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Il “Trittico” secondo Damiano Michieletto

di Aurora Tarantola - 20 Aprile 2016

In questi giorni al Teatro Costanzi di Roma sta andando in scena il “Trittico” di Giacomo Puccini e noi di Quinte Parallele lo abbiamo visto per raccontarvelo

(ne avevamo parlato qui). E’ stato oggetto di contrasti e discussioni il giovane regista quarantunenne Damiano Michieletto, che ha conquistato il Nord Europa portando l’idea di questa regia da Vienna a Copenaghen, dove vinse il premio  Reumert della critica danese. Osannato da alcuni e criticatissimo da altri, è stata una delle numerose sorprese di questa produzione.

Non essendo molto amante di regie provocatorie, decostruttive e forzatamente originali mi sono accostata a questa serata con molto scetticismo. Invece, contro ogni previsione, sono rimasta soddisfatta e piacevolmente sorpresa. Michieletto ci ha regalato una regia innovativa, insolita ma profondamente intelligente; coerente con il clima originario dell’opera, ma allo stesso tempo attuale e vicina a noi.

Il primo dei tre atti, “Il tabarro”, narra una storia di tradimento e vendetta e si apre con la scena di un porto mercantile spoglio, arruginito, intriso di fatica. Gli elementi principali dell’ambiente sono tre container: sopra uno di essi vediamo Giorgetta intenta a ristorarsi dopo una giornata di lavoro mentre osserva dall’alto Michele, che cammina sul palco. Questa iniziale diversità di piani su cui sono posti i personaggi anticipa ed evidenzia la lontananza, la frattura che c’è nella coppia, protagonista della vicenda.  L’atto si sviluppa e si conclude mantenendo ed esaltando il verismo, la vena cruda e violenta caratteristica dell’episodio. Vengono fatte aprire birre in scena, e buttare secchiate d’acqua a terra come se si fosse proprio in un ambiente portuale e mercantile. Inoltre Michieletto utilizza luci piazzate in mezzo agli spazi tra i container in modo che l’entrata dei personaggi venga sempre anticipata dalla loro ombra, contribuendo a creare un’atmosfera grottesca e cupa.  Luigi, amante di lei viene accoltellato alla fine dell’atto da Michele e la sua morte è seguita dalla disperazione di Giorgetta.

Questa rimane sola in scena singhiozzando, mentre la scenografia le cambia dietro : le pareti dei container si sollevano e si passa, senza la chiusura del sipario, all’episodio di Suor Angelica. Il convento è rappresentato come una prigione/sanatorio dove le suore sono trattate con aggressività dalle loro superiori, che manifestano sia negli atteggiamenti che nel diverso abbigliamento la volontà di opprimerle e dominarle. Questa è la visione che Suor Angelica ha dell’ambiente in cui vive: un luogo di penitenza, espiazione, violenza fisica e mentale. E’ stata costretta infatti a trascorrere sette anni in quel luogo, lontana da suo figlio (avuto fuori dal matrimonio), considerata come una delinquente e meritevole di una punizione del genere dalla società e dalla sua famiglia. Michieletto, in un’intervista al corriere della sera, spiega: Per Suor Angelica mi è stato d’aiuto il film “Magdalene” di Peter Mullan che nel 2002 andò alla Mostra di Venezia. Parla di qualcosa rimasta in piedi per tutti gli Anni 80 nella cattolicissima Irlanda: ragazze che avevano subìto abusi sessuali o erano rimaste incinte, rinnegate dalle loro famiglie, per espiare le colpe erano costrette a vivere in un monastero e lì usate come lavandaie. Un regime crudele, in luoghi di penitenza e reclusione”. Dopo il colloquio con la gelida e impietosa zia e la commovente scena del suicidio di Angelica a causa della morte del figlio, il sipario si chiude.

L’ultimo dei tre atti, Gianni Schicchi, ci si presenta nella casa della nobile famiglia Donati, dove tutti sono riuniti per cercare di modificare il testamento dello zio ricco in fin di vita e cercare di assicurarsi una parte di eredità. La scena è a meta tra un quadro di Escher e una casa di bambole, con delle stanze aperte disposte su tre livelli verticali, dove i personaggi si spostano anche attraverso l’uso di scale, questi erano quindi disposti a vari livelli di altezza creando anche interessanti effetti sonori nei frequenti concertati di questo atto.  L’ambiente è arredato in modo da esaltare e rendere evidente la ricchezza dei loro abitanti, così come i vestiti che indossano; questa però è una ricchezza pacchiana, esagerata, ostentata, che non ha in sé niente di nobile o elegante. Questo, a mio parere, riflette l’animo dei personaggi: sono poco interessati alla perdita del parente, il loro dolore è finto e recitato, non c’è nobiltà d’animo ma ricerca di nobiltà (e quindi di ricchezza) materiale. Dall’altro lato c’è Gianni Schicchi, da loro disprezzato perché non nobile di sangue ma proveniente dalla campagna e arricchitosi grazie alla sua intelligenza, che sembra l’unico capace di aiutarli. Egli usa l’ astuzia per risolvere il problema dei Donati e per intestarsi la parte più grande dell’ eredità. Un uomo scaltro, che si costruisce la propria ricchezza, che usa il suo cervello per i propri interessi e per quelli della figlia. Questo terzo atto si chiude con il ritorno all’atmosfera del primo: infatti Gianni Schicchi, lo stesso attore che interpreta Michele, si rimette addosso il suo tabarro e le pareti della casa dei Donati d’improvviso iniziano a chiudersi su loro stesse, fino a ricomporre i container arruginiti del porto nella scena d’apertura.

Come ha detto lo stesso regista, la novità, la ricerca più grande che è stata fatta in questa regia è quella di individuare e creare elementi di continuità concettuali e visivi all’interno di tutti e tre gli atti, apparentemente molto diversi ( storia di gelosia e violenza, momento lirico tutto al femminile, episodio comico/grottesco). Oltre all’evidente argomento comune, cioè la morte, trattata e messa in scena in modi diversi dallo stesso Puccini e dai suoi librettisti (Forzano e Adami), Michieletto cerca di rendere visivamente la connessione tra i tre atti con l’uso dei container  combinati, smontati e usati in diversi modi: infatti, il cambiamento non totale ed evidente di ambiente tra il primo e il secondo atto (alcuni elementi come i barili dei porto, cartoni e immondizia rimangono in scena per tutto l’episodio di Suor Angelica), l’uso da parte dei personaggi nel primo e nel terzo atto di due piani (cioè il palco e il tetto dei container) e il finale ritorno alla scena iniziale del porto ci danno la sensazione di poter effettivamente vedere un “filo rosso” che attraversa tutta l’opera.

E’ possibile inoltre individuare un altro tema vivo e presente su cui il regista ha voluto porre un particolare accento e attenzione: quello della genitorialità. Nel Tabarro, il piccolo figlio morto prematuramente è il motivo del dolore inconsolabile e dell’allontanamento di Giorgetta e Michele. Ciò è sottolineato, poco prima del dialogo tra i due su questo argomento,  da Michele che attraversa tutto il palco in silenzio spingendo una carrozzina vuota. In questo modo intuiamo già ancora prima del loro confronto quale è la ragione della crisi e di ciò che porterà al tradimento di Giorgetta e all’uccisione di Luigi.

Suor Angelica è inevitabilmente l’episodio in cui l’argomento è maggiormente affrontato. Quello che qui ha fatto Michieletto a mio parere è molto affascinante: ha reso la presenza del figlio nel modo apparentemente più ovvio: lo ha portato sulla scena. Quando la zia principessa arriva al parlatorio non è sola, ma tiene per mano un bambino di circa 6/7 anni, che è però subito portato via dalla badessa. Questo episodio può addirittura proporre una versione alternativa della storia: cioè che la morte del figlio sia solo una bugia per provocare dolore ad Angelica, per punirla. La figura del bambino ritorna poi quando la povera suora apprende della sua morte: una schiera di fanciulli vestiti e pettinati nello stesso modo la circonda, come se fossero la personificazione dell’anima del figlio che la abbraccia e la accoglie, pronta finalmente a ricongiungersi con lei.

In Gianni Schicchi invece, l’amore del protagonista per la figlia Lauretta spinge il protagonista ad aiutare i Donati e quindi è determinante per l’innesco dell’azione e la sua risoluzione. La sua preghiera, squarcio lirico nell’episodio comico, rappresenta la voglia di lei di poter avere un futuro con Rinuccio, di poter avere una famiglia e dall’altra parte la consapevolezza dell’ascendente che ha sul padre, dovuto al sincero affetto di lui per la sua unica bambina.

Ora invece vorrei spendere due parole sugli interpreti di questa serata: sicuramente la scoperta più grande è stata il soprano lituano Asmik Grigorian, che ha vestito i panni di Giorgetta e di Suor Angelica. Molto apprezzata in Lituania, nel nord d’Europa e in Russia, il suo repertorio spazia dai principali ruoli pucciniani (Manon Lescaut, Mimì, Liù, Madama Butterfly, Musetta)  a quelli verdiani come Desdemona ne l’Otello  e Violetta in “Traviata” ( con questo ruolo in particolare vinse qualche anno fa il Golden Stage Cross , il più importante premio lituano per cantanti lirici) , a Armida e Alcina di Handel e alle principali protagoniste delle opere mozartiane (Donna Anna, Donna Elvira, Susanna, Contessa, Pamina),  fino a ruoli nelle opere di Dvoràk e di Tchaikovsky .  La sua voce potente ma molto versatile, dotata di ottima tecnica, con un suono limpido, chiaro e ben puntato le ha permesso di interpretare magistralmente i due impegnativi ruoli assegnati, sostenuta da una evidente capacità attoriale e interpretativa, che gli ha dato la possibilità di passare in pochi secondi e sulla scena (!!) dal personaggio di Giorgetta e quello di Angelica, suscitando entusiasmo e meritati applausi da parte del pubblico.

Altro interprete che ha dato voce a più di un personaggio è stato Kiril Manolov, baritono bulgaro che ha interpretato Michele del Tabarro e Gianni Schicchi nell’omonimo atto.  È molto amato in Bulgaria, Croazia, Germania, Ungheria e Italia per le sue performance nelle principali opere verdiane (Falstaff, Aida, Nabucco, Simon Boccanegra, Traviata) e in altri titoli di spicco, come “Barbiere di Siviglia” e “Don Pasquale”. Dotato di grande presenza scenica e di una voce naturalmente ben proiettata e possente, nonostante la sua abitudine a interpretare ruoli solitamente tragici e/o seri ha dimostrato di sapersi vestire in panni del tutto diversi, comici e spiritosi regalandoci una ottima interpretazione di Schicchi ( a mio modesto parere anche superiore a quella di Michele).

Antonello Palombi, nei panni di Luigi, è stata un’altra piacevole sorpresa: tenore di carriera internazionale (canta anche lui principalmente Verdi e Puccini), è famoso per aver sostituito all’improvviso, nel mezzo dell’opera, il famoso cantante R. Alagna nel ruolo di Radames (Aida) al teatro della Scala di Milano (2006), il quale dopo numerosi fischi ha dovuto abbandonare la scena, lasciando il posto proprio a Palombi.  A parer mio, è uno dei pochi bravi tenori che cantano il voce ma usano in modo intelligente ed equilibrato la messa in maschera, evitando di produrre quel suono eccessivamente nasale e a tratti sgradevole tipico di tanti altri performer con una vocalità simile alla sua.

Degne di complimenti sono anche le interpretazioni di A. Malavasi nei panni di Frugola (Tabarro) e della badessa (Suor Angelica), di N. Petrinsky  in Zia Principessa (Suor Angelica) e in Zita (Gianni Schicchi). Infine, bisogna spendere due parole sull’interpretazione dell’aria  forse più conosciuta di tutto il Trittico :“O mio babbino caro”, cantata da Ekaterina Sadovnikova. Non è sicuramente a livello delle performance delle grandi che vi ci sono cimentate (come Maria Callas o Mirella Freni), ma ha saputo mantenere nell’interpretazione una freschezza e una purezza vocale propria della giovane età del personaggio, non alienandosi troppo dall’atmosfera “leggera” del resto dell’atto e ricevendo numerosi applausi da parte del pubblico.

Un cast complessivamente molto preparato drammaturgicamente e tecnicamente, dai ruoli principali fino a quelli minori. La direzione del maestro Rustioni è stata eccellente, appassionata e coerente con l’idea che Puccini aveva della partecipazione dell’orchestra nel dramma. dinamicamente reattiva ed esplosiva, ha donato quella vivacità di timbri che costituiscono i leitmotiv del “Trittico”. Questi elementi uniti a una regia innovativa ma costruita con criterio e coerenza, hanno contribuito alla realizzazione di un’ottima produzione, capace di far trascorrere una piacevole serata ricca di emozioni e di spunti su cui riflettere.

Aurora Tarantola


Le immagini sono tratte dalla Pagina Facebook Teatro dell’Opera di Roma

© Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma

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