Meno grigi, più Verdi: spiegare l’Italia agli italiani
di Emanuela Borghi - 18 Maggio 2018
Che Giuseppe Verdi sia il più grande compositore italiano, autore dei più noti melodrammi al mondo, lo dice qualsiasi manuale di storia della musica e qualsiasi melomane, ma che sia stato un antropologo, un “Lévi Strauss padano”, lo scrive solo Alberto Mattioli nel suo Meno grigi, più Verdi. Come un genio ha spiegato l’Italia agli italiani. L’autore, che ben conosce l’immensa mole di carta che è stata impiegata per ricostruire la biografia, l’epistolario, le edizioni critiche, più o meno filologicamente informate, non si sofferma sui dettagli prettamente musicali, pur avendone la competenza, ma ci offre un Verdi arcitaliano, anti-italiano, uomo e soprattutto uomo di teatro. Il teatro è la sua lente privilegiata per guardare il mondo che lo circonda e per criticare aspramente quegli italiani riducibili a stereotipi ancora attuali. Le sue opere sono una versione musicale di quell’esperimento letterario di tassonomia della natura umana che Balzac intraprese nella Comédie humaine, passando attraverso donne che riscattano la loro vita dissoluta nel sacrificio, figli in lotta coi padri, uomini che odiano le donne e padri che si struggono per la virtù perduta delle figlie.
In quello che Mattioli ama definire il suo librino, molti dei miti che hanno ammorbato le pagine scritte su Verdi vengono finalmente sfatati. Primo fra tutti quello che vede Verdi come un amante della tradizione, inchiodato ad un passato romantico atemporale e cristallizzato. Colpevole di questo malinteso è la citazione onnipresente “Tornate all’Antico, e sarà un progresso.”, estrapolata dal suo contesto. L’autore ci ricorda infatti che Giuseppe Verdi era un uomo di provincia, ma proiettato nel mondo, curioso ed informato, apertissimo al progresso, sia tecnico, che artistico. Un padano con lo sguardo rivolto sempre alle novità che circolavano nella capitale del Mondo: Parigi.
Il compositore, tutt’altro che accanito passatista, non solo promuove tipi umani inediti per tensione e realismo, ma rinnova anche il teatro d’opera da un punto di vista drammaturgico ed estetico. Egli filtra attraverso la musica ed il teatro la categoria del grottesco, che era emersa dalla prefazione del Cromwell di Victor Hugo. La compresenza nello stesso soggetto di luci ed ombre, di deformità e bellezza, di bontà e di perfidia, appare agli occhi di Verdi come una rivelazione, il modo forse più efficace per cogliere la realtà nelle sue contraddizioni e portarla sul palcoscenico. Attraverso Rigoletto Verdi personifica questa categoria, mettendo in scena un uomo deforme, un padre amorevole che al contempo si beffa dei tormenti di un altro padre, Monterone, la cui figlia fu vittima della stessa amara sorte che toccherà a Gilda. Mattioli, ammiccando all’attualità, ironizza sulla rappresentazione maschilista e machista che caratterizza oggi, come allora, lo stereotipo dell’uomo italiano che si fonda sulla riduzione della donna ad un oggetto, ad una cosa da gettare via dopo l’uso.
Un altro personaggio complesso, a tratti grottesco, che permette di rinnovare il solito triangolo soprano- tenore- baritono, è Azucena. Sfruttando la sua azione destabilizzante Verdi propone una modernità innovatrice, che non si gioca sul piano musicale, ma su quello drammaturgico. Alberto Mattioli sottolinea proprio la componente teatrale, attoriale e performativa che guida la creazione dei personaggi che animano le opere verdiane. Lontano dal chiudersi in tecnicismi, Verdi sceglie i suoi cantanti secondo parametri che esulano dalla mera capacità tecnico-vocale. Mattioli ci sfata così un altro mito, quello della voce verdiana, un mito sicuramente molto più caro ai melomani, che non a Verdi stesso. L’autore del librino tenta di salvare Verdi dai verdiani, da quei melomani che si tramandano buffe e pittoresche imprese al fine di conservare le opere cristallizzandole, in modo da restituirle sempre uguali a loro stesse, pure, come Verdi le voleva, ma secondo un modello che esiste solo nella loro melodrammatica fantasia. Moltissimo si è scritto sulla voce brutta che il compositore richiese per Lady Macbeth, tuttavia nessuno è in grado di testimoniare cosa fosse una voce brutta secondo i canoni della metà del diciannovesimo secolo. È certo, e ricavabile dalle lettere scritte da Verdi e citate nel testo, che il compositore non avesse un’attenzione totalizzante nei confronti della qualità canora dell’interprete. Dalla lettera del 5 novembre 1877 a Giulio Ricordi capiamo che Adelina Patti è considerata sublime grazie ad un equilibrio perfetto fra canto e recitazione ed è questo l’elemento che conquista la sensibilità non del musicista, bensì dell’uomo di teatro.
L’ultimo mito da sfatare è quello che consacra Verdi a massimo interprete del Risorgimento italiano. L’impegno politico e la tensione agli ideali patriottici di Verdi sono innegabili, ma, stando alla produzione operistica, vi è una sola opera dichiaratamente risorgimentale: La battaglia di Legnano. Verdi, con il suo rigore, il suo impegno politico, la sua cultura e la sua curiosità verso tutto ciò che era modernità e progresso, trascende il Risorgimento per incontrare la contemporaneità e diventare quel fenomeno massmediatico che ancora oggi concorre a rendere mondiale un prodotto nazionalpopolare, di gramsciana memoria.
Alberto Mattioli non può che chiudere il suo magnifico librino con l’augurio che si riesca a riscoprire la potenza culturale e comunicativa dell’opera di un Verdi libero dalla condizione di icona museale e del quale abbiamo bisogno oggi più che mai.