Onegin attraverso il velo
di Alessandro Tommasi - 28 Febbraio 2020
Il capolavoro di Čajkovskij all’Opera di Roma
enerdì 21 febbraio è andata in scena la seconda recita al Teatro dell’Opera di Roma dell’Evgenij Onegin di Čajkovskij. Lo spettacolo, con la direzione di James Conlon e la regia di Robert Carsen, ha ottenuto un generale successo. E ne ha ben ragione: partendo dalla regia di Carsen, con le scene di Michael Levine, le luci di Jean Kalman e le coreografie di Serge Bennathan, che è di chiaro e diretto impatto. Teso a restituire una maggiore centralità al ruolo eponimo, togliendone un po’ dalla protagonista effettiva che è Tatjana, l’One si è apertogin romano con un flash forward all’ultima scena, Onegin seduto da solo sulla sedia su cui Tatjana lo abbandonerà per sempre, con un velo ad offuscarne la vista per il pubblico. Da lì, tutta l’opera è stata vissuta come un ricordo di Evgenij Onegin stesso, interpretazione sottolineata dalla scena analoga che ha aperto il secondo atto durante il preludio orchestrale. Per poter avere un’immagine più chiara di tutto lo spettacolo, dunque, è necessario sospendere il giudizio fino al finale e solo in seguito rileggere quanto si è appena visto. Soltanto il momento in cui Onegin si renderà conto di essere innamorato di Tatjana, infatti, permette di comprendere molte delle scelte precedenti. Finalmente raggiunto dal sentimento, il dandy russo inizierà infine a muoversi, a correre, a riempire dinamicamente il palco, quando prima appariva una figura imbalsamata, limitata.
L’Onegin visto da Carsen è un uomo che non sa ciò che fa, che non è padrone della sua vita, che osserva il mondo attraverso un velo senza potervi veramente interagire, ma che maschera questo suo limite come un disilluso distacco da uomo di mondo. La lettura è interessante e fondamentalmente coerente con alcune delle caratteristiche di Onegin stesso (più dell’originale puškiniano che di quello di Čajkovskij, però), ma presenta anche dei limiti. Markus Werba è estremamente, eccessivamente rigido nei panni di Onegin, sia vocalmente che attorialmente, una rigidezza che ha dell’innaturale. Guardandolo non ci si capacità di come Tatjana abbia potuto provare attrazione per un personaggio che dovrebbe rappresentare al contrario il cinico, beffardo ma elegante e disinibito seduttore. Ne consegue che i rapporti nel primo atto risultano un po’ deboli: dove Čajkovskij adotta un ritmo meno incalzante e travolgente, questa rigidità inibisce i dialoghi tra i personaggi e la scintilla non scocca.
Ciò però in cui Carsen eccelle veramente è nell’abilità con cui riesce a costruire la scena con minimi elementi, raggiungendo picchi di virtuosismo nel saper evidenziare la distanza tra dentro e fuori con il semplice uso di qualche sedia o delineando gli spazi per sottrazione grazie ad un tappeto di foglie autunnali, che definisce la stanza di Tatjana nel secondo quadro o lo spazio circolare del terzo, al centro del quale si pone Onegin nel momento in cui rifiuta la ragazza e fondamentalmente condanna entrambi a una vita di sentimenti non ricambiati. Il tappeto di foglie, peraltro, fa parte di un altro dei meriti dello spettacolo: l’uso dei colori e la potenzialità suggestiva. Le scene minimaliste, per colori a tinta unita proiettati su semplici superfici bianche, si scontravano con gli sfarzosi costumi e gli arredi ottocenteschi. Dall’attrito tra i due effetti nasceva un sapore di vera Russia, rafforzato dai colori autunnali del primo atto o dai colori scuri della scena del duello nel secondo. Questa è stata il vero cuore dello spettacolo: i personaggi, dietro al velo che prima aveva caratterizzato i momenti retrospettivi di Onegin sopra menzionati, si muovevano nel buio della notte (disturbato solo dall’apparizione un po’ kitsch di una falce di luna) in un gioco di silhouette, rafforzando ancor di più l’impressione che in fondo sia Onegin che Lenskij non siano che burattini nelle mani delle proprie stesse convinzioni, incapaci di sfuggire a delle rigide convenzioni autoimposte che portano i due fino al reciproco annientamento (ché se è vero che a morire è Lenskij, Onegin non subisce sorte migliore nel sopravvivergli). Semplicemente geniale, invece, l’utilizzo della Polacca che apre il terzo atto, che compare senza soluzione di continuità dal duello a rivestire di uno sfavillante abito mondano l’impassibilità passiva del protagonista.
Sul versante musicale ci sono meno ambiguità: la direzione di Conlon è buona, ma rimane sempre nel mezzo. Sotto le sue mani la scrittura di Čajkovskij non raggiunge mai una sontuosa maestosità, né si lancia libera e vibrante negli influssi popolari che pure si rincorrono nella partitura, né realizza quella raffinatezza di orchestrazione nella cura di cesello dei timbri orchestrali. Questo nonostante un’orchestra in buona forma, su cui soprattutto i legni hanno saputo convincere pienamente. Conlon fa andare molto bene, senza troppi problemi e insieme l’orchestra, tenendola bene col palco, salvo qualche piccolo scollamento con il coro e qualche momento in cui ciò che mancava con i cantanti era la presenza di un vero e proprio respiro musicale comune, che facesse veramente intersecare le linee melodiche con gli strumenti dell’orchestra.