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La Proserpina di Wolfgang Rihm

di Silvia D'Anzelmo - 12 Giugno 2016

La Proserpina di Wolfgang Rihm chiude in bellezza la prima edizione del Fast Farward Festival curato da Giorgio Battistelli; l’opera è andata in scena il 7 e il 9 giugno al Teatro Nazionale in un nuovo allestimento prodotto dal Teatro dell’Opera in collaborazione con il Goethe-Institut Rom. A svelarci il senso di questo intenso monodramma è stato il compositore stesso che, nella mattinata di martedì 7, ha incontrato il pubblico presso la Sala Presidenziale del Teatro dell’Opera.

Nato nel 1952 a Karlsruhe, Wolfgang Rihm è sicuramente uno dei compositori contemporanei più interessanti e prolifici, è stato allievo di Karlheinz Stockhausen e ha mosso i suoi primi passi nell’ambiente avanguardistico della Scuola di Darmastadt. Nella conversazione con il pubblico egli stesso ha dichiarato di essersi sempre ritenuto figlio di quell’avanguardia: “ero amico di molti artisti e allievo di Stockhausen per cui non c’è mai stata una vera separazione, piuttosto una continuità”. Nonostante questo, Rihm comincia a frequentare la scena negli anni Settanta proprio nel momento in cui la Neue Musik comincia a perdere la sua spinta propulsiva irrigidendosi; il giovane compositore si dedica a esplorazioni eclettiche all’insegna della commistione di generi e stili, accantonando l’ideale di purezza e oggettività dell’avanguardia.

Rihm è musicista dotato di forte vocazione drammatica, il suo teatro musicale sfrutta le più svariate forme di espressività: dai mezzi musicali a quelli scenici, dall’opera da camera al grand opéra. I suoi lavori più importanti sono stati l’opera da camera Jacob Lenz del 1978 su testo dello scrittore e drammaturgo tedesco Georg Büchner; e Die Hamletmachine del 1987 tratto dal dramma omonimo di Heiner Mueller in cui “Amleto si trova faccia a faccia con i fantasmi del suo passato e con le macchine della sua epoca”.

Considerato il leader del movimento giovanile della Neue Einfachhet ossia della Nuova Semplicità, Rihm nel suo teatro musicale analizza la lacerazione presente nell’uomo e nella civiltà contemporanea. Egli dà grande risalto al potenziale espressivo della musica, al suo impulso vitale e alla molteplicità dei significati che essa può veicolare; anche nella scelta dei testi da musicare percepiamo questa attenzione alla pluralità dei punti di vista. Egli stesso ha dichiarato di preferire Hölderlin, Nietzsche e Artaud perché non si spiegano in maniera univoca ma sono polivalenti e lo aiutano a scoprire diverse realtà. Spesso il compositore arriva addirittura a manomettere i brani originali rielaborandoli con testi di autori diversi in una sorta di montaggio.

Non è questo il caso della Proserpina che Rihm ha tratto, quasi senza alcun cambiamento, dall’opera teatrale di Goethe andata in scena nel 1815. Durante la conferenza il compositore ha parlato ampiamente di quest’opera rivelando al pubblico le modalità secondo le quali  è stata concepita e realizzata.

Nella costruzione del melologo di Proserpina, il compositore non ha sentito il bisogno di stravolgere il testo perché lo ha trovato estremamente melodico e, leggendolo, è riuscito istintivamente a immaginarne la musica. Rihm ha dichiarato di essere rimasto affascinato dalla situazione in cui si trova questa donna abbandonata a un destino che da sola non potrà mai affrontare. Goethe, infatti, manipola il racconto mitico eliminando la redenzione della povera ninfa. Il poeta omette sia la premessa, ossia il desiderio di Venere di estendere il suo potere d’amore anche presso gli inferi; sia l’epilogo nella quale è contenuto il compromesso per cui Proserpina passerà metà dell’anno negli inferi e l’altra metà sulla terra con sua madre Cerere. In questo modo Proserpina risulta legata al regno dell’oltretomba per sempre, imprigionata in un destino terribile.

Per la stesura di questo monodramma Goethe si era ispirato alla figura della sorella Cornelia imprigionata in un matrimonio infelice che la portò a una morte prematura per le profonde sofferenze. Questo aspetto ha particolarmente interessato il compositore che non considera Proserpina come una figura lontana, persa nell’antichità, ma come una donna calata in una realtà che non la favorisce e non la stimola. Per Rihm, Proserpina potrebbe essere messa in scena come una casalinga infelice legata a un uomo che non ama. Per il compositore ognuno di noi porta dentro di sé elementi molto arcaici, e rivolgere la propria attenzione a personaggi del passato che perdurano nel presente non è un richiamo sterile all’antico ma qualcosa che ci riguarda direttamente.

Il dramma di Proserpina è terrificante ma il suo melologo, scritto da Rihm appositamente per la voce di Moja Erdmann, è incantevole e sembra in contrasto con la situazione in cui la donna si trova. In realtà, il compositore svela che la bellezza è stata attentamente ricercata nella costruzione del melologo. Per Rihm, infatti, Proserpina non fa parte degli inferi, rappresenta l’“altro”, il diverso: è stata condannata a vivere nell’oltretomba come corpo estraneo; E aggiunge che il teatro moderno non è fatto di intrighi che proseguono verso lo scioglimento nell’azione ma è il superamento di stati psicologici per cui è la musica il fulcro di tutto: è un teatro che si sviluppa dalla musica. Per questo la rappresentazione di Proserpina come essere “altro” rispetto al luogo in cui si trova non poteva che esprimersi nella sua voce.

Nella pièce di Goethe l’azione manca totalmente, i personaggi vengono eliminati e tutta la storia si svolge nella mente di Proserpina che sembra trovarsi in uno stato di confusione e semicoscienza. Il poeta immagina una sorta di tableau vivant in cui la figura statuaria di Proserpina recita monologhi quasi senza muoversi. Questa impostazione viene apparentemente mantenuta dal compositore che si concentra sul monodramma di Proserpina senza inserire altri personaggi significativi; in realtà, il compositore dichiara di aver sentito il bisogno di introdurre maggiore azione e di averlo fatto attraverso gli interventi del coro e dell’orchestra che diventano lo spazio psicologico in cui Proserpina si ritrova, in cui scopre altre voci con cui dialogare.

Assistendo allo spettacolo dopo la conferenza si nota una forte congruenza tra la concezione del compositore e la messa in scena sia nella regia di Valentina Carrasco che nella scenografia di Carles Berga ispirata alle opere di Clay Apenouvon.

Il sipario si alza ma davanti ai nostri occhi non appare il classico ambiente infernale brullo, cupo e buio; Carles Berga ambienta il dramma di Proserpina in una camera nuziale in cui l’elemento dominante in assoluto è un enorme letto matrimoniale. Questa scenografia rafforza quella che è l’idea di Rihm riguardo i personaggi “archetipo” come Proserpina: ella è antica ma non lontana, il suo dramma potrebbe essere quello di una donna di oggi imprigionata in un ambiente ostile.

Questa enorme camera da letto è interamente coperta da veli di un tenue color rosa carne che evocano i quadri di Ingres e il periodo rosa di Picasso. I veli avvolgono mobili, oggetti e persone come se la casa fosse abbandonata e sospesa nel tempo, il loro colore rende l’ambiente meno lugubre, anzi quasi immerso in un atmosfera di sogno. La camera così allestita rappresenta l’inconsapevolezza di Proserpina e sottolinea la sua natura estranea rispetto agli inferi: è il mondo confuso della sua mente, ancora perso nel passato felice della sua giovinezza.

L’eroina pian piano scopre il nuovo stato in cui si trova: mentre le figure delle sue amiche d’infanzia, le ninfe, la circondano, Proserpina sembra assente, rigida; percepisce l’anomalia di quella situazione e si concentra per sciogliere le nubi che ottenebrano la sua mente: le immagini del suo rapimento, della madre che invano tenta di salvarla arrivano pian piano seguendo una sorta di flusso di coscienza. Le percussioni sottolineano lo stato dell’eroina battendo colpi incessanti che aumentano nell’intensità e nel ritmo man mano che la sua ansia cresce.

Guardandosi intorno, Proserpina scopre sotto il velo i suoi oggetti personali coperti da una materia nera pesante e vischiosa; il suo turbamento aumenta e comincia ad andare alla ricerca disperata di sua madre modulando il suo canto con violenti sbalzi dall’acuto al grave che sottolineano il suo stato di agitazione. Mentre si muove in maniera affannosa, l’intera scena viene coperta da una cortina nera della stessa materia di cui erano rivestiti i suoi effetti.  Attraverso la cortina, illuminata dalla fioca luce di una lampada, scorge la madre: nient’altro che un fantoccio incapace di soccorrerla.

La cortina di plastica nera si apre, ora la camera è senza veli e la materia nera, densa come la pece, ha invaso l’intero spazio; l’eroina è ormai consapevole di trovarsi negli inferi, ha sciolto l’inganno che velava la sua mente trovandosi davanti una realtà di morte. Impiccato sopra il letto nuziale, ella scopre il fantoccio del padre a cui si rivolge con balbettii quasi isterici. Proserpina scopre di essere totalmente sola in questa sua nuova condizione e piange lagrime amare sul corpo-fantoccio del padre che l’ha condannata a quella esistenza di morte, sacrificata a uno sposo orribile.

In questo clima di angoscia, arriva rotolando una borsa nera animata, resa in scena da un uomo raggomitolato e avvolto nella plastica nera. La borsa porge a Proserpina un succoso melograno: l’eroina, assetata, lo prende e lo mangia; ella gode di quel succo fresco che sembra riportarla alla vita di un tempo, quando era una giovane spensierata. A questo punto la sua condanna è completa.

Dall’enorme letto nuziale escono donne inanimate, mostruose, avviluppate interamente nella plastica nera, simbolo di morte: sono le Parche che la dichiarano loro regina. Il senso di asfissia provato dall’eroina viene reso molto bene dalla regista che fa muovere il gruppo di donne come fossero una. Tutte si riversano su Proserpina che cerca di liberarsi ma non ci riesce: le sono addosso, la toccano ovunque creando un senso di forte oppressione. La materia vischiosa di cui sono coperte comincia ad aggrovigliare anche Proserpina che assiste con orrore a questa trasformazione. Alla fine Le Parche la trascinano fino al letto nuziale a cui la legano immobilizzandola per sempre in questo destino senza via d’uscita.

In questo percorso verso la presa di coscienza della sua condizione, Proserpina si confronta con la morte: la materia nera e vischiosa che pian piano invade tutto compresa l’eroina. L’eliminazione del compromesso finale nel testo di Goethe viene mantenuta in quest’opera e intesa come impossibilità di un qualsiasi tipo di redenzione.

Questo spettacolo è stato curato fin nei minimi dettagli, ogni cosa è al posto giusto, non c’è una stonatura, un’imperfezione: tutto concorre a creare nello spettatore il senso di oppressione provato dall’eroina. La direzione di Walter Kobéra è impeccabile e il soprano Moica Erdmann riesce a esprimere con grande trasporto i vari stati psicologici attraversati da Proserpina nel suo viaggio interiore verso la consapevolezza. Credo che spettacoli del genere dovrebbero essere proposti con maggior frequenza al pubblico, magari accompagnati da introduzioni che ne aiutino a sciogliere il significato. Proverò sempre un grande amore per il melodramma tradizionale ma questa è la musica della nostra epoca, il teatro che riguarda noi, il nostro sentire individuale e collettivo.

Silvia D’Anzelmo


 

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