorgskij

La storia è ambientata a cavallo tra il ‘500 e il ‘600, nel cosiddetto “periodo dei Torbidi”, l’interregno di guerre e disordini compreso tra la fine della dinastia dei Rurikidi e l’avvento di quella dei Romanov. Boris è un potente boiardo che dopo essere aver esercitato de facto il potere durante il regno di Fëdor I, figlio di Ivan il Terribile mentalmente disturbato e considerato pertanto inabile a governare, e dopo essersi macchiato del sangue dello zarevič Dmitrij Ivanovič, di soli 7 anni, ascende al trono Russo. Nonostante il tentativo di mantenere una condotta più umana rispetto a quella del suo predecessore, la Russia sprofonda nel terrore e nella miseria. Nel frattempo il giovane Grigorij, avventuriero già studente in seminario, fugge in modo rocambolesco dal monastero di Čudov, e si spaccia per Dimitrij. Dopo aver sposato la nobildonna polacca Marina Mniszech, concerta l’invasione della Russia con questa e il gesuita Rangoni, sordido burattinaio che manovra entrambi. Boris, tormentato da allucinazioni in cui rivede il fantasma del piccolo zarevič e ormai in preda alla follia, muore designando il proprio figlio come successore, mentre le truppe polacche avanzano inesorabilmente verso la capitale. Nella maggior parte delle versioni le parole finali dell’opera sono affidate ad uno Jurodivij, una figura dell’ascetismo ortodosso noto come “stoltezza in Cristo”. Mentre il sipario cala, il pazzo lamenta le future sventure che attendono la sorte del suo popolo. Già ad un semplice sguardo ci si può facilmente rendere conto di quanto la trama di Puškin debba al teatro shakespeariano: l’usurpatore del trono degli zar, divorato dal rimorso, assomiglia al re di Scozia Macbeth, che imprigionato in dubbi non dissimili viene tormentato dallo spirito di Banquo.

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Ma come nasce quest’opera magistrale del teatro lirico russo? Il quasi trentenne Musorgkij era entrato in contatto da circa un decennio con quel gruppo di musicisti (Kjui, Borodin, Balakirev e il suo grande amico e sodale Rimskij – Korsakov, il cosiddetto “gruppo dei cinque”) che, insieme ad altri artisti ed intellettuali avevano indirizzato i propri sforzi verso la nascita di una cultura autenticamente nazionale, seguendo la lezione di Glinka e dello stesso Puškin, e contrapponendosi così alla scuola capeggiata da un altro grande pietroburghese, Čajkovskij. In realtà il Boris di Musorgskij esiste in due versioni, la prima delle quali fu rigettata dalla commissione dei Teatri Imperiali (con 6 voti contrari su 7), che verosimilmente non comprese appieno le geniali intuizioni dell’opera, o non ne avallò la struttura del tutto anticonvenzionale.  Se pensiamo a cosa avveniva sulla scene teatrali negli stessi anni (L’Aida rappresentata la vigilia di Natale al Cairo nel 1871, Die Walküre tenuto a battesimo l’anno precedente a Monaco di Baviera) la decisione dei censori appare in parte più chiara. La mancanza di un ruolo femminile da protagonista (Marina venne inserita solamente nella seconda versione del 1872) e soprattutto l’audacia della musica, furono verosimilmente tra le ragioni principali che determinarono il rifiuto del lavoro, e dal canto loro delineano già la ritrosia dell’autore nei confronti della tradizione. La seconda versione, che stavolta superò il vaglio della commissione, fu il frutto di un’ampia ristrutturazione di quella precedente. Alcune scene vennero riscritte, altre ancora aggiunte; compare ora il gesuita Rangoni, oltre che la principessa Mniszech quale personaggio femminile di sufficiente caratura narrativa, come richiesto dalla commissione. La temerarietà della sostanza armonico – timbrica e l’orchestrazione originale, volutamente spigolosa e prosaica, sono alla base della nascita di numerosi versioni dell’opera, prima fra tutte quella di Rismskij – Korsakov, che per smorzarne le angolature si convinse a profondersi in non uno, bensì due rimaneggiamenti della materia musicale musorgskijana al fine di garantire all’orchestra un suono più raffinato e squillante, pur restando sostanzialmente fedele al libretto (perfino Šostakovič si sarebbe cimentato sul lavoro del compositore tanto ammirato, producendo anch’egli due versioni). Un’opera travagliata, si può dire. Di certo non usuale. Basta questo ad etichettarla? Niet, diremmo. Vediamo il perché.

Fin da subito appare infatti evidente che il Boris è avanguardia pura: già strutturalmente risalta la mancanza di uno svolgimento lineare, in accordo a un principio temporale o logico che sia. Si tratta infatti di una successione di episodi autosufficienti e indipendenti fra loro. Esemplare, in tal senso, il fatto che Boris e il falso Dimitrij non si incontrano mai o il fatto che le ultime due scene possono essere invertite (e lo sono state spesso) Nel teatro radicale di Musorgskij, la rappresentazione cronachistica dei fatti storici assume particolare rilievo, così come era stato per Puškin. Non solo: l’opera stessa, nel compiersi, diviene essa stessa oggetto di cronaca, come si dimostra nella scena in cui Pimen, anziano monaco, viene descritto come uno storiografo nell’atto di scrivere. “Terminerò la mia cronaca/con il delitto orrendo di Boris”, dice. Un sinistro gioco di specchi, o se preferite, un’oscura matrioska.

Il vero protagonista del Boris, però, è il popolo, affrescato da cori monumentali che puntellano lo svolgimento impetuoso dei fatti. Accovacciato dell’incipiente nevicata pietroburghese, e in posizione di perenne subalternità nei confronti di questo o quel potente, è proprio su tali “masse umane” che Musorgskij volge il suo sguardo: su quel popolo affamato che si prostra ora a Boris, ora al falso Dimitrij. Sulla copertina dello spartito per pianoforte dato alle stampe nel 1874 si può infatti leggere il titolo “dramma popolare”, ricordando che in russo il termine “narodnyi” significa sia “popolare” che “nazionale”. Quest’ultima sfumatura appare però lessicalmente inappropriata se si considerano le tinte fosche e la visione profondamente pessimistica che l’autore ha dato al proprio capolavoro. In quale ottica possiamo allora considerare “popolare” il dramma musorgskijano? L’autore ridusse a libretto le 24 scene che componevano la messa in scena del romanzo di Puškin, e se la prima stesura fu più conforme al dramma originale, la seconda tenne a freno l’estrosa logica dello scrittore per adeguarsi a caratteri maggiormente confacenti all’opera lirica (questo metodo di lavoro si ritroverà anche nel Wozzeck, capolavoro novecentesco di Alban Berg, a testimonianza della notevole influenza che Musorgskij avrebbe esercitato molto dopo la sua morte). In sintesi però l’idea politica di Puškin resta: l’ultima didascalia il popolo tace sempre è esemplificata ora dalla fine del dramma, che rimanda in modo circolare al suo inizio. Se in principio infatti il popolo in attesa davanti al convento tace perché pigro ed indolente, e viene spinto a cantare solo dagli incitamenti brutali delle guardie, alla fine tace perché è spaventato ed ha fame, anticipando così la visione amaramente premonitrice dello Jurodivij, che seduto sulla pietra, tra bagliori di incendio e il sinistro martellare delle campane in lontananza, canta dondolandosi: – Presto arriverà il nemico e scenderà l’oscurità,/tenebre profonde e impenetrabili./Dolore, dolore sulla Russia./Piangi, popolo russo,/popolo affamato!” – mentre il fagotto, che aveva aperto l’opera (e se ne ricorderà Stravinskij nell’inizio della Sacre!) intona ancora una volta la lugubre seconda minore discendente, che stavolta la chiude. Musorgskij rinuncia quindi all’ideale classico – romantico del bello ideale, e dispiega le vele per partire verso una “terra incognita” che solo in tempi recenti doveva essere esplorata in modo più approfondito nelle opere teatrali di Janáček e di Šostakovič, oltre che dello stesso Stravinskij. Come considerare allora quest’opera? Il Boris, come appare ormai chiaro, è un agghiacciante racconto di potere, e di sangue. Dopo che i bambini lo hanno tormentato colpendo ripetutamente il suo cappello di metallo e gli hanno sottratto la monetina che portava con sé, lo Jurodivij esclama: “Zar squartali”. E poi aggiunge “Come hai fatto con lo zarevič”. Trema agli umani il core, direbbe Carducci.

Se lo status frammentario del plot era apparso coraggiosamente anticonvenzionale, possiamo solamente immaginare che effetti abbia suscitato il pionierismo musicale dell’orchestra e dell’utilizzo delle voci. In tal senso, bisogna considerare il retroscena storico nel quale l’opera si inserisce. Molti musicisti russi dell’epoca si dedicavano alla composizione come secondo lavoro; tra questi, lo stesso Musorgskij, che lavorava nell’amministrazione forestale. Il patrimonio folkloristico russo, in termini sia culturali che di materiale musicale, era immenso, estendendosi dal mar Baltico a quello del Giappone; i caratteri etnofonici di questa grande miniera avevano poi caratteristiche particolari: lo stile musicale ecclesiastico, a differenza di quanto accaduto in Europa Occidentale, non si era cristallizzato nella rigida suddivisione delle modalità in maggiore/minore. Viceversa, si manteneva un qualche legame con la polifonia della chiesa bizantina, che aveva superato il vecchio stile gregoriano. Riduzioni dell’ottava a 5 o 6 note, dissonanze, uso di accordi di nona maggiore e una frase che, secondo lo stile del cantus firmus, poteva andare avanti per moltissime battute. Le scale modali utilizzate da Musorgskij, poi, estendono il concetto di scala tipico dell’armonia diatonica tradizionale, producendo un suono che all’orecchio moderno e occidentale induce l’idea di sospeso, arcaico ed indefinito. Tra i tanti esempi si potrebbe fare quello riguardante l’impiego di un elemento strutturale piuttosto atipico: la settima diminuita. Questo accordo, noto per essere funzionale alle modulazioni e alla risoluzione sulla dominante, era stato invece già utilizzato, con una geniale intuizione, come colonna portante dell’accompagnamento armonico in alcuni brani di Quadri di un’esposizione, dove aveva generato atmosfere metamorfiche ed esotiche, sempre instabili. Lo si ritrova adesso nella famosa scena dell’incoronazione, presaga di sventure (la melodia della quale fu usata anche da Beethoven nel terzo tempo del quartetto op. 59 n. 2, avendola egli tratta dalla “Raccolta di canti popolari russi”). Un altro esempio che rende conto dell’estetica iconoclasta di Musorgskij, insofferente di ogni norma, è l’esacordo ottatonico che imprime sonorità sinistre al tripudio collettivo. Una musica atipica, in sintesi, e profondamente intrisa di quel sapore russo che avrebbe fatto definire Musorgskij “uno strano selvaggio” a Debussy (che pure seppe servirsi della sua lezione).

Il Boris è pertanto un’opera musicalmente composita, in cui si alternano recitativi, ampi monologhi, ballate (celebre la polonaise del atto terzo), canzoni del repertorio folkloristico russo (la scena della locanda lituana dell’ atto I; la zanzara tagliava la legna e la canzone di questo e quello  cantate dalla nutrice a Ksenija, figlia di Boris, nell’atto II; o ancora la delicata e sentimentale sulla Vistola azzurra intonata dalle damigelle al castello polacco nella prima scena dell’atto III), cori monumentali ed arie tradizionali (come il duetto pseudoamoroso tra Grigorij e Marina al chiaro di luna nella scena della fontana). L’orchestrazione, che tipicamente progredisce “per blocchi” di famiglie strumentali, è grezza, cupa ed approssimativa e il suono sembra essere mutuato direttamente dalle inflessioni del parlato della lingua russa, il che contribuisce a generare quel nervoso realismo psicologico, alla cui formazione concorre anche l’uso di svariati Leitmotive, che caratterizza l’analisi interiore dei personaggi (un esempio sugli altri: l’uso del tremolo degli archi con sfumature in pianissimo, specie per il tema che accompagna il fantasma dello zarevič scomparso, che col suo respiro corrusco spinge il protagonista, ossessivamente, verso la morte).

Esemplare parabola sulla colpa e sulle responsabilità dell’essere umano, quest’opera può essere vista anche sotto un’altra luce: quella di un dramma politico di attualità spaventosa, con un popolo che assume le sembianze di una massa amorfa e manipolabile, che si presta fin troppo facilmente a paragoni con realtà ben più recenti. Ha quasi 150, Boris Godunov, eppure non sembra dimostrarli. Rara dote dei veri capolavori dell’arte, esso continua a sussurrare all’orecchio di chi è disposto ad ascoltare. Un’opera capace di guardare ben al di là della Russia zarista e feudale e delle sue contingenze politiche. Capace cioè di spingersi al di là del proscenio e di posare il proprio sguardo oltrecortina, sulle miserie e le sventure del secolo breve.   Musorgskij vi si dedicò anima e corpo. “Ricordo che quando componevo il Boris vivevo in Boris” scrisse al critico musicale Vladimir Stasov in una lettera del 1872. Un demone che sembra materializzarsi proprio dalle pagine del romanzo di Dostoevskij. E una selvaticheria “strana”, certo, la sua. Ma anche profondamente visionaria.

Roberto Imparato

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