Tre giorni a Martina Franca per ritrovare il filo
di Alessandro Tommasi - 29 Luglio 2020
Il Tour della Ripartenza.
Prima tappa: il Festival della Valle d’Itria.
Il 2 luglio abbiamo ospitato presso il Circolo delle Quinte una puntata dedicata alla ripartenza dell’estate musicale italiana. Alberto Triola, Barbara Minghetti e Nicola Sani hanno ripercorso la strada che li ha condotti dal crollo delle programmazioni alla scelta di ricominciare con nuove energie e nuovi progetti. Per vivere in prima persona l’esperienza dell’Italia post pandemica, dal 21 luglio ho intrapreso un tour che mi ha portato tra Festival della Valle d’Itria a Martina Franca, Macerata Opera Festival e Accademia Chigiana di Siena a toccare con mano la musica che ripopola l’Italia. Questa è la prima tappa del viaggio.
Arrivo a Martina Franca il 21 luglio dopo 11 ore di treno e bus, per venire accolto dalla bianca cittadina pugliese in una placida sera senza vento. Il mattino dopo, dedicato alle prime esplorazioni, è anche l’occasione di respirare l’atmosfera del Festival della Valle d’Itria. La prima cosa di cui ci si rende conto è quanto Martina Franca viva intorno al suo Festival: via Bellini, via Verdi, via Donizetti, via Rossini e via Mercadante circondano la città murata, ai cui confini sta il grandioso Palazzo Ducale, cuore pulsante del Festival. Durante le assolate giornate estive sedersi al Caffè Ducale significa osservare un industrioso avanti-indietro di persone al telefono, ragazzi in maglietta nera e cartellino blu che corrono con plichi di fogli in mano, orchestrali, staff, cantanti che si avvicendano, si fermano un secondo, scambiano una parola e riprendono le loro attività. Girare per i negozi significa rendersi conto che anche il fruttivendolo all’angolo conosce il Festival, è stato almeno una volta a vedere uno spettacolo, sa da dove arrivano i suoi visitatori e sa quanto l’opera abbia portato Martina Franca nel mondo e il mondo a Martina Franca. Forse già constatare questi aspetti della quotidianità di chi vive tra i festival e nei festival è già un ritrovare il filo di Arianna, un capire come uscire dai tortuosi pensieri di questi mesi per rendersi conto di cosa voglia dire per una città risplendere di musica e di vita.
Il riferimento al mito greco non è casuale: proprio ad Arianna il Festival della Valle d’Itria ha dedicato la sua intera programmazione, notoriamente incentrata su repertori minori o sconosciuti, prendendo il via dalla doppietta Borghese Gentiluomo – Ariadne auf Naxos di Richard Strauss e Hugo von Hofmannstahl. Convenientemente presentati rispettivamente nella versione del 1917 (le musiche di scena per la commedia di Molière) e del 1912 (la prima versione di Ariadne, senza prologo iniziale), le due opere nacquero in realtà per un progetto comune, che vedeva il Borghese Gentiluomo terminare con la rappresentazione di un’opera in forma domestica, l’Ariadne per l’appunto. Il 22 luglio è stato proprio il Borghese ad accogliermi, con la direzione di Michele Spotti, la mise en espace di Davide Gasparro, anche voce per i monologhi aggiunti, e l’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, con la partecipazione di Vittorio Prato, Ana Victoria Pitts, Barbara Massaro, Manuel Amati, Nico Franchini, Vassily Solodkyy, Alfonso Zambuto, Alberto Comes, Eugenio Di Lieto e Djokic Strahinja per gli interventi cantati, mentre Fabrizio Di Franco e Matilde Gherardi hanno dominato le numerose scene danzate.
In realtà è complesso parlare di “versione del 1917” per questo Borghese, il cui materiale è stato riorganizzato da Spotti e Gasparro per limare alcune ripetizioni (traendo in questo spunto anche dalla celebre Suite di due anni successiva che è poi la versione più comunemente eseguita) e per togliere alcuni interventi parlati sulla musica, arrivando fondamentalmente a creare una “versione 2020”, con i monologhi pensati da Stefano Massini e in questa data recitati dal versatile Gasparro. L’effetto è stato piuttosto straniante: i tre monologhi, dopo una partenza molto promettente che utilizzava personaggi e figure della commedia come oggetto di una riflessione sul rapporto tra uomo, denaro e cultura, si sono ben presto allontanati dal Borghese, per perdersi un po’ in un labirinto ridondante di luoghi comuni e rivendicazioni sul valore dell’arte e del musicista come professione che, per quanto assolutamente condivisibili, hanno ostacolato il fluire dello spettacolo facendosi nettamente percepire come fuori luogo e non nel senso di brechtiano spaesamento che ricerca programmaticamente Massini. Non che l’idea non fosse buona e non che non si possano toccare i grandi capolavori del passato, al contrario, tutto si può fare, ma (per citare un noto film di Woody Allen) “basta che funzioni”.
Cosa significa “funzionare”? Sicuramente una componente di valutazione emotiva e soggettiva è implicita, sarebbe sciocco non ammetterlo, ma perché un progetto funzioni una comprensione profonda e vera delle istanze dell’opera con cui ci si relaziona è fondamentale, anche se poi si vuole procedere per puro contrasto: comprensione che può essere anche emozionale, non necessariamente uno studio delle fonti o una riflessione musicologica o letteraria sull’estetica del duo Strauss-Hofmannsthal (cose peraltro ampiamente presenti nel bellissimo volume-programma del Festival). I monologhi invece, non tanto con il loro distanziarsi dalla trama, quanto con il carattere moraleggiante e una certa ripetitiva insistenza, si scontravano duramente (e senza uscirne illesi) con l’arguta leggerezza delle musiche di Strauss, peraltro condotte magnificamente da Michele Spotti e un’Orchestra del Petruzzelli veramente in forma sfavillante. La partitura è nota per essere assai impervia ed esporre al rischio ognuno dei musicisti del suo asciutto organico (36 strumentisti per 41 strumenti), ma Spotti ha tenuto con chiarezza il filo del discorso, muovendosi con acume nel contrasto tra antico e nuovo, tra sinfonico e cameristico, tra estroversione ed introversione che è così caratteristico del Borghese. Un plauso meritatissimo alle prime parti (e in particolar modo al primo violino) e l’augurio di risentire il giovane direttore cimentarsi con questa partitura in futuro, quando alla nitidezza della concezione si potrà unire un ancor più profondo scavo nei meandri di elegante nostalgia e negli slanci di nervosa vitalità del capolavoro straussiano.
Questa discrepanza tra regia e direzione ha caratterizzato due giorni dopo anche il secondo grande appuntamento del Festival di Martina Franca: un’Arianna a Nasso che, staccata dal suo Borghese, vive tranquillamente di vita propria. Un’operazione veramente particolare quella sull’Arianna, qui presentata in italiano in una nuova versione ritmica di Quirino Principe con Valeria Zaurino, per superare il problema della lingua tedesca (data dal ricorrere esclusivamente a cantanti italiani o italiani d’adozione causa Covid) e per perseguire quel filone di peculiarità che contraddistingue il Festival della Valle d’Itria. Discrepanza perché le oggettive complessità registiche, non solo dell’Ariadne in sé ma anche della situazione emergenziale, hanno reso complessa la gestione dello spettacolo, che nella regia di Walter Pagliaro si è costruito su una visione didascalica e in alcuni punti persino goffa, nonostante alcuni passaggi di deciso effetto. Meraviglioso l’impatto, ad esempio, dell’entrata di Bacco accompagnato dai danzanti Arlecchino, Scaramuccia, Truffaldino e Brighella, anche per il vorticoso vento che mulinava nel cortile di Palazzo Ducale e che ha gonfiato gli svolazzanti e meravigliosi costumi curati da Giuseppe Palella, mentre la musica caricava di tensione il primo sguardo tra Arianna e Bacco.
Meno interessante invece quando la regia si arenava su un carattere un po’ naïf (a meno che non si trattasse di un contorto riferimento all’innocenza come filo d’Arianna espresso da Jankélévitch). Così ad esempio la fune tirata tra Bacco e Arianna o la barchetta di legno in mano alle ninfe condotta su e giù per flutti immaginari a indicare l’arrivo del semidio. E dire che la parte musicale non aveva nulla di impacciato: l’Orchestra del Petruzzelli sotto la direzione di Fabio Luisi è stata portentosa nel superare le difficoltà logistiche con tale, sobria eleganza da far scaturire con naturalezza tutte le ricchezze della partitura (seppure con gli inevitabili difetti che la versione del ’12 si porta dietro). E il cast ha dato veramente una prova eccellente nel lavoro con il grande direttore italiano, a partire dall’Arianna di Carmela Remigio, seria ma non rigida, dai passaggi morbidi ed omogenei, pronta a perdersi nel suo mondo ignorando regalmente Zerbinetta, tanto quanto a ritrovare subitaneamente slancio nell’amore per Bacco. Bacco che è parte veramente ingrata fin dalle prime espostissime entrate, ma che Piero Pretti ha superato con dignità e maestosità, ben evidenziando l’aspetto maturo di un Bacco introdotto come fanciullo, ma riscopertosi dio di fronte all’amore per Arianna dopo aver superato le sofferenze causategli dalla maga Circe. Poderosa la resa tecnica di Jessica Pratt nel ruolo di Zerbinetta, la cui celebre scena nella presente versione è ancora più lunga e acuta (da Re a Mi). La voce nitida, definita eppure non aspra del soprano inglese ha veramente dominato la scena, in una Zerbinetta dai molti languori, ma che poteva avere una ancora più disinibita malizia e frivola eleganza, esplicitando con ancor più chiarezza gli abissi che la dividono dalla tetra Arianna, ormai pronta alla morte. Molto buono anche l’Arlecchino di Vittorio Prato, guascone al punto giusto e, dopo un primo terzetto un po’ dubbio, ben riuscite le parti delle ninfe Naiade (Barbara Massaro), Driade (Ana Victoria Pitts) ed Eco (Mariam Battistelli), così come lo Scaramuccia di Solodkyy, il Truffaldino di Di Lieto e il Brighella di Amati. Carini gli inserimenti dell’introduzione, recitata dal terzetto Monsieur Jourdain (Marco Bellocchio), Dorante (Marco Fragnelli) e Dorimène (Sara Putignano), che hanno permesso l’inquadramento dell’opera nella sua propria cornice di teatro nel teatro.
Un’ultima considerazione riguarda la versione in italiano: nonostante non se ne sentisse la necessità prima di quest’anno pandemico, visto il connubio superbo tra i versi di Hofmannsthal e la musica di Strauss, la versione di Principe è forse la miglior versione possibile. Il risultato dunque è, per quanto piuttosto alienante (non solo per l’abitudine al tedesco, ma perché la musica chiama intimamente e insistentemente la lingua originale), sorprendentemente scorrevole, favorendo anzi un ulteriore ammorbidimento delle linee vocali. Una di quelle esperienze per cui è possibile affermare che quell’anno, a Martina Franca, a sentire l’Ariadne auf Naxos in italiano tu c’eri.
E sempre rimanendo sulle esperienze caratteristiche, a separare i due concerti è stata una gradevole serata presso la Masseria Palesi, nel ciclo “Il canto degli ulivi”, in cui il mezzosoprano siciliano José Maria Lo Monaco ha sostituito all’ultimo una Veronica Simeoni fuggita a coprire l’Azucena del Trovatore maceratese (ma di quello parleremo nel prossimo articolo) affrontando con il pianista Michele D’Elia un programma assai coerente con il tema del festival: Lamento di Arianna di Monteverdi, la cantata Arianna a Naxos per voce e pianoforte di Haydn, Fantasia in Re minore per pianoforte e “Deh, per questo istante” da La clemenza di Tito di Mozart, “Solo un pianto” dalla Medea di Cherubini, la Parafrasi su “O du, meinholder Abendstern” da Tannhäuser di Wagner/Liszt, “Dopo l’oscuro nembo” da Adelson e Salvini di Bellini e “When I am Laid in Heart” da Dido and Aeneas di Purcell. Un programma molto ben pensato, anche se più funzionante sulla carta che in un’esecuzione serrata senza intervallo, che ha beneficiato di una buona esecuzione da parte di entrambi i musicisti e naturalmente della location splendida (per cui però serviva decisamente un pianoforte migliore) e del pigro venticello che ha rinfrescato la successiva degustazione di primitivi nella campagna pugliese. Un altro di quei momenti di magia che il Festival della Valle d’Itria riesce a creare sul suo territorio e che spero possano ricevere solo slancio dal successo di quest’edizione.