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Un giorno di Baden

di Alessandro Tommasi - 26 Aprile 2019

punta di diamante della sua programmazione

Nella ridente località termale di Baden-Baden, immerso in una Foresta Nera in piena esplosione primaverile, si è svolto il Festival di Pasqua, parte dell’ampia offerta culturale del Festspielhaus di Baden-Baden e punta di diamante della sua programmazione. Il presente articolo descrive una giornata dal Festival, precisamente il 21 aprile, con due diversi momenti: alle 14 Clara, opera in due atti dedicata a Clara Schumann dalla compositrice americana Victoria Bond, alle 18 i Berliner Philharmoniker, orchestra in residence del Festival, guidati dal loro futuro direttore musicale Kirill Petrenko e con Lang Lang al pianoforte.

Non è difficile comprendere il ruolo di Clara in questo Festival: nei duecento anni dalla nascita di una delle più illustri frequentatrici di Baden-Baden, non poteva certo mancare un degno omaggio. L’opera nasce infatti da una collaborazione tra Deutsche Bank, Festspielhaus, Berliner e il Teatro di Baden-Baden, e racconta la vita della pianista e compositrice tedesca, dall’infanzia alla morte del marito. In questo sta il primo e principale problema dell’opera: l’intento fondamentalmente storico-descrittivo. Il primo atto nasce infatti nel 2010 come opera per bambini, il secondo nel 2014, e seguono versioni e orchestrazioni, fino alla prima esecuzione definitiva  il 14 aprile 2019 al Teatro di Baden-Baden. Ma nonostante tutti i rimaneggiamenti, l’opera non riesce e probabilmente non desidera allontanarsi da un’idea di spettacolo didascalico e divulgativo che nel presentare la vita di Clara perde purtroppo ogni interesse teatrale e drammaturgico. In questo non è aiutata né dal poco felice libretto di Barbara Zinn Krieger, la cui traduzione in tedesco è apparsa inoltre assai precaria, né dalla sostanza musicale, assai raffazzonata. Con uno stile che non è certo raro oggidì, Victoria Bond ha composto l’opera su frammenti di brani di Robert, Clara e ovviamente del terzo elemento di quello che è uno dei triangoli più celebri della storia della musica: Johannes Brahms. Ciò che non ha convinto non è stato tanto il riutilizzo di materiale già composto, pratica come dicevo ormai ben diffusa, quanto la mancanza di concreta elaborazione di questi materiali, che funzionavano tanto meglio quanto più aderenti erano all’originale, faticando ad integrarsi nell’opera e a servire degnamente l’azione scenica. Particolari poi le scelte: se la presenza di Papillon e Carnaval ben erano inserite nella drammaturgia, rimane assai enigmatica l’idea di far terminare l’intera opera sulle note della Seconda Sonata per pianoforte di Brahms, dopo che Clara avrà dichiarato il suo intento di continuare a far vivere il suo Robert suonandone la musica. Perché chiudere con Brahms un’affermazione totale della musica di Schumann? Un peccato inoltre che la vita di Clara si sia fondamentalmente risolta nuovamente nell’esecuzione delle musiche del marito, un’occasione persa per mostrare il valore di totale emancipazione della sua figura. L’azione scenica si è comunque sufficientemente salvata, soprattutto grazie alle buone scelte di regia e drammaturgia di Carmen Kruse e Rebekka Meyer e alla bella scena realizzata da Eleni Konstantatou, costruita su tre livelli, di cui il primo interamente di specchi, il secondo caratterizzato da una un po’ stereotipata isola felice e infine un ultimo livello in profondità in cui far muovere le allegorie, tre figure mute che a più riprese mostravano l’evoluzione del rapporto tra Clara e il padre. Scelte efficaci, per quanto spesso decisamente retoriche e non sempre ben coordinate con il cast.

Cast di giovanissimi, tutti studenti o giovani professionisti, cui si deve in realtà la buona riuscita generale dello spettacolo. Notevole soprattutto Theresa Immerz che, impegnata nel difficile e stancante ruolo di Clara, domina la scena per le oltre due ore di spettacolo. La Immerz affronta la non comoda scrittura vocale con sicurezza ed espressività, traendo quanto si poteva trarre dalla sostanza dell’opera. Bene anche Johannes Fritsche, Robert Schumann, la cui parte aveva ampie porzioni di declamato ben interpretate dal giovane baritono tedesco, che ha donato al compositore un carattere ricco di slanci appassionati e improvvise crisi. Molto bene il basso-baritono Pascal Zurek, Friedrich Wieck, assai convincente vocalmente anche se eccessivo nell’interpretazione teatrale, che ha trasformato in ansiosa e schizofrenica tensione il complesso e contorto rapporto tra Friedrich e la figlia. Meno riusciti gli interventi di Patrik Hornak, intento ad interpretare il giovane Brahms con graziosa e leggera voce tenorile, ma piuttosto impreciso nell’intonazione. Meno presenti ma piuttosto ben curati i ruoli di Mendelssohn, realizzato dal baritono Arthur Canguçu con buon piglio, Marianne Bargiel, la madre di Clara, interpretata dal mezzosoprano Yingyan Guo, dal timbro morbido e ottimo soprattutto nel registro centrale e acuto, e Clementine Wieck, seconda moglie di Friedrich, interpretata dal mezzosoprano italiano Elisabetta Picello, la cui voce più severa era invece più efficace nel ponderoso registro grave. Molto buono l’insieme, sia tra cantanti che con l’ensemble della Karajan-Akademie dei Berliner Philharmoniker, diretto da Michael Hasel con chiarezza e decisione.

Perché Lang Lang piace?

Di ben altro tenore il concerto tardo pomeridiano, nonostante l’inizio non felicissimo. Molto si è scritto su Lang Lang, che in quest’occasione si è cimentato con il Secondo Concerto di Beethoven, e molto si scriverà ancora. Nonostante la ben nota scarsa simpatia della critica per l’ormai non più giovanissimo pianista cinese, egli rimane comunque un paladino del pubblico. Dell’interpretazione del Concerto beethoveniano non c’è molto da dire: Lang piega l’autore alle sue esigenze senza troppi pensieri e copre tutto con una spessa patina di manierismo e affettazione. Il suo Beethoven mostrava senza dubbio l’eccellente tavolozza dinamica del pianista, così come la limpidezza del gioco pianistico, ma ne mostrava altresì l’incostanza, con tutta la perfidia tipica del giovane Beethoven che nulla perdona. Lang non è tecnicamente impeccabile, non ha confezionato con certosina cura le eleganti volate tardo settecentesche, né ha dimostrato omogeneità nell’impasto timbrico o dinamico. Ma se la componente più tecnica del pianoforte difetta, cos’ha dunque Lang Lang? Sicuramente ha un’ottima abilità nel toccare gli estremi, dal pianissimo più sussurrato all’accento più aspro, ma questo non è tutto: il pianista cinese è, prima di tutto, estremamente chiaro, leggibile. La sua opera di esaltazione degli estremi rende palese per qualsiasi ascoltatore l’idea dietro ad un passaggio, ora dolcemente delicato, ora vivace e brioso, ora arrabbiato, ora intenso. Per un pubblico di musicisti o esperti, tale eccesso risulta spesso stucchevole, a tratti forsennato, in genere esagerato, ma questa esasperata chiarezza espressiva arriva con gran forza al pubblico. Il pianista non è però altrettanto chiaro quando la scrittura si fa davvero complessa, come ha dimostrato la cadenza dal primo movimento, la cui scrittura non perdona approssimazioni.

Ma questa chiarezza didascalica del suonare non basta, Lang si premura di recitare il brano anche con uno studiatissimo uso delle espressioni facciali. Il pianista suona spesso rivolto per tre quarti verso il pubblico, così da mostrare il più possibile il volto, e si premura di far capire le emozioni che il brano dovrebbe suscitare, dalla gioia alla concentrazione, dal divertimento alla lacrima. Uno spettacolo che assume però un carattere a dir poco grottesco se consideriamo la facilità con cui il pianista abbandona la maschera per tornare alla più totale impassibilità non appena stacca le mani dalla tastiera. Ma l’arsenale di Lang Lang non finisce qui: la sua gestione del pubblico rasenta la perfezione. Nonostante la salute probabilmente non ottima, come si è notato da alcuni mal celati colpi di tosse e un colorito piuttosto pallido, il pianista è giunto trotterellante sul palco, sorridente, felice, brandendo l’effervescente ciuffo incurante dei suoi 36 anni, eterno fanciullo prodigio del sistema cinese. E al termine della sua esibizione nessuno è stato dimenticato, gli ampi inchini del pianista hanno riguardato tutti, dalla prima fila all’ultimo posto di quella che è la più grande sala da concerti dell’intera Germania, abbracciando con lo sguardo anche le file laterali, sempre sereno e sorridente. E con il bis, il rapido e brillante Lied ohne Wohrte op. 67 n. 4 di Mendelssohn (peraltro contenuto nel suo ultimo CD), ha confermato il tono di tutto il concerto: leggero, superficiale, ma che strappa un sorriso al pubblico soddisfatto.

Il trionfo di Petrenko

Aggettivi, questi, che non si possono decisamente attribuire alla Quinta Sinfonia di Čajkovskij diretta da Petrenko. Se già nel Concerto di Beethoven si era potuta notare l’orchestra per l’ottima abilità nell’accompagnare il solista e la fresca vitalità degli interventi, con Čajkovskij è iniziato quello che è stato forse il momento più intenso dei miei tre giorni di Festival. È sempre difficile descrivere un concerto di Kirill Petrenko. Il suo gesto è ricco e preciso, sempre teso ad un’esaltazione del controllo (mai sterile!) che si può trovare nella incredibile cura di ogni voce, ma rispetto alla Nona di Beethoven a Santa Cecilia, con cui abbiamo avuto modo di sentirlo in Italia a inizio aprile, qui non c’era alcun sentimento di trattenuta battaglia. E dire che un Čajkovskij teso, sempre pronto ad esplodere ma senza mai detonare fino ai catartici climax, sarebbe sembrato perfetto per Petrenko: ma del grande compositore russo, Petrenko non ha potuto sacrificare lo splendido svolgersi di un flusso melodico fluido e movimentato, costantemente in bilico tra l’elegante danza e il tormentato arrovellarsi. Si può ben capire come con questi presupposti la sua Quinta sia stata un momento di mistica intensità: dalla tesissima concentrazione di quel tema Andante che guida la Sinfonia intera, una tensione che non escludeva la morbidezza della cantabilità, fino all’emergere misterioso dell’Allegro con anima. Qui il con anima è stato mirabilmente interpretato in un rapido cambiar d’umore sempre intenso ed espressivo, ma senza sacrificare i toni più schiettamente russi e gli echi popolari.

Il secondo movimento è stato un vero prodigio di sincera cantabilità: magistrale il solo di corno di Stefan Dohr, con una cura del fraseggio che aveva dell’incredibile. L’abilità del cornista tedesco di realizzare attacchi morbidissimi nel più impalpabile pianissimo non ha mai ricercato il virtuosismo dinamico fine a se stesso, ma ha dipinto la struggente melanconia di quel tema in un coerentissimo fraseggio. Non serve dire che le successive risposte tra fiati e archi, sotto i generosi gesti di Petrenko, avevano un’ampiezza di fraseggio che non perdeva mai il filo della melodia, pur cesellando con cura le amate voci secondarie. Non sono stati smorzati i toni nel ritorno del primo tema, vera e propria epifania che si spegne nel tenue pizzicato degli archi. Splendido anche il valzer, elegante e nostalgico, affettuoso ma mai eccessivo, sobrio anche nei ben condotti rubati e negli improvvisi cambi di carattere, avvolgendo di grazia anche le apparizioni del famigerato tema. Tema che, maestoso e solenne, ha aperto il Finale senza alcun eccesso di retorica. La bacchetta di Petrenko ha costruito con calma i suoi climax. Nulla poteva preannunciare l’improvviso stacco sul rullo di timpani, quando la pastosità degli archi e la compattezza dei fiati hanno di colpo lasciato spazio ad un attacco duro e tagliente, una vera tempesta mozzafiato che ha coinvolto tutta l’orchestra, spinta avanti dall’impulso marcato e costante dei timpani in una frenesia popolareggiante. Nel quarto movimento si è svolta la vera battaglia di tutta la Sinfonia, marcando al massimo i contrasti ed evocando un clima affannoso e sovraeccitato. E quando i timpani, veri protagonisti, concluderanno lo sviluppo, Petrenko si concederà una lunga corona, quasi a voler separare le scene: solo allora potrà iniziare il vero trionfo, di una gioia fervida e maestosa.

Il pubblico, letteralmente esploso in ovazioni dopo il concerto, ha concesso una standing ovation di quasi tutti i 2500 posti al direttore siberiano, di cui si attende con gioia l’inizio del lavoro con i Berliner Philharmoniker.

Alessandro Tommasi

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Alessandro Tommasi

Autore

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro.

Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia.

Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella.

Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

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